SABATO 27 GENNAIO 2001 “IL GIORNO DELLA MEMORIA

Ricerca degli studenti  Di Iorio Dorotea, Giuseppe Esposito e Carlino Nicola della classe 3^C Brocca dell’ITC G. Galilei di  Sparanise e del prof. Paolo Mesolella, docente di Storia.

 

 SPARANISE –  NEL GIORNO DELLA MEMORIA,

 IL  RICORDO DI DON FRANCESCO D’ANGELO:  IL TENENTE CAPPELLANO  

 3 VOLTE CONDANNATO A MORTE DAI NAZISTI

            Il 27 gennaio 1945  vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz, e l’umanità scoprì l’Inferno vedendo uomini- scheletro diventati cavie e i cadaveri in decomposizione di milioni di prigionieri, non solo ebrei. Dopo oltre cinquant’anni, il parlamento italiano, con la legge n°211 del 20 luglio 2000, ha dichiarato ogni 27 gennaio  “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi nazisti.

A Sparanise, per la verità, non mancano spunti di analisi: dal campo di concentramento costruito dai tedeschi nei pressi dell’attuale Via Salvo D’Acquisto (e del quale vi sono ancora foto e testimoni), alle 39 vittime dell’eccidio nazista del  22 ottobre 1943, alle testimonianze del Generale Andrea Cucino, comandante delle forze armate italiane a Sparanise l’8 settembre del 43.

 Ma c’è una pagina di storia locale, che ha a che fare con i campi di sterminio nazisti e che è rimasta finora inedita e poco conosciuta. È quella relativa al tenente cappellano Don Francesco D’Angelo, nato a Sparanise il 16 maggio 1914,  deportato in Germania dal 1943 al 1945 e scampato alla morte dopo tre diverse condanne a morte. Gli alunni della classe 3C Brocca dell’ITC Galilei  di Sparanise, con l’aiuto del professore di Storia Paolo Mesolella, proprio per non dimenticarlo, hanno cercato di ricordarne la vicenda attraverso lo studio e la ricerca di materiale documentario spesso inedito che getta un po’ di luce su un passato prossimo già dimenticato.

 

MATRICOLA 30815,  3 CONDANNE A MORTE

 

Don Francesco D’Angelo, nacque a Sparanise, nell’allora provincia di Napoli, il 16 maggio 1914.

Era figlio di Giuseppe, mannese, e Assuntina Marotta. La nonna materna, aveva lavorato come inserviente a palazzo reale di Caserta, a diretto contatto con il re. Aveva due fratelli, oggi scomparsi, Giovanni e Salvatore, mannesi come il padre. Conseguì la licenza liceale presso il reale liceo di Chieti per cui fu obbligato a seguire il corso per allievi ufficiali di complemento.

Entrò nella congregazione religiosa de “I Discepoli” di Padre Giovanni Minozzi, fondatore dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia e di centinaia di istituti per gli orfani di guerra.

Il 21 settembre 1942, a 28 anni, partì volontario come Tenente cappellano sul treno da campo n° 252  destinato al fronte russo.  Il foglio matricolare lo descrive alto 1, 65, con i capelli neri e ricci, il viso profilato, il naso arricciato, gli occhi castani, il colorito bruno, la licenza liceale e, segni particolari, religioso. Il 1 aprile del 1935, era stato esentato dal servizio militare perché religioso vincolato ai voti, in ottemperanza del Concordato con la Santa Sede (legge n° 810 del 27 maggio 1929), ma lui aveva voluto partire lo stesso. Prima di partire volontario per ò, era diventato vicedirettore e insegnante di italiano e latino ad Ofena (Aquila) in Abruzzo, nel liceo- ginnasio dell’Opera Nazionale per Il Mezzogiorno d’Italia.

Fu insegnante severo e preparato: conosceva a memoria perfino i brani in prosa degli autori latini.  Commentò la Divina Commedia di Dante e tradusse dal latino Orazio ed il Libellus inedito di Riccardo Da Venosa “Eroismo borghese e nascita della Commedia umana”. Dopo Ofena, aveva girato per le altre case dell’Opera: fu direttore a Chieti e all’Istituto “Principe di Piemonte” di Potenza dove, giovanissimo preside del liceo e della scuola media dell’orfanotrofio, nel 1942 ebbe la lettera di nomina a cappellano militare di mobilitazione senza aver presentato alcuna domanda. Fu dapprima destinato al battaglione di assalto in Russia, come Tenente del 242° treno ospedale da campo Torino, poi il 20 novembre 1942  il treno cambiò destinazione per andare a Saint Rafael nel sud della Francia. Qui rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 quando fu catturato dai tedeschi e tradotto con altri prigionieri nel campo di concentramento di Trapainion, presso Orange.

Dopo alcuni giorni, però, i prigionieri italiani scapparono e  lui, nonostante non sapesse niente dell’accaduto, fu accusato di favoreggiamento. Una commissione militare venuta da Avignone lo condannò a morte. Solo una richiesta di grazia lo liberò dall’incubo, ma non gli evitò la deportazione in Germania.

Per la strada, alla stazione di Digione, una bomba fece saltare il treno e lui aiutò i tre infermieri ad accompagnare i feriti all’ospedale civile. Poi decise di restare ad Avignone: si travestì e si nascose con altri italiani in una casa per anziani diretta da suore. Ma i tedeschi lo rintracciarono e non credettero al racconto della bomba e dei feriti.

 

Ricorda don Francesco nelle sue memorie (Evangelizare, agosto 1994): ”Per il corso disseminato di cadaveri arrivammo in piazza dove ci diedero ancora un’altra condanna. Poi ci rinchiusero in uno scantinato. L’indomani ci chiesero di scegliere: fucilazione o andata in Germania. Senz’altro scegliemmo la seconda. Con i sopravvissuti al treno bombardato, andammo in Germania, al campo di Sigmaringen, dove restammo prigionieri due anni”.

Ma le peripezie non erano finite. Quasi alla fine della guerra, infatti, i   tedeschi proposero ai prigionieri italiani di diventare soldati del Reich e salvare così l’onta del tradimento di Badoglio. Lo stesso doveva fare don Francesco. Ma, arrivato il giorno del giuramento, a Hentingen, (cittadina nei pressi  del campo di Sigmaringen), davanti al monumento eretto per la gloria delle imprese militari tedesche, gli italiani si rifiutarono di giurare.

Ricorda ancora don Francesco:”Dopo il discorso d’occasione di un generale, occorreva alzare il braccio destro e la mano per il giuramento. Sentivo: Duri!, Duri! - La maggior parte dei mille e più soldati italiani erano alpini – e nessuno si prestò al giuramento. Nessuno. Allora il generale scattò dall’ira. Il colpevole ero stato io, secondo loro. Tre soldati mi portarono davanti al generale che mi domandò: Perché gli italiani non hanno giurato? Certo è stato per sua propaganda. C’è il rischio sicuro di fucilazione. Ed era la terza condanna a morte. Poi però la vicenda si potè acclarare e ritornai indenne al reparto da dove noi italiani potemmo evadere all’arrivo degli alleati”.

Don Francesco D’Angelo scrisse queste sue testimonianze nel febbraio 1994, all’Istituto “R. Darmon” ai Camaldoli di Napoli dove si era trasferito ormai anziano, dopo una trentina d’anni trascorsi come insegnante negli Istituti dell’Opera Nazionale a Monterosso al Mare e a cassino nell’ex Istituto “Figli d’Italia”. Di lì a poco, il 22 aprile dello stesso anno e nello stesso istituto di Napoli, morì, lasciando pochi ricordi nascosti tra le sue carte.ma molti amici. Negli ultimi anni a Napoli, infatti era stato predicatore tra i Camaldoli di Napoli e Pianura. Ancora oggi infatti, tutti gli anni, in occasione della sua dipartita, la popolazione del posto lo ricorda con una manifestazione sportiva a lui dedicata: la maratona don Francesco D’Angelo. Arrivata ormai alla settima edizione.

 

Ora il suo corpo è seppellito ad Amatrice, in provincia di Rieti, nell’istituto dove celebrò la sua prima messa, non lontano dalle tombe di Padre Minozzi, fondatore dei Discepoli (la congregazione religiosa cui apparteneva) e da don Tito, il primo successore di Padre Minozzi.

Prima di morire era stato autorizzato dal comando militare a fregiarsi dei distintivi della guerra 1940-1943 e della Guerra di Liberazione, istituiti con decreto del Presidente della Repubblica n°1590 del 17 nov.1948, e ad apporre sul nastrino tre stelle corrispondenti alle campagne di guerra 1943, 1944, 1945. Era morto uno dei tanti eroi già dimenticati.

 

Oggi , morto don Francesco e i suoi fratelli, abbiamo cercato di conoscere qualcosa di più dai suoi nipoti: Salvatore e Peppino, figli del fratello Giovanni, e Giuseppina, Assuntina e Franco, figli dell’altro fratello Salvatore.

 

Giuseppina, insegnante alla scuola elementare di Sparanise ricorda che lo zio: ” durante la terza condanna,  fu  legato ad un palo del campo  e aveva già i fucili puntati contro, quando un tedesco gli si avvicinò per prendergli l’orologio. Allora don Francesco ne approfittò  per parlare e con le sue parole  impietosì  i soldati tedeschi i quali, abbassarono i fucili e non spararono più i condannati che, grazie a lui  si salvarono.

D’altra parte poiché si era rifiutato di giurare lo zio, si erano rifiutati di giurare anche gli altri prigionieri e quindi i tedeschi avrebbero dovuto uccidere molte persone e probabilmente una fucilazione del genere, a guerra ormai conclusa, poteva risultare veramente inutile.

Quindi un po’ lui cercò di convincere i soldati, un po’ la quantità dei prigionieri che dovevano essere fucilati, fatto sta che il suo comportamento coraggioso, salvo delle vite umane.

La madre e i fratelli del resto lo credevano morto. Era già finita la guerra da un anno e don Francesco non tornava. Mio padre lo diceva sempre e ci faceva venire i brividi. Un giorno, però, di pomeriggio, alcune donne erano sedute al sole lungo corso Matteotti nei pressi della Casa paterna, quando videro scendere dalla stazione uno straccione,  malvestito e  sporco di fango. Una signora lo riconobbe e disse a mia madre :”Questo è don Francesco1”. Ma mia madre non ci voleva credere e diceva:” Ciccillo mio è morto!”. Poi però si incontrarono e si abbracciarono a lungo. Mia madre per festeggiarlo gli voleva cucinare chissà che cosa, ma lui gli diceva: Mamma, non ti preoccupare, va bene tutto. Io ho mangiato anche le bucce di patata”.

 

Franco, insegnante alla  Scuola Media di Mondragone, invece ricorda lo zio Francesco come un secondo padre. Già da piccolo infatti, don Francesco si interessò alla sua educazione e all’età di 7 anni lo portò con sé in un collegio dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia.  Qui Franco ebbe anche l’occasione di conoscere Padre Minozzi, il fondatore dell’Opera nazionale.

“Fu il canonico Francesco De Felice, ricorda Franco, il prete poeta e filosofo di Sparanise, a presentare il giovane Francesco a Padre Minozzi, dopo aver constatato la sua passione per lo studio. Anche grazie a lui diventò sacerdote. Ma don Francesco, oltre che sacerdote dei Discepoli e cappellano militare, fu insegnante di Lettere classiche, preside e direttore negli istituti statali dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. I suoi alunni lo amarono fino alla fine: tra questi l’on. Angelo Sanza del Partito Popolare ed il generale Zaccaria comandante della caserma di Potenza. Ho ancora alcune sue lettere ed una cartolina inviata a mio padre nel 1945, quando era ancora prigioniero di guerra. Poi ho alcune sue poesie, il suo commento alla Divina Commedia e la traduzione dal latino del Libello di Riccardo da Venosa, destinato al suo ex alunno Giuseppe Giovanni Monaco, preside del Liceo scientifico di Potenza”.

 

 Altri ricordi ed altri scritti li possiede il nipote Peppino, ma affidiamo ad altri l’incarico di svolgere un lavoro più ampio ed approfondito su don Francesco.

 

            La ricostruzione storica è stata svolta dagli studenti  Di Iorio Dorotea, Giuseppe Esposito e Carlino Nicola della classe 3^C Brocca dell’ITC G. Galilei di Sparanise, sotto la guida del prof. Paolo Mesolella, docente di Storia, e con l’aiuto dei nipoti del sacerdote, gli insegnanti Assuntina e Franco D’Angelo.

 

Gli studenti  hanno raccolto le notizie e studiato i documenti per rivivere almeno per un giorno, il giorno della memoria, la testimonianza rimasta inedita di don Francesco, il cappellano sparanisano deportato in Germania e per tre volte scampato alla morte.

La sua testimonianza è anche quella di tanti soldati italiani che nei campi di concentramento non si rassegnarono alla  ferocia nazista, ma conservarono fino all’ultimo la loro dignità.