La politica della forma urbana

Joe Dodds

 

Da Car Buster Magazine n. 14

Primavera 2002

 

 

Benvenuti a Panopticon

       L’utilitarista e “progressivo” Jeremy Bentham realizzò una volta un “perfetto” modello architettonico del potere, che poteva venire utilizzato come scuola, prigione o asilo nello stesso momento. Lo chiamò Panopticon.

         “Panopticon consiste in un ampio cortile” scrive Paul Rabinov nella sue introduzione al Lettore di Foucault, “con una torre al centro, circondata da tanti edifici divisi in piani e celle. In ogni cella ci sono due finestre: una illumina il locale e l’altra guarda la torre, dove enormi finestre permettono la sorveglianza delle celle, che diventano, come dice Foucault, piccoli teatrini, nei quali ogni attore è solo, perfettamente individuato e costantemente visibile”.

         Questo potere è continuo, anonimo, e può essere utilizzato in qualsiasi situazione. Il meccanismo architettonico potrebbe venire messo a disposizione di chiunque occupi la giusta posizione nella struttura, e potenzialmente tutti potrebbero esserne assoggettati.

         “La perfezione architettonica è tale che anche se non c’è nessun guardiano, il sistema di potere opera in ogni caso di continuo. Il recluso non può mai sapere se in quel momento ci sia o no un osservatore nella torre, così è costretto a comportarsi come se la sorveglianza fosse costante e totale, diventando il secondino di se stesso”.

         Foucault presenta lo schema terrorizzante di Bentham come un modello della gerarchia delle attuali relazioni di potere. Può anche funzionare come un modello per capire l’attuale forma urbana. Difatti, può essere visto anche come un idealtipo di molti progetti architettonici.

         Nel progetto della città moderna, e nel moderno potere architettonico, possiamo essere tutti perfettamente osservati, e perfettamente isolati gli uni dagli altri. Per questo la forma urbana e le possibilità di essere liberi sono strettamente connesse. Se si cercasse la libertà non ci sarebbe possibilità di successo all’interno dei confini di Panopticon. La città moderna può non aver raggiunto la perfezione diabolica del sogno (o incubo?) di Bentham ma le possibilità per una democrazia dal basso, genuina, decentrata, basata su un confronto reale, sono seriamente limitate dalla forma urbana che assume Autopoli, la città moderna, dispersa e autocentrica. Questo articolo esamina il legame tra forma urbana e vita sociopolitica di una città.

 

La città medioevale

       La forma urbana della città pedonale del medioevo facilitava particolari strutture sociali. In Il mutuo appoggio Peter Kropotikin vede l’origine della città europea medioevale nella fortificazione dei villaggi rurali conseguenti alle ondate di popoli invasori del IX e X sec.

         “Migliaia di centri fortificati sorsero in quel periodo in ogni angolo di Europa grazie allo sforzo delle comunità di villaggio” scrive Kropotkin, “e, una volta terminate le fortificazioni, una volta che si venne a creare un interesse comune all’interno di questo nuovo santuario, gli abitanti arrivarono ben presto a capire che d’ora in poi avrebbero potuto opporsi anche ai nemici interni, i nobili, allo stesso modo che all’invasore straniero. Una nuova vita libera cominciava a svilupparsi dentro queste enclavi fortificate. Era la nascita della città medioevale.”

         Con questa nuova configurazione, molte delle nuove città cominciarono a ribellarsi contro il potere feudale. Vennero alla luce molti trattati che concedevano ai comuni nuove libertà, e i nobili furono costretti a firmarli, riconoscendo il potere del popolo sui cavalieri predatori. Per esempio, il costume di Bayionne, steso nel 1273, dichiarava che “il popolo è antecedente ai nobili. È il popolo che, più numeroso di chiunque altro, desideroso di pace, riconosce i nobili per controllare e abbattere i potenti” (Giry, establissements de Rouen). Re Roberto dovette firmare una dichiarazione in base alla quale non avrebbe “rubato mandrie né altri animali. …espropriato mercanti, preso i loro soldi, né imposto riscatti… espropriato cavalli, cavalle né puledri in nessun giorno dell’anno”.

         I nobili chiaramente si sentivano minacciati da tutto ciò come risulta da una dichiarazione di Guilbert de Nogent: “il Comune è un sacro patto di mutuo aiuto. Una parola nuova e detestabile. Grazie a questo i servi sono liberi da ogni servitù”.

         La città era organizzata intorno ad un’economia compatta e decentralizzata. Le diverse funzioni al suo interno non erano segregate in spazi separati, e per questo tutti i membri di una città erano in contatto quotidiano con altri che avevano ruoli differenti, piuttosto che vivere ciascuno nel suo ghetto personale. Forme urbane come questa permettono una relativa autonomia all’interno di ciascun settore economico e, all’interno della propria zona geografica, ogni quartiere poteva amministrare autonomamente i propri affari. Kropotkin sottolinea come la città non fosse una parte relativamente indipendente dello stato, ma potesse essere considerata uno stato essa stessa, benché non di tipo centralizzato, poiché “ogni gruppo aveva la sua quota di sovranità”.

         La struttura fisica della città era strettamente intrecciata con la sua organizzazione sociale. La città era solitamente divisa in quattro quartieri, secondo Kropotkin, “o in 5-7 sezioni che si irradiavano dal centro, ogni quartiere o sezione corrispondente grossomodo a un certo tipo di commercio o professione che prevaleva al suo interno, costituendo per questo un agglomerato abbastanza indipendente”. Per esempio, a Venezia, ogni isola era una comunità politica autonoma con “i propri affari organizzati, il proprio commercio di sale, il proprio codice giuridico, la propria amministrazione, il proprio tribunale; e la nomina di un doge da parte della città non cambiava niente nell’indipendenza interna della singola unità”. La città medioevale era quindi una doppia federazione, con “i capifamiglia uniti in piccole unità territoriali – la strada, la parrocchia, la sezione – e gli individui uniti in gilde da un patto professionale; la prima si può considerare una conseguenza della comunità di villaggio, la seconda è una modificazione successiva dovuta alle nuove condizioni economiche”.

         Queste nuove condizioni prendevano forma nella struttura fisica della città medioevale, intimamente collegata alla sua struttura sociale. Ma in che modo la forma di una città moderna interagisce con la sua vita sociale e politica?

 

L’autopoli

         “Ogni spazio è occupato dal nemico. Viviamo sotto uno stato di coprifuoco permanente. Non solo grazie ai poliziotti – ma grazie alla geometria. La vera urbanistica vedrà la luce quando costringerà le forze occupanti a sparire da un limitato numero di luoghi. Quello sarà l’inizio di quello che noi intendiamo per costruzione. Conquistarci la libertà è, in primo luogo, strappare pochi ettari di terra dalla faccia di un pianeta addomesticato” – Raoul Vaneigem, “Invasione” in “Lasciando il XX secolo”.

         Confrontata con la complessità e varietà della città pedonale del medioevo ad utilizzo promiscuo, la città moderna è incredibilmente semplificata, con grandi aree e della città e del territorio circostante dedicate ad un unico scopo. La divisione del lavoro a livello locale e nazionale è oltremodo esacerbata, la centralizzazione e la separazione delle funzioni ha aumentato la dipendenza di ogni singola area fino alla pressoché completa impotenza.

         Quando le città prendono la forma e la dimensione della moderna autopoli, il bisogno di amministrare la popolazione su una scala di tale grandezza diventa progressivamente impossibile al di fuori di una burocrazia centralizzata e gerarchica. Le relazioni personali sono ridotte all’amministrazione di massa.

         “Il bisogno di trasportare, nutrire, impiegare, educare e in qualche modo divertire milioni di persone densamente concentrate, porta al declino culturale” osserva Murray Bookchin. “Una visione massificata delle relazioni umane – irreggimentata e totalitaria – tende a sostituire visioni più individuali appartenenti al passato. Le tecniche burocratiche del management sociale sostituiscono approcci più umanistici. Tutto quello che è spontaneo, creativo e individuale viene circoscritto da ciò che è standardizzato e massificato. Lo spazio individuale viene fortemente ridotto da restrizioni imposte da un apparato impersonale e senza volto”.

         Lo stesso avviene in agricoltura. Le fattorie industriali sono “necessarie” per nutrire le città moderne. Questo riduce la biodiversità in maniera massiccia, favorendo monoculture strettamente regolate e esageratamente sfruttate. Bookchin osserva che “l’uomo (scusate il linguaggio sessista!) sta distruggendo il lavoro dell’evoluzione organica. Sostituendo un ambiente organico, altamente complesso con uno inorganico e semplificato, l’uomo sta smontando la piramide biotica che ha sostenuto la razza umana per innumerevoli millenni, fino a portarla a uno stadio capace di sostenere solo le forme di vita più semplici”.

         Per questo la forma urbana di Autopoli può alla fine mancare di soddisfare perfino le funzioni più semplici di una città, cioè garantire la sopravvivenza dei suoi abitanti. Il più importante effetto sociale di tutto ciò è la crescente visione massificata della società. Questa visione si traduce in nuove forme urbane, in particolare in una nuova architettura.

 

Le Corbusier e la nascita dell’Architettura Moderna   

“La progettazione urbana nel suo insieme non è nient’altro che la sfera della propaganda della società moderna – cioè l’organizzazione della partecipazione a qualcosa cui è impossibile partecipare. Mantenere la fluidità del traffico è essenzialmente organizzare l’isolamento universale, è l’opposto di permettere alle persone di incontrarsi” – Kotanyi/Vaneigem, Unitary Urbanism, Internazionale Situazionista, 1961.

         Peysner descrive il ventesimo secolo come “il secolo delle masse, della scienza, della tecnologia, del trasporto di massa, della produzione e del consumo di massa, della comunicazione di massa”. In una società di massa, erano necessarie risposte nuove per problemi sociali urgenti. L’antica forma urbana non le forniva.

         Le Corbusier fu uno dei più importanti esponenti della moderna pianificazione urbana. Negli anni venti descrisse la vecchia architettura “premassificata” come “un ambiente vecchio ed ostile, un intollerabile tributo a uno spirito ormai morto e banali negozi dell’usato” (ma a me piacciono i negozi dell’usato!), in definitiva non adeguato allo spirito della nuova era produttiva.

         L’inaugurazione dello spirito della produzione di massa venne annunciato con gli squilli di tromba della scienza e della tecnologia, e glorificato come progressista e perfino rivoluzionario. Questo portò all’estetica della pianificazione urbana tipica dell’età dell’auto, esemplificata da Bauhaus e Le Corbusier. Quest’ultimo arrivò perfino a battezzare uno dei suoi palazzi standardizzati “Casa Citroen”, dal nome della casa automobilistica. Una casa diventava una macchina per vivere, una strada una fabbrica per produrre traffico, l’automobile l’incarnazione dello spirito del mondo. Tutto ciò crebbe all’interno dello “Stile Internazionale” uno stile moderno universalmente applicabile, riproducibile ovunque, trascendente tutte le culture nazionali, che creava una singola umanità unificata. Eccetto, forse, tutti coloro che non si adattavano a questo “brave new world”, alloggiati nelle moderne prigioni recentemente edificate. Rappresentazioni di questo tipo di architettura si possono osservare ovunque nel mondo, in qualunque posto appaiano dei disgustosi alveari a più piani. Dove, come scrive Veneigem “gli individui, generalmente isolati, possono osservare le loro stesse vite ridotte a infinite ripetizioni del medesimo gesto triviale, al termine del quali sono costretti a consumare spettacoli ugualmente ripetitivi”.

         Questa estetica dell’era dell’auto, combinata con la filosofia delle masse, elevò i modernisti al rango di profeti, introducendo la nuova età dell’uguaglianza e dell’abbondanza. In pratica incoraggiò il culto degli esperti e dei burocrati “che ottennero uno straordinario potere di comando e controllo all’interno dell’ambiente urbano”, come scrive David Harvey. La metafora della macchina venne utilizzata anche nelle discussioni politiche e filosofiche. “C’è una mentalità urbana che si distingue chiaramente da quella rurale”, scriveva il sociologo di Chicago Louis Wirth (1925). “L’uomo di città ragiona in termini meccanicistici, razionali, mentre il bifolco pensa in termini magico-naturalistici”. Quando la questione viene posta in questi termini, che possibilità di resistenza esiste, e con che scopo?

         La nascita del postmodernismo in architettura ha una data precisa. Alle 15.32 del 15 luglio 1972, il quartiere di Pritt-Igoe a St. Louis, un complesso progettato per la classe lavoratrice vincitore di molti premi, venne abbattuto perché inabitabile. Questa, dichiarò il critico architettonico Charles Jencks, era la “fine dello Stile Internazionale dell’Architettura Modernista”. Nel 1965 Bookchin aveva fatto una dichiarazione simile, questa volta (con molta speranza!) sulla morte di Autopoli: “La città e lo stato moderni, i sistemi razionalizzati di produzione di massa e l’organizzazione del lavoro basata sul sistema della catena di montaggio hanno tutti raggiunto i loro limiti. Sono strutture antiquate non solo perché erodono lo spirito e le capacità umane e svuotano la comunità di tutta la sua coesione, solidarietà e standard etici e culturali, ma perché minacciano le compatibilità del pianeta e tutti i suoi esseri viventi. Per questo ci troviamo davanti ad una scelta: la morte della Città Automobile o la morte della razza umana e di qualsiasi altra cosa sul pianeta”. Beh, forse…

 

Ma non sarà necessariamente così

         Un momento: tutto questo non è inevitabile. La forma socio-politica di una città non consegue direttamente dalla sua forma fisica. Le città pedonali hanno espresso forme di governo altamente autoritarie. In questi casi comunque, la particolare forma della città pedonale tende a corrispondere a un certo ideale religioso della monarchia. Ma anche nei casi di ordinamenti politici molto gerarchici alcune città pedonali avevano ancora un controllo economico decentralizzato e una vita sociale più partecipata. In paragone i tentativi per una vita sociale e politica più libera nelle moderne e frammentate città automobili sono molto difficili da realizzare se non completamente destinati all’insuccesso. Da qui il fallimento di molte rivoluzioni “socialiste”, legate come erano ad un modello industriale ormai superato. Per contro, le brevi rivoluzioni anarco-sindacali in vaste aree della Spagna degli anni ’30 dimostrano come possano emergere strutture non gerarchiche, più libere, anche nelle città industriali. Comunque, determinate forme urbane tendono a favorire fortemente l’emergere di precise strutture socio-politiche.

         La forma urbana può essere paragonata al terreno che permette a particolari piante socio-politiche di crescere, anche se introducendo l’utilizzo di fertilizzanti artificiali, si rende possibile la crescita di altre specie. Si possono fare crescere anche le palme in Scozia… se si dispone di una serra (e qui siamo di nuovo al problema della forma urbana!). Un buon esempio di questo può essere osservato comparando le gilde medioevali con i moderni sindacati. Qui possiamo vedere come differenti terreni (forme urbane) influenzino la crescita di queste organizzazioni dei lavoratori.

         Gilde, fratellanze, patti di amicizia, druzhestva e artels in Russia, esnaifs in Serbia e Turchia, e amkari in Georgia si svilupparono enormemente come risultato delle nuove condizioni nelle nuove strutture urbane del Medio Evo. Erano la personificazione di un’organizzazione economica decentralizzata, relativamente autonoma, resa possibile da queste condizioni. La gilda degli artigiani era venditrice e acquirente dei propri prodotti e materie prime, e i suoi membri erano sia mercanti sia artigiani. Ve le immaginate le fabbriche moderne gestite dai lavoratori, che comprano e vendono direttamente i loro prodotti, senza il bisogno di trasportarli attraverso distanze enormi? Sarebbe la rivoluzione. Al contrario, i moderni sindacati, senza nessuna pretesa di gestione diretta dell’industria, sono ridotti a soddisfare un numero molto ristretto di funzioni, beneficiando di più i Consigli di Amministrazione che i lavoratori attraverso la “gestione” e la prevenzione (in Italia diremmo la concertazione, ndt) di attività realmente indipendenti del gruppo sociale di cui rivendicano la rappresentanza.

 

Pianificare o non pianificare?

         “Vogliamo creare ambienti in perenne evoluzione. Questo bisogno per la creazione totale è sempre stato inseparabile dal bisogno di giocare con l’architettura, con il tempo e lo spazio”.  Gilles Ivain, “Formula for a new City”, in Leaving the 20th Century.

         Il progetto della città automobile richiede quasi inevitabilmente una pianificazione centralizzata per garantire che la rete stradale funzioni efficacemente. Questo impedisce una pianificazione più organica, diffusa, che tragga la sua forza dalla società. Adesso che il traffico diventa sempre più ingestibile nelle nostre moderne megalopoli post-moderne, ci troviamo ad ammirare sempre di più la bellezza delle città medioevali pedonali, specialmente la vita esuberante e armoniosa che sembrano avere dove esistono ancora (vedi articolo su Fes). Come mai i nostri specialisti non sono riusciti a raggiungere niente di paragonabile? Hanno studiato moltissimi anni, e possono utilizzare la saggezza che viene loro da decenni di esperimenti di progettazione. Sicuramente le città medioevali devono aver avuto dei pianificatori urbani eccezionalmente brillanti, forse un elite ispirata di re-filosofi Platonici? La risposta, secondo Kropotkin, è un chiarissimo no:

         “Le città medioevali non erano organizzate su qualche progetto precostituito discendente dalla volontà di un legislatore esterno. Ognuna di esse era il risultato di una crescita naturale nel pieno senso della parola. Per questo non ci sono due città i cui scopi e organizzazione interna siano identici.”. Così, forse, come per il governo, possiamo dire che la miglior “pianificazione” centralizzata è la minore pianificazione possibile. Forse è per questo che tante “utopie” suonano terrificanti e più di un poco fasciste. Forse dovremmo trattare la pianificazione come il giardinaggio, ma con tutti gli abitanti abilitati a fare i giardinieri, potando qui, lasciando crescere un po’ là, piuttosto che avere i nostri super-progetti calati dall’alto.

         E per quanto riguarda gli edifici? Anche ai nostri giorni, i turisti Europei preferiscono visitare le magnifiche cattedrali medioevali piuttosto che qualsiasi altra struttura urbana. È davvero possibile che il loro progetto grandioso sia nato dallo spirito libero, creativo, anarchico dell’energia collettiva della gente, senza nessun grande architetto al vertice, che dirigesse le masse? Infatti, la cattedrale Gotica diventa il miglior esempio del doppio legame tra la vita sociale nelle città medioevali e la loro forma urbana. Non fu, secondo Kropotkin, il risultato di “uno sforzo solitario nel quale migliaia di schiavi pagarono la loro parte di tributo all’immaginazione di un solo uomo; tutta la città contribuì alla sua costruzione”. La cattedrale venne a simbolizzare la vita comunale medioevale. Fu il risultato di un’esperienza collettiva, “ogni corporazione offrì la sua parte di lavoro, pietre e genio decorativo, ogni gilda investì del suo amore il monumento comunale. Come l’arte greca, la cattedrale emerse da una concezione di fratellanza e unità cresciuta nella e adottata dalla città”. Questo spirito si può cogliere in tutti i “lavori comunali di utilità pubblica, come i canali, terrazzamenti, vigneti, frutteti intorno a Firenze, o il porto e l’acquedotto di Genova o qualsiasi lavoro di questo tipo realizzato da quasi tutte le città” comprese Siena e Fes.

 

Conclusioni e futuro

         L’urbanesimo unitario non conosce frontiere. Tutte le forme di separazione – tra lavoro e tempo libero, tra pubblico e privato – possono finalmente dissolversi” Guy Debord, “Traffic”, <nothingness.org>.

         Il progetto urbano è inestricabilmente legato alla vita sociale e politica. Particolari forme urbane tendono a produrre determinate organizzazioni sociali, e i tentativi di dare forma a organizzazioni sociali determinate, quando portati alle loro conclusioni, portano a determinati cambiamenti nella forma urbana. Se le persone impegnate nei movimenti per la libertà sociale ignorano l’importanza della progettazione urbana rischiano di fallire il raggiungimento dei loro obiettivi. La libertà e la democrazia richiedono opportunità di incontri faccia a faccia, distanze relativamente brevi tra le persone, e la possibilità per tutti di poter dare un’occhiata all’interno di ogni area della vita cittadina: politica, economica e geografica. Questo è molto difficile da ottenere nella città automobile, ma è quasi un corollario nella città pedonale. Questo bisogno di città più libere combacia con il diritto ecologico alla sopravvivenza, poiché la forma urbana di Autopoli è insostenibile per antonomasia. Così, dove ci porta questo ragionamento? Cosa possiamo imparare dalle città pedonali del passato che potrebbe venire applicato a una città libera e sostenibile del futuro?

         Qualcuno ha dichiarato che la libertà e l’anarchismo sono impossibili nelle città. Benché possiamo trovarci in disaccordo, dobbiamo riconoscere che i problemi dell’urbanesimo sono stati ben analizzati dai primitivisti, le cui visioni potrebbero rappresentare possibili forme non urbane per una futura vita comune. John Simock nel suo “Anrchism Without Cities?” rifiuta la concezione primitivista:

         “Alcuni anarchici ambientalisti postulano che le città e la produzione industriale implicano la crescita di una “gerarchia delle specializzazioni”. Ma comunità decentralizzate, di dimensioni adeguate, metodi di produzione più semplici, tecnologie appropriate e la crescita della “trasparenza delle operazioni” dovrebbero condurre più a una “generalizzazione” delle abilità piuttosto che alla specializzazione e al privilegio.”

         Marx era ancora più convinto, dichiarando che la libertà è possibile solo nelle città, ma la forma industriale che le “sue” città presero esemplifica il controllo burocratico e gerarchico che questo articolo ha criticato. Infatti, Marx guardava speranzoso all’effetto disciplinante che le fabbriche avevano sui lavoratori.

         Osservando gli errori che commisero le città medioevali, e chiedendosi come mai fallirono, Kropotkin sostiene che una delle principali cause fu l’isolamento dalle campagne. Questo fu in parte un auto-imposizione dovuta alla necessità di compromessi con la nobiltà, che consentirono alle città di guadagnare la libertà consentendo ai nobili di mantenere il loro dominio sulle campagne. Questo fu un errore strategico fondamentale, dato che le città saranno sempre strettamente legate al loro circondario. Dipendono dalla campagna per l’accesso al cibo, all’energia e alle materie prime. I modelli industriali “socialisti” e “capitalisti” gestiscono questa relazione estendendo alla campagna un modello urbanistico industriale. I futuri tentativi di libertà richiederanno armonizzazione e fusione tra le due zone, riconoscendo e valorizzando la diversità di ciascuna. Al fine di ridurre l’impronta ecologica della città esse dovranno venire ridotte in dimensioni, e dovrà venir permesso un ritorno alla complessità. Nel frattempo l’agricoltura dovrà venire decentralizzata e ridimensionata dalle immense fattorie industriali ad unità di dimensioni più moderate.

         Un possibile modello per il futuro potrebbe essere rappresentato dall’”ecologia sociale” di Bookchin. Le società pre-industriali dipendevano principalmente sulla forza muscolare per il soddisfacimento del fabbisogno di energia, ma anche da uno schema complesso e da una sottile integrazione tra risorse locali e modelli energetici. Per questo avevano una relazione molto stretta con il loro ambiente. Al contrario, la rivoluzione industriale “sovrastò e in gran parte distrusse questi modelli energetici regionali, sostituendoli prima con un sistema di energia singolo (il carbone) e dopo con uno doppio (carbone e petrolio). Le regioni scomparvero come esempi di modelli energetici integrati – si può dire che il concetto stesso di integrazione attraverso la diversità fu cancellato”.

         Per questo la città moderna lascia il cittadino medio ignorante e alienato a proposito del cibo e dell’energia che consuma, portando alle immense distruzioni ambientali attuali. Bookchin sostiene che dovremmo riorganizzare le nostre città più in armonia con gli schemi energetici regionali, ristabilendo un legame spezzato. Questo richiederebbe una scala decentralizzata e ridotta, comunità relativamente autosufficienti che “utilizzando un sistema combinato di energia fornita dal vento, dall’acqua e dal sole. Potremmo venire aiutati da dispositivi più sofisticati di qualsiasi altro conosciuto in passato. Composti come un mosaico, come uno schema energetico organico sviluppato dalle potenzialità di una regione, potrebbero ampiamente soddisfare i bisogni di una società decentralizzata”. Come nota Bookchin, questa forma urbana richiede una massiccia decentralizzazione della società, e una concezione “realmente locale” della comunità, giacché le fonti di energia rinnovabili sono disponibili in quantità relativamente piccole. Bookchin prefigura una comunità anarchica che “dovrebbe corrispondere approssimativamente ed un ecosistema chiaramente definito”, che sarebbe “visibilmente dipendente dal suo ambiente”, ottenendo così “un nuovo rispetto per le interrelazioni biologiche che lo sostengono”. Ciò, sostiene, sarebbe nel lungo periodo “più efficiente dell’esacerbata divisione del lavoro attuale”.

Città pienamente democratiche richiedono processi di pianificazione decentralizzati e forme pedonali compatte, evolventisi naturalmente in un contesto relazionale complesso e ben bilanciato con l’ambiente circostante. Per raggiungere la forma urbana desiderata, rivendicare forme politiche, sociali ed economiche decentralizzate è una strada utile e forse necessaria da seguire.

         Ma cosa possiamo fare nelle moderne e dispersive megalopoli, come Milano o Londra? Una risposta può essere quella di osservare sia il passato sia le possibilità già presenti. La moderna alienazione potrebbe non essere così brutta come pensano alcuni. Londra, come molte altre città, è cresciuta come combinazione di molti villaggi più piccoli. Anche adesso, la gente si riferisce al “villaggio Londra” poiché ogni regione, parzialmente rappresentante un precedente villaggio indipendente, è ancora vissuta in un modo paragonabile al passato. Molti Londinesi difficilmente lascerebbero il loro “villaggio”, e lavorano e giocano con altri membri della comunità locale. Forse rinforzare questo atteggiamento costituisce una solida base di partenza per cambiamenti di respiro più ampio. Un maggior lavoro a livello locale può rinforzare il sentimento comunitario e portare a strutture locali più autonome. Questo potrebbe ancora una volta restituire alla città alcune funzioni che le sono proprie e aiutarci a lavorare verso l’obiettivo di una città pedonale, libera, ecologica e democratica.




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