"IMBOSCATI D'OLTRALPE"



Così Gabriele D'Annunzio, sommo letterato italiano onnipresente su qualsiasi libro scolastico di letteratura, definiva i prigionieri italiani nelle mani del nemico. Un disprezzo derivato dalla cieca ideologia del periodo che vedeva i cittadini come carne da macello, da immolare per la causa patriottica. "Voi non avete diritto alla gloria", scriveva il poeta del Vittoriale, comparando tutti i prigionieri come dei vili traditori, che avrebbero dovuto morire piuttosto che finire nelle "grinfie" nemiche. Eppure molti di loro volle dire la fine della guerra, perché lo stato di prigionia austriaco era sicuramente meglio dello stato di "libertà" nelle trincee italiane, dove piani di battaglia irragionevoli mandavano a immolarsi inutilmente migliaia di soldati o dove il rifiuto di sparare al "fratello d'oltralpe" (i rapporti di vicinanza tra veneti e tirolesi erano ottimi) voleva dire la fucilazione immediata. I campi di raccoglimento austroungarici non erano certo il Grand Hotel, il terreno era fangoso e i pidocchi regnavano ma rispetto alla vita in trincea era un lusso mai visto, e soprattutto non si rischiava la vita. Moltissimi prigionieri non tornarono mai più in Italia. Non fucilati nelle fosse comune come nei Gulag russi, non lasciati morire di congelamento come nella Campagna di Grecia, tantissimi soldati del Re d'Italia rimasero in Austria perché il "sanguinario austriaco", questo mostro dipinto dalla propaganda italiana non era poi così malvagio, anzi, ti faceva sentire meglio che a casa. Lo testimoniano le centinaia di lettere inviate ai parenti. "Io in Italia non ci torno più". Per il "Bel Paese" nel frattempo, dopo la vittoria, non è ancora tempo di festeggiamenti, occorre punire i propri eroi. Il 6% dei soldati al fronte vennero processati, 210.000 le condanne, 15.000 furono gli ergastoli e 4.000 le condanne a morte (di cui 1.000 eseguite). 100.000 furono i renitenti alla leva.
Un numero incredibile se si pensa che la guerra venne vinta, e non era necessaria una così "sovietica" epurazione.

m."m".d.

Il generale ordinò di sparare
anche sui nostri intrappolati nella
“terra di nessuno” per impedir
loro di consegnarsi al nemico.
Su di loro, scrisse, il fuoco
si sarebbe dovuto abbattere
da «implacabile giustiziere»

Di seguito un articolo di Mirko Molteni pubblicato su "la Padania" il 12 agosto 2004, sul "terrorismo di stato".

PIÙ CHE LA GUERRA
POTÈ IL... PLOTONE

Una circolare del Comando Supremo, firmata il 28 settembre 1915 da Cadorna in persona, sentenziava minacciosa: «Deve essere certo ogni soldato di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi». Il Regio Esercito, che aveva gettato al fronte milioni di cittadini li obbligava a essere “coraggiosi”, pena la morte.

TERRORISMO DI STATO
Era vero terrorismo di Stato, volto a spingere gli uomini a non indietreggiare nella prospettiva di uno dei soliti, disperati assalti alla trincea nemica. Se non avessero voluto affrontare il piombo nemico, si pensava, si sarebbero sorbiti il piombo “amico”. E’ bene puntualizzare subito che nelle armate degli altri Paesi questi sistemi erano assai meno diffusi, e comunque usati solo in casi eccezionali. Per esempio, nell’Esercito Francese i soldati erano molto tutelati dal punto di vista giuridico e fin dal gennaio 1915 era stato disposto che qualsiasi sentenza di morte emanata nei confronti dei propri militari dovesse dipendere dalle decisioni del Presidente della Repubblica.
Fu quindi in Italia che la fucilazione sommaria, decisa arbitrariamente dai comandanti sul campo e non sottoposta a nessun controllo politico, divenne uno strumento fin troppo abusato per arginare la diserzione e l’insubordinazione sul campo di battaglia.

LA FOLLIA DELLE DECIMAZIONI
La sfumatura più agghiacciante del fenomeno fu quella delle decimazioni, cioè le fucilazioni di alcuni membri, estratti a sorte, di un reparto dimostratosi “codardo”. Le prime vere decimazioni furono ordinate da Cadorna all’epoca della “Strafexpedition”, quando il nostro fronte era sottopressione sull’altipiano di Asiago. La prima di queste tragedie fu così consumata il 28 maggio 1916, quando un sottotenente, 3 sergenti e 8 soldati furono fucilati dai compatrioti perchè la loro unità, il 141° Reggimento, si era ritirata di fronte agli Ordine di fucilazione alla schiena per 18 soldati e 3 borghesi firmato Graziani Austro-ungarici. Cadorna stabilì persino che i nostri soldati eventualmente intrappolati nella “terra di nessuno” sarebbero stati bersagliati se avessero tentato di consegnarsi prigionieri al nemico.
Nelle allucinanti parole del nostro Comandante Supremo, su quei poveretti si sarebbe dovuto abbattere «implacabile giustiziere, il fuoco delle nostre artiglierie e delle nostre mitragliatrici». Detto, fatto. Il 1° luglio 1917, ad esempio, molti fanti dell’89° Reggimento si trovarono in questa drammatica situazione e furono mitragliati senza pietà dal loro stesso esercito.

IL TRISTE DESTINO DELL’ALPINO ORTIS
Esattamente un anno prima, il 1° luglio 1916, aveva fatto le spese di quest’assurda politica un Alpino che si era limitato, con tre compagni, a contestare gli assurdi ordini del loro ufficiale. Si chiamava Silvio Ortis e alla sua vicenda la giornalista Maria Calderoni ha pochi anni fa dedicato un bel libro edito da Mursia. Il 25enne Ortis, nativo di quella Carnia in cui egli stesso combatteva, era esperto del territorio e sapeva che una certa tattica d’attacco sarebbe equivalsa a un suicidio. Intendeva solo convincere il suo comandante a cambiare metodo, ma venne accusato con i commilitoni di aver ordito un vero complotto.
E’ vero che Silvio Ortis, come tutti i Carnici, non comprendeva i motivi di questa guerra contro gli Austriaci, anche perchè le Alpi non erano mai state per queste genti una frontiera, bensì un ponte per cospicui rapporti di lavoro. Già veterano della Guerra di Libia del 1911, non gli piaceva quello che faceva, dato che gli Austriaci non gli avevano fatto nulla di male, così come nemmeno gli Arabi, a suo tempo. Ma non era certo un disertore. Eppure, insieme ai compagni fu condannato da una Corte Marziale riunitasi nella chiesetta di Cercivento, requisita dall’Esercito.

LE CIFRE DELLA VERGOGNA
Quanti “Alpini Ortis” ci sono stati fra le nostre fila, spesso colpevoli solo di frasi definite “ambigue” o “austriacanti” da certi ottusi superiori? Non lo sapremo mai, dato che solo una piccola parte dei militari “giustiziati” subì dei processi che produssero documenti ufficiali. Le esecuzioni sommarie (in particolare le decimazioni) avvenute in trincea, invece, erano immediate e numerose morti andarono a confondersi nel carnaio delle battaglie campali. Tentando un difficile bilancio si può dire che i tribunali dell’Esercito emisero durante il conflitto oltre 4000 condanne a morte. Esse però, sarebbero rimaste per la maggior parte ineseguite perchè comminate spesso in contumacia. Le esecuzioni attestate da un processo ed effettivamente attuate oscillerebbero fra le 750 e le 1500, a seconda delle fonti. Ma fu sicuramente la punta di un iceberg, dato che i provvedimenti brutali senza nessun processo dovettero essere di molte volte più numerosi, probabilmente nell’ordine delle migliaia.



I nostri soldati avevano paura, i carabinieri li mitragliavano
di CESARE DE SIMONE *
Nel marzo 1916 il mio comandante di divisione, al quale riferivo per telefono le ragioni per cui una operazione ordinatami non poteva riuscire e si sarebbe avuto un macello, osservò che di carne da macello da darmi ne aveva quanta poteva abbisognarmene; risposi che facevo il colonnello non il macellaio; s’interruppe il telefono: un ordine scritto mi ordinò l’onerosa operazione. (...) Questo succedeva spesso. C'erano dei soldati, ce n'erano sempre, che avevano paura di uscire fuori dalla trincea quando le mitragliatrici austriache sparavano all'impazzata contro di noi. Allora i carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era l'ufficiale che li ammazzava a rivoltellate.
* da “L’Isonzo mormorava”







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