Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

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Poesie di Pasolini

Epigrammi e Strofe (formato .txt)

Nacque a Bologna il 5 marzo 1922, dove - dopo vari spostameni dovuti alla professione del padre, militare di carriera terminò gli studi liceali nel 1945 si laureò in lettere con una tesi su Giovanni Pascoli. Rifugiatosi durante la guerra nel paese natio della madre, Casarsa della Delizia in Friuli, vi fondò una scuola privata e vi rimase fino al 1949, anno in cui, per uno scandalo legato alla sua omosessualità, si trasferì a Roma, dove prese a vivere di collaborazioni  editoriali e giornalistiche. Nel 1955, insieme con Francesco Leonetti e Roberto Roversi, fondò la rivista «Officina»,  conquistandosi in breve - grazie al successo di romanzi come Ragazzi dí vita e Una vita violenta -una notevole fama,  ulteriormente accresciuta dal suo debutto nella regia cinematografica, avvenuto nel 1961 con Accattone. Entrato nel comitato dí direzione della rivista «Nuovi Argomenti», si divise fra l'attività di regista, quella giornalistica (varie testate, fra  cui  il «Corriere della Sera» e il settimanale «Tempo») e quella di consulente editoríale (soprattutto per la Garzanti).  Morì nel 1975 a Roma, assassinato in circostanze non ancora del tutto chiarite.

La parabola poetica di Pier Paolo Pasolini muove da una forte dislocazione del codice ermetico., operata nella plaquette Poesíe a Casarsa (1942) facendo reagire un pertorio. di immagi ortodossamente. analogico con uno strumento linguistico ostico e affatto inedito, fornito dal dialetto friulano parlato a est del Tagliamento: un dialetto del tutto privo di tradizione scrítta, e perciò particolarmente idoneo a funzionare da banco di prova per una ricerca sperimentale volta a rifondare o a costruire ex novo la lingua della tradizione lirica italiana. Il ríschio della scommessa linguistica vemacolare - víeppiù articolata e approfondita nel corso dei dodici anni che separano Poesie a Casarsa da La meglio gioventù (1954) - sembrava trovare una sorta dí compensazione psichica nel fatto che il friulano era il dialetto della madre del poeta, sicché la sua adozione poteva risultare in definitiva una consolante riconquista delle proprie radicí, e insieme un modo per dotare la privatissima discesa nell'inconscio, operata attraverso l'atto idiomatico, di una solida base antropologica. La scelta dialettale, in altri termini, consentiva a Pasolini di utilizzare il repertorio tematico dell'ermetismo come fosse una sorta di materiale neutro su cui impiantare una ricerca psichica e linguistica che esauriva di per s -e l'investimento individuale puntato sul reperimento di strade nuove per la civiltà letteraria a venire. E la conferma di tale atteggiamento viene dalla constatazíone che la coeva produzione in lingua, raccolta poi nel volume L'usignolo della Chiesa Cattolica (1958), presenta nel suo complesso caratteri affatto differenti. Se gli assi tematici risultano abbastanza vicini a quelli de La meglio gioventù, i registri espressivi appaiono invece lontanissimi: si va dal poemetto in prosa al restauro di generi metrici antichí come il madrigale, dal dialogo lirico (anch'esso in prosa) a strofette di settenari che ríecheggiano le canzonette sei-settecentesche, da forme miste di versi e prosa a componimenti in endecasillabi sciolti, fino a veri e propri poemetti in versi (come ad esempio L'Italia), capaci di recuperare anche una sostanziosa istanza narrativa. Priva della zona di sicurezza offerta dalla sperimentazione sul dialetto, la poesia in lingua di Pasolini rivela tutta l'inquietudine stilistíca cónnessa con la ricerca di un codice espressivo alternativo rispetto alla koinè ermetica, ora orientato verso una iperletterarietà consapevolmente manieristica, ora fortemente tentato da un allegorismo di stampo medioevale, ora intrigato in toni più colloquiali, soprattutto in coincidenza col prevalere tematíco dello scavo autobiografico. Ne risulta, secondo la definizione di Pier Vincenzo Mengaldo, un «intreccio di autenticità e manierismo... quasi insolubile» dominato dal «gusto formale del pastiche»: che in fondo altro non è, visto coi senno di poi, se non una marcia di avvicinamento a tappe forzate a una diversa dicibilità del reale. Decisive in questa direzione appaiono le riflessioni svolte da Pasolíni su «Officina»: la categoria dei «neo -sperimentalismo» - coniata dal poeta sulle pagine della rivista nel 1956 e definita un anno dopo (nell'articolo La libertà stilistica) «una zona franca, in cui neorealismo e postermetismo coesistono fondendo le loro aree linguistiche: una specie di fondo comune che, graduandosi, viene a colorare di una tinta che non è più semplicemente neutra un contingente cospicuo della poesia scritta in questi ultimi anni» - sembra descrivere con precisione l'orientamento della produzione poetica pasoliniana degli anni Ciquanta, soprattutto se correlata con quest'altra affermazione, presente nel medesimo articolo: «La stessa passione che ci aveva fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che ímponevano libere esperimentazioní inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone, dunque, esperímentazíoni stilistiche di tipo radicalmente nuovo». Fusione di aree linguistiche apparentemente inconciliabili alla luce di un rapporto coi mondo che riscopre come categorie poetiche l'eticità e  l'ideologia: e questa, a ben vedere, la sostanza autentica de Le ceneri di Gramsci (1957), la raccolta di poemettí che segna probabilmente il punto più alto della parabola creativa dell'autore. La massiccia adozione della terzina dantesca evidentemente mediata dai Poemetti pascoliani e comunque variamente dislocata tanto nella versificazione (non sempre endecasillabica) quanto nella natura di rime che spessissimo si riducono ad assonanze o vaghe omofonie, e talora si annullano del tutto - denuncia fin troppo scopertamente un'opzione allegorico-didascalica in cui Roma diviene un paradigma mitico tendenzialmente "totale", e in cui 1`ernarginazione" soggettiva dell'intellettuale immigrato e omosessuale si collega a quella oggettiva del sottoproletariato urbano sotto il segno incancellabile di una possibile alternativa storica e culturale. La «disperata / passione di essere nel mondo» si trasforma così da puro dato psíchico in una sorta di simbolo aurorale e palingenetico, che rifonde e rigenera l'opposizione ideologica in un affiato comunitario («Come i poveri povero, mi attacco / come loro a umilianti speranze, / come loro per vivere mi batto // ogni giorno») da cui trapela lo sforzo di superare una volta per tutte la contraddizìone e la scissione dell'intellettuale borghese, quell'«oscuro scandalo I della coscienza» sempre più lucidamente avvertito come il maggior ostacolo da abbattere o aggirare nella marcia di avvicinamento al mondo nuovo. In questo senso il plurilinguismo della raccolta, esattamente plasmato sull'accorpamento di neorealismo e postermetismo (ma in questo secondo caso con forti derive dannunziane), assume a sua volta un indubitabile valore allegorico: col suo costituire di fatto una «zona franca» - zona della conciliazione nella guerra fra linguaggi, ma anche, proprio per questo, dell'altemativa e della palingenesi - esso si candida automaticamente ad essere riconosciuto come l'unico strumento espressivo all'altezza' di quella «passione» comunitaria che è la vera scoperta poetica de Le ceneri di Gramsci. La forma-poemetto - opzione che per Pasolini conserva una forte intenzione antilirica e antinovecentesca, soprattutto evidente quest'ultima nell'accezione più didascalica che narrativa assunta dal genere - viene ulteriormente sviluppata e ampliata, fin quasi a raggiungere dimensioni poematiche, in La religione del mio tempo (1961); e parallelamente sembra accentuarsi, ríspetto alle Cenerì, la volontà di far reagire in modi vieppiù evidenti e precisi un registro linguistico "alto» e di solenne eloquenza con materiali di provenienza realistica e dichiaratamente impoetici, al punto da rendere il gioco fin troppo esibito, facendo talora intravedere la corda di un manierísmo tutto cerebrale. Pare in altri termini esaurirsi a poco a poco il forte investimento psichico che sostanziava la scommessa «neo-sperimentale» conferendo ai suoi prodotti un'impronta affatto originale di vissuto, sì da ridurre progressivamente la prospettiva comunítaria e palingenetica a un imperativo tutto ideologico sempre più incline a tradursi in poesia-manifesto o poesia-documento. Tale infatti appare senza appello la cifra prevalente in Poesia in forma dí rosa (1964) e ancor più in Trasumanar e organizzar (1971). La «vocazione a una opposizione pura», resa esplicita dall'autore nel risvolto di copertina scritto per Poesia informa di rosa, segna un decisivo spartiacque nella produzione poetica di Pasolini, quasi che la realtà degli anni Sessanta (e poi, a maggior ragione, dei primi Settanta) costituisca per lui davvero un'altra storia, in opposizione polare rispetto a quella culminata nell'esperienza di «Offícina». E a tale scontro, irriducibile dialetticamente, il poeta sembra aver voluto dar corpo con La nuova gioventù (1975), rifacimento delle poesie in friulano de La meglio gioventù che Mengaldo non esita a definire «tenebroso» e che denuncia lo iato ormai incolmabile determinatosi fra il sistema delle speranze degli anni Cinquanta e il sistema delle delusioni dell'oggi L'anno di uscita de La nuova gioventù è lo stesso in cui Pasolini venne assassinato. Eppure è difficile pensare alla sua parabola poetica come a una parabola bruscamente interrotta, difficile immaginare ulteriori sviluppi, come sarebbe invece lecito per un autore morto a cinquantatre anni. Certo è che in ogni caso il suo discorso poetico sarebbe ripartito da zero: altrimenti il ciclo della sua opera in versi, che non a caso dal dialetto parte e nel dialetto finisce, non ci apparirebbe, come invece con ogni evidenza appare, così irrevocabilmente concluso.

di Stefano Giovanardi, fonte "diariodipoesia.it"