L'ideologia
sociale dell'auto
Andrè Gorz
Il difetto fondamentale delle auto è che esse sono come i castelli e le ville
sulla costa: dei beni di lusso inventati per il piacere esclusivo di una
minoranza molto ricca e che per struttura e per natura non erano affatto
destinate al popolo. Al contrario dell'aspirapolvere, del televisore e della
bicicletta, che mantengono tutto il loro valore d'uso anche quando tutti ne
dispongono, l'auto, come la villa al mare, non ha né interesse, né vantaggi che
nella misura in cui la massa non le possiede. Di fatto, per la sua concezione
come per la sua destinazione originaria, l'auto è un bene di lusso. E il lusso,
per natura, non si democratizza: se tutti raggiungono il lusso, nessuno ne trae
più alcun vantaggio; al contrario: tutti imbrogliano, frustrano ed espropriano
e sono a loro volta imbrogliati, frustrati ed espropriati.
La cosa, se si tratta di ville al mare, è ammessa assai comunemente. Nessun
demagogo ha osato dire che democratizzare il diritto alle vacanze voglia dire
applicare il principio: Una villa con
spiaggia privata per ogni famiglia. Tutti possono capire che se ognuno dei
tredici o quattordici milioni di famiglie dovesse disporre anche solo di 10 m
di costa, ci vorrebbero 140.000 km di spiaggia per poter accontentare tutti.
Attribuire ad ognuno la sua porzione, vorrebbe dire tagliare le spiagge in
fette così piccole - o costruire le ville così vicine l'una all'altra - che il
valore d'uso diverrebbe nullo, come diverrebbe il loro vantaggio nei confronti
di un complesso alberghiero. In breve, la democratizzazione dell'accesso alle
spiagge non ammette che un'unica soluzione: quella collettivistica. E questa
soluzione passa obbligatoriamente attraverso la guerra al lusso costituito
dalle spiagge private, privilegio che una piccola minoranza si arroga a spese di tutti. Ora, perché ciò che è
del tutto evidente per le spiagge, di solito non è ammesso per i mezzi di
locomozione? Un'auto, proprio come una villa con spiaggia, non occupa forse uno
spazio divenuto scarso? Non espropria gli altri utenti della viabilità (pedoni,
ciclisti, coloro che prendono il tram o l'autobus)?
Non perde, l'auto, tutto il suo valore d'uso, quando ognuno usa la propria?
E tuttavia non si contano più i demagoghi che affermano che ogni famiglia ha
diritto almeno a un'auto e che è compito dello « Stato » che tutti possano
posteggiare a proprio agio, andare a proprio agio in città e partire insieme a tutti gli altri, a 150 km
all'ora, sulle strade del fine-settimana o delle vacanze. La mostruosità di
tale demagogia salta agli occhi e tuttavia la sinistra non disdegna di
ricorrervi. Perché mai l'auto è trattata da vacca sacra? Perché, a differenza degli
altri beni « privati », non è riconosciuta come un lusso antisociale? La
risposta va cercata nei due aspetti dell'automobilísmo che seguono.
l. L'automobílismo di massa materializza un trionfo assoluto dell'ideologia
borghese al livello della prassi quotidiana: fonda e mantiene in ciascuno la
credenza illusoria che ogni individuo può prevalere ed avvantaggiarsi a spese di tutti. L'egoismo aggressivo e
crudele del guidatore che, ad ogni momento, assassina simbolicamente « gli
altri », nei quali vede solo impedimenti materiali ed ostacoli alla propria
velocità. Questo egoismo aggressivo e competitivo rappresenta l'avvento, grazie
all'automobilismo quotidiano, di un
comportamento universalmente borghese. « Non si farà mai del socialismo con
questa gente » mi diceva un amico della Germania dell'Est, costernato dallo
spettacolo della circolazione di Parigi.
2. L'automobile offre l'esempio contraddittorio di un oggetto di lusso,
svalutato dalla propria diffusione. Ma questa svalutazione pratica non ha
ancora causato la sua svalutazione ideologica: il mito del piacere e dei
vantaggi dell'auto persiste, quando i mezzi di locomozione collettivi, se
venissero generalizzati, dimostrerebbero la loro superiorità schiacciante. Il
persistere di questo mito si spiega facilmente: il generalizzarsi
dell'automobilismo individuale ha emarginato i trasporti collettivi, modificato
l'urbanistica e I'habitat e trasferito sull'auto delle funzioni resesi
necessarie a causa della sua diffusione. Ci vorrà una rivoluzione ideologica («
culturale ») per spezzare questo circolo. Non bisogna certo aspettarsela da
parte della classe al potere (di destra o di sinistra che sia).
Ora analizzerò questi due punti più dettagliatamente. Quando è stata
inventata, l'automobile doveva offrire a qualche borghese molto ricco un
privilegio del tutto inedito: quello di andare molto più veloce di ogni altro.
Nessuno ci aveva mai pensato: la velocità delle diligenze era proprio la stessa
per i ricchi e per i poveri; il calesse del signore non andava più veloce del
carro del contadíno ed i treni portavano tutti alla stessa velocità (non
adottarono velocità diverse che in concorrenza con l’automobile e
l'aereoplano). Non vi era dunque, fino alla svolta del secolo scorso, una
velocità di spostamento per una élite ed un'altra per il popolo. L'auto avrebbe
mutato tutto: estendeva, per la prima volta, la differenza di classe alla
velocità ed al mezzo di locomozione.
Questo mezzo di locomozione sembrò dapprima inaccessibile alla massa, tanto
diverso era dai mezzi ordinari; non vi era niente di comune tra l'automobile e
tutto il resto: il carro, il treno, la bicicletta o l'omnibus a cavalli. Esseri
eccezionali se ne andavano a spasso su di un mezzo autotrainante, pesante una
tonnellata ed i cui organi meccanici, estremamente complicati, erano tanto più
misteriosi in quanto celati ad ogni sguardo. Vi era infatti anche questo
aspetto che giocò pesantemente sul mito dell'automobile: per la prima volta gli
uomini cavalcavano veicoli individuali, i cui meccanismi di funzionarnento
erano loro del tutto sconosciuti, la cui manutenzione e perfino l’alimentazione
dovevano venire affidate a degli specialisti.
Il paradosso dell'automobile: apparentemente questa offriva ai proprietari
un'indipendenza illimitata, permetteva loro di spostarsi a ore e secondo
itinerari di loro scelta, ad una velocità pari o maggiore di quella del treno;
ma in realtà tale autonomia apparente aveva come contropartita una radicale
dipendenza. Al contrario del cavaliere, del carrettiere o del ciclista,
l'automobilista sarebbe dipeso per il proprio rifornimento di energia, come del
resto per la riparazione del minimo guasto, dai commercianti e dagli
specialisti della carburazione, della lubrificazione, della messa in moto e del
ricambio di pezzi di serie. Al contrario di tutti i proprietari di mezzi di
locomozione del passato, l'automobilista avrebbe avuto un rapporto di utente e di consumatore - e non di possessore
e di padrone - con il veicolo, di cui
formalmente era il proprietario. In altre parole, questo stesso veicolo lo
avrebbe costretto a consumare e ad utilizzare una mole di servizi commerciali e
di prodotti industriali, che solo terze persone avrebbero potuto fornirgli.
L'autonomia apparente del proprietario di un automobile celava la sua radicale
dipendenza.
I magnati dei petrolio intuirono per primi il vantaggio che si sarebbe potuto
trarre dal diffondersi dell'automobile: se la gente poteva essere spinta ad
andare in macchina, si sarebbe potuto venderle l'energia necessaria per farlo.
Per la prima volta nella storia, gli uomini sarebbero divenuti contribuenti,
per la propria locomozione, di una fonte di energia commerciale. Ci sarebbero
stati altrettanti clienti dell'industria petrolifera quanti gli automobilisti -
e siccome ci sarebbero stati altrettanti automobilisti quante le famiglie,
tutta quanta la gente sarebbe divenuta cliente dei petrolieri. Stava per
realizzarsi la condizione sognata da ogni capitalista: tutti gli uomini
sarebbero dipesi per i propri bisogni quotidiani da una merce, di cui una sola
industria avrebbe avuto il monopolio.
Non ci restava che portare la gente a viaggiare in macchina. Il più delle
volte questa non si faceva pregare: bastava, con la fabbricazione in serie e le
catene di montaggio, abbassare sufficientemente il prezzo di un'auto; la gente
si sarebbe precipitata a comperarla. E infatti si precipitarono davvero, senza
rendersi conto di essere presi per il naso. Che cosa prometteva loro infatti
l'industria automobilistica? Semplicemente questo: « Anche voi ormai avrete il
privilegio di andare in macchina come i signori e i borghesi, più velocemente
di tutti. Nella società dell'automobile, il privilegio di una élite è alla
vostra portata ». La gente si precipitò sulle auto fino a quando, arrivandovi
anche gli operai, gli automobilisti si accorsero, frustrati, di essere stati
bellamente raggirati. Era stato promesso loro un privilegio da borghesi; si
erano indebitati per ottenerlo ed ecco che si accorgevano che tutti lo
ottenevano nello stesso tempo. Ma che cosa è un privilegio, se tutti possono
arrivarvi? Un mercato di scemi. Peggio: è ognuno contro tutti. E la paralisi
generale causa un alterco generale. Poiché quando tutti pretendono di marciare
alla velocità privilegiata dei borghesi il risultato è che non marcia più
niente, che la velocità di circolazione urbana cade - a Boston come a Parigi, a
Roma o a Londra - al di sotto di quella dell'omnibus a cavalli e che la media
su tutte le tangenziali a fine settimana scende al di sotto della velocità di
un ciclista. Niente da fare: sono stati rovati tutti i rimedi; finivano tutti,
in ultima analisi, per aggravare il male.
Si moltiplichino pure le radiali e le circonvallazioni, le trasversali
sopraelevare, le strade a sedici corsie
ed a pedaggio, il risultato è sempre lo stesso: più strade di servizio ci sono
e più auto vi affluiscono e più è pesante la congestione della circolazione
urbana. Fino a che ci saranno delle città, il problema non sarà risolto: per
quanto larga e veloce possa essere una strada di svincolo, la velocità alla
quale le auto la lasciano per entrare in città non può essere maggiore di
quella con cui queste si disperdono per la rete urbana. Fino a quando la
velocità media, a Parigi, sarà da 10 a 20 km orari, secondo le ore, non si
potranno lasciare a più di 10 o 20 km le circonvallazioni e le autostrade che
alimentano la capitale. Bisognerà anzi lasciarle a velocità molto più ridotte
quando gli accessi saranno saturi, e questo rallentamento si ripercuoterà a
decine di km a monte se la strada di accesso sarà satura. Lo stesso dicasi per
tutte le città. E’ impossibile circolare a più di 20 km orari di media
nell'intreccio di strade, viali e corsi intersecantisi che, oggi, sono propri
delle città. L'immissione di un
qualsiasi veicolo più veloce disturba la circolazione urbana, provocando
ingorghi ed infine la paralisi.
Se l'automobile deve prevalere, non c'è che una soluzione: sopprimere le
città, vale a dire situarle su centinaia di km lungo strade monumentali e lungo
periferie autostradali. E’ ciò che è
stato fatto negli Stati Uniti. Ivan Illich ne riassume il risultato in queste cifre sbalorditive: «
L'Americano medio dedica più di 1500 ore all'anno (cioè 30 ore settimanali o 4
ore giornaliere, domenica compresa ) alla sua macchina: questo comprende le ore
che egli passa al volante, in marcia o fermo; le ore di lavoro necessarie per
pagarla e per pagare la benzina, le gomme, i pedaggi, l'assicurazione, le
contravvenzioni e le tasse... A questo Americano occorrono dunque 1500 ore per
fare (in un anno) 10.000 km, al ritmo di 6 km all'ora. Nei paesi senza
industria di trasporti, la gente si sposta a piedi esattamente a questa stessa
velocità, con il vantaggio supplementare che può andare dove vuole e non solo
lungo le strade asfaltate ».
E’ vero, precisa Illich, che nei paesi non industrializzati gli spostamenti
non assorbono che dal 3 all'8% del tempo sociale (ciò che in realtà corrisponde
da 2 a 6 ore settimanali). Ecco la
conclusione suggerita da Illich: l'uomo a piedi percorre in un'ora altrettanti
km dell'uomo motorizzato, ma impiegando per questi spostamenti un tempo da 5 a
10 volte minore. Morale: più una società diffonde veicoli veloci e più -
superato un certo limite - la gente ci passa e ci perde del tempo a spostarsi.
E’ matematico.
La ragione? Ma l'abbiamo appena vista: si sono sparpagliati gli agglomerati
lungo interminabili periferie autostradali, poiché questo era l'unico mezzo per
evitare la congestione dei veicoli nei centri abitati. Ma questa soluzione ha
un rovescio evidente: la gente può circolare a suo agio soltanto se è lontana
da tutto. Per far posto all'auto si sono moltiplicate le distanze: si abita
lontano dal luogo di lavoro, lontano dalla scuola, lontano dal supermercato -
una situazione che renderà necessaria una seconda auto affinché la « casalinga
» possa fare la spesa e portare i bambini a scuola. Distrazioni? Non se ne
parla neppure. Amici? Ci sono i vicini... e ancora ancora. La macchina, tutto
sommato, fa perdere più tempo di quanto non ne economizzi e crea maggiori
distanze di quante non ne copra. Certo, potete andare al lavoro a 100 km
all'ora; ma è perché bitate a 50 km ed accettate di perdere una mezz'ora per
coprire gli ultimi 10 km. Bilancio: «La gente lavora una buona parte della
giornata per pagare gli spostamenti necessari per recarsi al lavoro ». (Ivan
Illich). Forse mi direte: « Almeno, in
questo modo, una volta finita la giornata di lavoro, si sfugge all'inferno
cittadino ». Ci siamo: ecco la confessione. « La città » è percepita come I'«
inferno », non si pensa che ad evaderne o ad andare a vivere in provincia, quando,
per generazioni e generazioni la grande città, oggetto di meraviglia, era il
solo luogo dove valesse la pena di vivere. Perché questo rovesciamento? Per
un'unica ragione: l'auto ha reso inabitabile la grande città. L'ha resa
maleodorante, rumorosa, asfissiante, polverosa, ingorgata a tal punto che la
gente non ha più voglia di uscire la sera. Allora, poiché le auto hanno ucciso
la città, occorrono ancora più auto sempre píù veloci per fuggire su autostrade
verso periferie ancora più lontane. Circolo impeccabile: dateci più auto per
sfuggire alle catastrofi causate dalle auto. Da oggetto di lusso e da fonte di
privilegio, l'auto è così divenuta oggetto di un bisogno esistenziale: ce ne
vuole una per sfuggire all'inferno cittadino dell'auto. Per l'industria
capitalistica la partita è dunque vinta: il superfluo è divenuto necessità.
Inutile ormai tentare di persuadere la gente che desidera un'auto: la sua
necessità è iscritta nelle cose. E’ vero che possono sorgere dei dubbi
osservando l'evasione motorizzata lungo gli assi di fuga: tra le 8 e le 9,30
del mattino, tra le 5,30 e le 7 di sera per cinque o sei ore alla fine di
settimana, i mezzi di evasione si allineano in processione, para-urti contro
para-urti, alla velocità (nel migliore dei casi) di un ciclista, in un gran
nuvolone di benzina al piombo. Che cosa rimane dei vantaggi dell'auto? Che cosa
ne resta quando, come era inevitabile, la velocità di base sulle autostrade è
limitada precisamente a quella che può raggiungere una vettura da turismo la più lenta?
Gíusta rivincita delle cose: dopo aver ucciso la città, l'auto uccide
l'auto. Dopo aver promesso a tutti che si sarebbe andati più in fretta,
l'industria automobilistica raggiunge il risultato rigorosamente prevedibile
che tutti vanno più lentamente del più lento di tutti, ad una velocità determinata
dalle semplici leggi della dinamica dei fluidi. Peggio ancora: inventata per
permettere al proprietario di andarsene dovunque, all'ora e alla-velocità
desiderate, l'auto diventa il più schiavo, aleatorio, imprevedibile e scomodo
di tutti quanti i veicoli: scegliete pure un'ora stramba per partire, non
sapete mai quando gli intasamenti vi consentiranno di arrivare. Siete in balìa
della strada (dell'autostrada) tanto inesorabilmente, quanto il treno delle
rotaie. Non potete, proprio come chi viaggia in ferrovia, fermarvi
improvvisamente e dovete, ancora proprio come in un treno, marciare ad una
velocità stabilita da altri. Insomma, l'auto ha tutti gli svantaggi del treno -
più alcuni altri che le sono specifici: vibrazione, dolori di posizione, pericoli
di colli- sione, necessità di guidare - senza alcuni dei suoi vantaggi. E tuttavia, mi direte, la gente non va in
treno. Perbacco: e come potrebbe?
Avete già provato ad andare da Boston a New York in treno? 0 da Yvry a
Tréport? 0 da Garches a Fontainbleau? 0 da Colombo a l'Isola-Adam? Avete
provato, in estate, di sabato o di domenica? Ebbene, provateci, coraggio!
Costaterete che il capitalismo
automobilistico ha previsto tutto: nel momento in cui auto stava per
uccidere l'auto, esso ha fatto sparire
le soluzioni alternative, in modo da rendere l'auto obbligatoria. Così lo Stato capitalistico ha lasciato che
decadessero, poi ha soppresso le comunicazioni
ferroviarie tra le città, le loro periferie e la loro corona di zone
verdi.
Hanno incontrato i suoi favori soltanto le comunicazioni interurbane a
grande velocità, che contendono al trasporto aereo la clientela borghese.
L'aereotreno che avrebbe potuto mettere
le coste delle Normandia e i laghi del Morvan alla portata dei parigini che
vanno a far merenda la domenica, servirà a far guadagnare 15 minuti tra Parigi
e Pontoise ed a rovesciare ai suoi
capo-linea più viaggiatori saturi di velocità di quanti ne potranno
ricevere i mezzi di trasporto urbano.
Questo è progresso!
La verità è che nessuno può veramente scegliere: non si è liberi di avere
un'auto o di non averla, perché
l'universo suburbano è organizzato in funzione di questa - ed anche,
sempre di più, l'universo urbano.
Perciò la soluzione rivoluzionaria ideale, che consisterebbe nella sop-pressione
dell'auto in favore della bicicletta, del tram, del bus e del taxi senza
guidatore, non è più applicabile neppure nelle città autostradali come Los
Angeles, Detroit, Houston, Trappes o anche Bruxelles, modellate per e
dall'automobile. Città scoppiate si estendono lungo strade vuote dove si
allineano villette tutte eguali e dove il paesaggio (il deserto) urbano
significa: « Queste strade sono fatte per andare più velocemente possibile dal
luogo di lavoro al proprio domicilio e viceversa. Ci si passa, non ci si ferma.
Ognuno, terminato il proprio lavoro, non deve fare altro che starsene a casa
sua e tutti coloro che si troveranno per strada, caduta la notte, dovranno
essere sospettati di meditare qualcosa di brutto ». In alcune città americane,
del resto, il fatto di girare a piedi la notte per le strade è considerato una
colpa.
Allora la partita è perduta? No; ma l'alternativa all'auto non può essere
che globale. Infatti, perché la gente possa
rinunciare alla propria vettura non basta affatto offrirle dei mezzi di
trasporto collettivi più comodi: bisogna
che possa non farsi trasportare per niente, sentendosi a casa propria nel
proprio quartiere, nel proprio comune, nella propria città a misura d'uomo e godendo nell'andare a piedi dal lavoro al
domicilio - a piedi o tutt'al più in bicicletta. Nessun mezzo di trasporto
rapido e d'evasione compenserà mai la disgrazia di abitare in una città
inabitabile, di non essere a casa propria in nessun posto, di passarvi solo per lavorare o, al
contrario, per isolarsi e dormire.
« Gli utenti - scrive Illich - spezzeranno le catene del dominio del
trasporto quando ricominceranno ad mare come un territorio la propria isola
pedonale ed a temere di allontanarsene troppo spesso ». Ma, appunto per poter
amare « il proprio territorio », bisognerà che prima questo sia reso abitabile e non circolabile: che il quartiere o il comune torni ad essere il
microcosmo modellato da e per tutte le attività umane, dove la gente lavori,
abiti, si rilassi, si istruisca, comunichi, si dia da fare e gestisca in comune
l'ambiente della propria vita in comune. A chi gli chiedeva una volta che cosa
avrebbe fatto la gente del proprio tempo dopo la rivoluzione, quando lo spreco
capitalistico sarebbe stato abolito, Marcuse rispose: « Distruggeremo le grandi
città e ne costruiremo di nuove. Questo ci terrà occupati per un po' ». Si può
pensare che queste città nuove saranno delle federazioni di comuni (o di
quartiere), circondate da zone verdi dove i cittadini - e specialmente gli «
scolari » - passeranno molte ore settimanali a far crescere i prodotti freschi
necessari alla loro sussistenza. Per i loro spostamenti giornalieri essi
disporranno di una serie completa di mezzi di trasporto adatti ad una città
media: biciclette municipali, tram o filobus, taxi elettrici senza guidatore.
Per gli spostamenti più grossi in campagna, come pure per il trasporto degli
ospiti, un « pool » di automobili comunali sarà messo a disposizione nei
garages del quartiere. L'auto avrà smesso di essere un bisogno. E tutto sarà
mutato: il mondo, la vita, la gente. E ciò non sarà accaduto per caso.
Frattanto, che fare per arrivare a questo? Anzitutto, non porre mai il problema
dei trasporti isolatamente; collegarlo sempre al problema della città, della
divisione sociale del lavoro e della
parcellizzazione che questa ha introdotto tra le differenti dimensioni
dell'esistenza: un posto per lavorare, un altro posto per « abitare », un terzo
per approvvigionarsi, un quarto per istruirsi, un quinto per divertirsi. Lo
spezzettamento dello spazio perpetua la disintegrazione dell'uomo iniziata con
la divisione del lavoro in fabbrica. Esso taglia l'individuo a fette, taglia il
suo tempo, la sua vita in pezzi ben divisi, affinché in ognuno di questi pezzi
voi siate dei consumatori passivi in completa balia dei commercianti, affinché
non vi venga mai in mente che lavoro, cultura, comunicazione, piacere,
soddisfazione dei bisogni e vita personale possono e debbono essere un'unica e
medesima cosa: l'unità di una vita sorretta dal tessuto sociale del comune.
(« Le Sauvage », settembre-ottobre1973)