Il gran giorno degli eroi risorti
Capitan Valentino e i suoi eredi: tutti uniti in una magia che cancella anche il tempo

MASSIMO GRAMELLINI

Caro Luca, scrivo a te perché so quanto avresti desiderato essere presente al compleanno della squadra che fin da piccolo ti aveva incendiato il cuore. Durante i giorni del fallimento, quando il futuro del Toro sembrava appeso a un'illusione, mi infondevi coraggio: "Risorgeremo. E festeggeremo il Centenario in serie A. Ma te lo immagini? Il nuovo stadio, tutto una bandiera, e Pulici che fa il giro di campo con la maglia granata… Tengo già pronto un pacco di fazzoletti, però ho paura che non basterà". Infatti non è bastato, amico caro, nonostante di pacchi io ne avessi portati due: il mio e il tuo. Sei volato fra gli Invincibili quasi un anno fa, messo sotto da un'auto proprio come il nostro primo idolo, Meroni. Eppure ieri ti ho sentito, mentre Pulici faceva il suo giro di campo con la maglia granata e la camminata larga da sceriffo che lo ha consegnato per sempre alla memoria di chi delirò per lui. Urlavi: "For-za Vec-chio Cuo-re Gra-na-ta!", insieme a mio padre, a mio zio e a tutti i padri, gli zii, i nonni, i fratelli e gli amici che prima di andarsene hanno fatto in tempo a trasmetterci il virus. C'era un secolo di tifosi intorno a noi, in quel momento, e bastava chiudere gli occhi per pensarvi e per vedervi: tutti. C'erano anche molte figurine dei nostri album infantili. Alcune di carta, appese alla balconata dei distinti come altrettanti panni ad asciugare. Altre fatte di carne, che spuntavano una alla volta dal sottopassaggio ed ogni apparizione era una frustata al cuore e un rendiconto esistenziale. Ti confesserò un segreto, Luca. Mi ero preparato a rivedere i nostri campioni imbiancati di brutto e quando in un corridoio dello stadio ho incrociato un Francini identico al Francini degli anni Ottanta, ho pensato al ritratto di Dorian Gray o a un capolavoro definitivo della chirurgia estetica, prima di dover ammettere che era suo figlio. Non mi ha stupito né sconvolto contare le rughe sui visi dell'ultimo scudetto, che nel poster dietro la mia scrivania avranno sempre vent'anni. Quel che proprio non mi sarei aspettato di scoprire era che io, e non loro, stavo diventando vecchio. Anche se navigo ancora ben al di sotto della linea del mezzo secolo. E' successo quando al centro del campo l'ottimo Piero Chiambretti, leggendo il "gobbo" che gli scorreva sotto i piedi (una ben giusta sorte!), ha annunciato i miti della nostra infanzia. Giobatta Moschino, il regista pelato che appena colpiva la palla di testa l'arbitro fischiava fallo di mano. Nestor Combin, la belva che seppellì i pigiami sotto una tripletta, la domenica in cui vendicammo la morte di Meroni. Topolino Toschi, il frilletto che all'ultimo minuto di una partita di primavera, spuntò dal filo di erba sotto il quale si era accovacciato, sfilò la palla dalle mani del portiere avversario e ci portò in testa alla classifica per la prima volta dopo Superga. Immaginavo che tutto lo stadio sarebbe cascato ai loro piedi. Invece i ragazzi delle curve li hanno salutati con un applauso di cortesia. Come se sapessero a stento chi fossero e comunque non riuscissero ad agganciare quei nomi a un'emozione. Li capisco. E' lo stato d'animo che ho provato io nel vedere il geniale Denis Law, di cui tanto mi narrò mio padre, e anche Sauro Tomà e i pochi altri sopravvissuti del Grande Torino. Li ho applauditi, certo, ma senza sentirmi coinvolto fin nelle viscere. Avevano il torto incolpevole di non essere stati i protagonisti della mia infanzia. Perché il tifo, ieri l'ho definitivamente compreso, è un trucco che gli adulti hanno inventato per poter restare sempre un po' bambini. Serve ad alimentare la loro parte infantile, congelandola, affinché le delusioni dell'età matura non riescano mai a distruggerla del tutto. Il cuore di un bambino conosce passioni semplici. Assolute e retoriche, magari. Ma ancora grondanti entusiasmo e fiducia nel futuro. La stessa che ha animato i tanti bimbi dai cinque agli ottant'anni che ieri si sono svegliati sotto un cielo color latte, hanno cercato a tentoni nell'armadio qualcosa di granata, e, trovatolo, si sono subito sentiti più felici. Alle undici del mattino potevi già incontrarli per la strada che porta al Filadelfia, affacciati nonostante il freddo ai finestrini delle auto per augurarsi a vicenda "Buon compleanno!". Al Fila si respirava l'atmosfera sacra dei grandi giorni. Lì neppure il tifoso più scalmanato osa alzare la voce. Ci sono andato perché durante quelle nostre chiacchierate estive avevamo deciso così. "Il Toro risorgerà e il giorno del Centenario lo andremo a festeggiare col Grande Torino nel suo stadio". C'era l'erba alta, Luca, e i brandelli delle tribune sempre più arrugginiti. Mi è montata la rabbia, poi mi sono ricordato che nei tuoi sogni premonitori non avevi visto risorgere solo la squadra, ma anche il suo tempio. Faremo di tutto per non smentirti. Al Comunale, o come si chiama adesso, mi sono seduto in faccia ai poster giganteschi di Mazzola, Meroni, Ferrini e Pulici, appoggiati come totem fra le gradinate: nessuna altra fede al mondo mescolerebbe i morti e i vivi con la stessa indifferenza e la stessa partecipazione. Quei quattro volti sono simboli eterni, che collegano e accomunano le generazioni. Il ragazzo della Maratona non si commuoverà più per Moschino, ma continua ad avere la pelle d'oca quando l'altoparlante evoca capitan Valentino. E chi da piccolo, anziché Pupi, ha avuto la sventura di vedere Ipoua, potrà anche applaudire Rizzitelli più di Combin, ma se gli dici che ieri De Ascentis sembrava Ferrini, sa esattamente di cosa si parla. E domani saprà spiegarlo a suo figlio. Questa è la vera magia del Toro. Dimenticavo: dopo abbiamo pure battuto l'Empoli, e in che modo! Uno a zero all'ottantottesimo, con un sinistro spettacolare di Comotto, che è destro, ma tiene la foto del Grande Torino sul comodino accanto a quella di papa Giovanni e quindi se lo merita. C'era anche un gol per loro, ma quel sant'uomo dell'arbitro non ha visto entrare il pallone. Se il secondo secolo granata ha intenzione di raddrizzare tutti i torti subiti dal primo, prevedo un futuro radioso per noi, amico mio.

Cimeli & misteri del CUORE TORO
di Silvia Garbarino

La storia e i simboli del Toro valgono un milione 410 mila euro. Al minimo. Una manciata di giorni fa il giudice della sezione fallimenti del Tribunale, Maria Luisa Fabbro, su istanza presentata dal curatore fallimentare Pietro Angelo Cerri ha fissato la base d’asta dei cimeli e dei marchi. I giochi sono aperti. Fino al 12 luglio alle ore 9,59 chi dispone di soldi e sentimento, e viceversa, può cullare un sogno e lucidare l’ambizione di portarsi a casa, in studio, nella tavernetta o dove meglio crede, un pezzo del calcio italiano. Le offerte non mancano, ed è già una novità. Alla cancelleria qualche busta sigillata contenente (è presumibile che non siano solo buontemponi) assegno circolare con il 10 per cento della propria offerta è già stata depositata. L’interesse per il granata c’è e c’è sempre stato anche se in pochi sapevano che cosa contenesse nello specifico il pacco «Toro che fu». Ora si sa, nel dettaglio. E le sorprese, nel bene e nel male, non mancano. Innanzitutto in vendita ci sono il patrimonio sportivo accumulato dalla nascita del Toro sino all’era Cimminelli. Dunque, le denominazioni Torino calcio, Torino Football Club e Torino Associazione Calcio, la ditta Torino calcio, i marchi registrati, i colori della divisa sociale di gioco nelle sue diverse configurazioni utilizzate. Poi la parte più appetibile per un manager calcistico, ovvero i diritti di utilizzazione economica delle opere fotografiche, riprese cinematografiche e audiovisive aventi oggetto l’attività del Toro calcio, il diritto all’identità personale, intesa come salvaguardia della storia e dei meriti sportivi, infine il diritto di trarre ogni possibile utilità, in termini economici e di prestigio, dall’attività svolta in passato dal Toro. Un insieme di aspetti che possono stimolare l’attuale patron del Toro, Urbano Cairo, che potrebbe riunire in un solo colpo ciò che è stato il Toro e ciò che adesso è. Il resto, i cimeli, sono la memoria, la passione, l’emozione, e l’ideale fatto sostanza, dei tifosi. L’inventario degli oggetti ritrovati nello scantinato di via Allioni, ex sede granata, ha sancito che razzia c’è sicuramente stata, fortunatamente non da «unno». I pezzi più pregiati, vale a dire gli scudetti Figc ‘45/’46, ‘46/’47,’47/’48, ‘48/’49 vinti dal Grande Torino e il piatto cesellato a mano datato Lisbona 1949, cioè l’ultima partita disputata da capitan Valentino Mazzola e compagni prima della tragedia di Superga ci sono. Intatti. C’è anche il trofeo coppa Uefa Real Madrid-Torino 1992, i 6 trofei del torneo di Viareggio, la coppa Europa Centrale 1976, le coppe Italia e i campionati Primavera, 380 gagliardetti medi, 250 gagliardetti grandi, 8 stemmi in vetro, ben 1200 distintivi da giacca, lo stemma sociale in stoffa (alto un metro e con asta), decine e decine di fotografie e stampe di diverse dimensioni, e dulcis in fundo 840 fra coppe trofei minori definiti dai periti «di scarsa rilevanza storica e sportiva». Nell’elenco non ci sono le coppe Italia conquistate nel 1936, 1943, 1968, 1971 e 1993. Non c’è traccia della coppa per miglior capocannoniere assegnata a Pulici e neppure i trofei relativi agli scudetti del 42/43 e l’ultimo, del ‘76, di Pianelli e Radice. Spariti come già si sospettava, ma ora ve n’è certezza piena e acclarata. Un mistero si lega ad ogni Coppa. Quella del ‘36 era un pallone in creta con piedistallo in ceramica; i curatori della Memoria storica granata che gestiscono l’unico Museo dedicato al Grande Torino, in due stanzette della Basilica di Superga, l’hanno vista solo in fotografia, dal vivo neppure l’ombra. «Potrebbe essere andata dispersa, se non anche rotta nel trasloco degli oggetti dopo la tragedia di Superga» spiega Franco Ossola, figlio dell’ex giocatore del Grande Torino e storico granata. Le coppe datate ‘68, ’71 e ‘93 sparirono dalle bacheche durante la presidenza Vidulich a causa di furti - denunciati dall’allora patron genovese - e di loro non si è saputo più nulla, infine si è volatilizzata la coppa del ‘43 battuta all’asta da Christie’s nel 2002 per 40 mila sterline (circa 60 mila euro) e acquistata dall’ex presidente granata Tilli Romero su ordine di Cimminelli. Lo stesso Romero fece fare un censimento di ciò che ancora stazionava negli scantinati e comprese che i conti non tornavano. Però alla denuncia pubblica non si mosse foglia. «Mancano anche i palloni in cemento che ornavano i lati delle scale della tribuna del Filadelfia e le tre lapidi, una del ‘26, sistemate sotto la tribuna stessa - puntualizza ancora Ossola -. Nessuno sa con precisione che fine hanno fatto». Per il nuovo Toro legarsi al passato è importante, fors’anche doveroso per una buona fetta di tifosi, ma ai misteri e alle assenze sarebbe doveroso dare risposta. Prima o dopo.

Capitan Valentino, puoi essere orgoglioso di noi
di Massimo Gramellini
CARO capitan Valentino, ti scrivo come d'accordo per relazionarti sugli eventi straordinari di cui sono stato testimone oculare ieri sera, mentre tu, Meroni, Ferrini e una schiera di angeli granata lunga un secolo smanettavate sulla radiolina, dato che lassù la tv a pagamento non si prende, altrimenti che paradiso sarebbe. Ti scrivo anche perché non ho più voce, l'ho persa tutta alla fine del primo tempo quando Rosina ha calciato in rete il rigore più lento della storia e ogni rotolio del pallone era una figura di rock'n'roll che mi ballava nello stomaco. Vengo subito al dunque. La traversata nel deserto è finita e il nostro Toro festeggerà il Centenario in serie A con la speranza legittima che si tratti di un trasloco definitivo. E' stata una serata difficile da raccontare e impossibile da dimenticare. Fin dal primo istante il pubblico ha incendiato i garretti dei propri giocatori, accogliendoli con una coreografia maestosa di migliaia di vessilli granata e bianchi, mentre gli striscioni contenevano tutti lo stesso ordine: travolgeteli. Il Toro ha provato subito a obbedire, ma il Mantova concedeva pochi spazi, incitato senza sosta da un manipolo di tifosi che il clima sfavorevole contribuiva a esaltare. De Biasi ha azzeccato la formazione, proponendo Rosina e Lazetic sulle ali per aggirare i giganti della difesa avversaria. Cairo ha sfidato la scaramanzia con un giro di campo trionfale prima dell'incontro e poi rinunciando alla solita poltroncina di tribuna per guardare la partita dalla panca come il suo omologo mantovano, fischiatissimo. Finalmente tre giocatori del Toro cadevano in area e Farina concedeva il rigore che Rosina ha trasformato al rallentatore. Mezza rimonta era fatta. Nella ripresa il Toro caricava sotto la Maratona in delirio e dopo un paio di mischie si materializzava il sogno: Rosina calciava un corner da maestro, Abbruscato saltava a vuoto, ma alle sue spalle spuntava il piedino benedetto di Muzzi. Quel che è successo dopo non lo so, perché qualcuno mi ha sollevato per le ascelle e un urlo spaventoso ma bello ha squarciato la notte del Toro. Ho visto la Maratona cadere in campo e ho capito che stavamo andando in serie A. Con le regole in uso nelle coppe, il 2 a 0 avrebbe chiuso la sfida in virtù dei due gol segnati a Mantova. Invece ci è toccato sperimentare per il secondo anno di fila il regolamento dei playoff: altri 30 minuti di sofferenza. Il tempo, che prima del raddoppio correva come un ghepardo, ha cominciato a passeggiare peggio di una tartaruga. Finché il terzino Nicola è saltato in mezzo all'area del Mantova e ha schiacciato un pallone che i guanti dell'ottimo Brivio non sono riusciti a trattenere. E lì, capitano, siamo esplosi un po' tutti, a cominciare dal mio vicino Camolese, l'allenatore dell'ultima promozione, che stringeva i pugni verso il cielo come se fosse in panchina. Sembrava finita, ma naturalmente non lo era: Fantini si è fatto espellere, poi Melara è planato su un mantovano regalandogli il terzo rigore in quatto giorni. Ma il 3 a 1 ci bastava. E, dopo altri oceani di angoscia, ci è bastato. Ti saresti emozionato, capitano, nel vedere sugli spalti i figli e i nipoti della tua gente, stretti come un pugno intorno all'utopia di una rimonta avventurosa. Sessantamila voci che vibravano all'unisono nell'eterno grido di battaglia, «To-ro» «To-ro», sessantamila storie che si erano date appuntamento per l'ultima volta in uno stadio mai amato per ricordare innanzitutto a se stesse di rappresentare qualcosa che nel calcio d'oggi e di Moggi sembrava non potesse esistere più: una comunità. Nessuno più di te sa che la storia del Toro disdegna i battiti regolari del cuore e oscilla di continuo fra favola e incubo. Ebbene, l'incubo dell'estate scorsa ha partorito la favola più bella. Quella di una tifoseria, di una società e di una squadra sopravvissute alla morte e nuovamente alleate in un blocco compatto, che lanciano una sfida impossibile alle regole della modernità, uscendone vittoriose. Ci avevano spiegato che il calcio del Duemila si nutre di marchi pubblicitari, diritti televisivi, allenamenti scientifici e lunghissime programmazioni. Ma il Toro che ieri sera si è affacciato dal sottopassaggio per la battaglia finale è cresciuto a partire da un gruppetto di calciatori che si ritrovò alla fine di agosto senza avere in comune neppure il colore della tuta, con un acquedotto municipale per sponsor, la preparazione estiva saltata e un futuro dipinto di buio. Quando all'inizio di settembre arrivarono Cairo e De Biasi, dovettero rimpolpare la rosa in dieci giorni e mandarla subito in campo per la prima partita di campionato contro l'Albinoleffe. Da allora è stata una rincorsa continua alla normalità: mai raggiunta del tutto, per fortuna. Dopo ogni luogo comune abbattuto, il Toro scopriva di essere più temprato, più forte e soprattutto meno solo. Intorno a lui stava tornando a crescere l'affetto torrido del suo popolo, finalmente libero di esprimere il proprio attaccamento al simbolo del cuore senza la foresta di pregiudizi cresciuta in un quindicennio di presidenze orripilanti. Quel popolo si era già radunato per le strade di Torino tre anni prima, nel giorno della retrocessione più umiliante, che per molti gufi e alcuni pupari avrebbe dovuto rappresentare il preludio all'estinzione. La marcia dell'orgoglio fu il suo modo di gridare ai padroni del vapore che i tifosi del Toro non si sarebbero mai uniformati a un sistema che voleva cancellare le identità e ridurre il grande calcio a una parata milionaria di pochi club. La comunità dei Tremendisti tornò a incontrarsi allo stadio il giugno scorso, in occasione dello spareggio contro il Perugia, credendo fosse quello buono per tornare in serie A, salvo scoprire durante un'estate da horror che era servito a evitare la C. Quella sera il cuore di ogni granata era ancora spaccato in due: soffriva per la bandiera, ma disprezzava la dirigenza. Andare allo stadio per tifare la squadra di Cimminelli richiese comunque più stomaco che coraggio: il Toro aveva vinto la prima partita, in fondo si trattava di una festa annunciata. E' vero che dai tempi del pareggio-scudetto contro il Cesena, noi le feste annunciate abbiamo un talento speciale nel provare a rovinarcele e non ci smentimmo neanche quella volta. Ma credimi, capitano, per uscire di casa ieri sera occorreva una dose supplementare di incoscienza. Ciascuno di noi, nello scendere le scale del proprio appartamento con una sfilza di gesti scaramantici raddoppiata nella circostanza, sapeva molto bene che esistevano alte probabilità di risalirle qualche ora dopo con l'umore sotto i talloni e la prospettiva di un'altra estate alla finestra, affacciati sulle disgrazie altrui. Però le abbiamo scese lo stesso, quelle scale. Perché erano l'unico sentiero possibile per arrampicarsi fino al paradiso. E poi tu sai quanto siamo viziati, in fatto di emozioni. Ci piace vivere in rimonta. Prendi il tuo Toro: vinse cento e cento partite, ma quando mio padre me ne voleva raccontare una, era sempre di un certo Torino-Lazio che mi parlava, con i biancazzurri avanti di tre gol, tu che finalmente ti scocci, arrotoli le maniche granata fino ai gomiti e gridi «Alé!», la tromba che suona la carica, la folla che romba «To-ro To-ro» e non ce n'è più per nessuno: una due tre quattro reti in un quarto d'ora, quasi come nel derby ribaltato in tre minuti, o in quello nobilitato dagli scavi di Maspero. Capitan Valentino, dopo tanto tempo puoi di nuovo andare orgoglioso di noi. E, per favore, dì a mio padre che la smetta di fare finta che non sia successo niente, tanto lo so che sulle guance gli è spuntato l'arcobaleno. Prenda esempio dallo zio, che starà già sventolando il suo bandierone granata in faccia a qualche sparuto cherubino in pigiama. A proposito: lo sapete che il Toro morto e risorto potrebbe ritrovarsi unica squadra di Torino in serie A? Ma questa è un'altra storia, te la racconto la prossima volta...

UN VIAGGIO MERAVIGLIOSO INIZIATO IL 3 DICEMBRE 1906
Grande Toro, Oggi compie 99 anni
Più forte di chi ha cercato di farlo fallire. De Biasi: «Appartiene ai suoi tifosi»
di Roberto Condio

Poteva finire tutto il 9 agosto. Roba di meno di tre mesi fa: il Torino Calcio, aveva sentenziato il Consiglio di Stato in capo a 40 giorni di squallida agonia, ha un sacco di debiti e non può partecipare alla serie A conquistata sul campo. Come dire: cancellato dal pianeta del pallone il club di Cimminelli e Romero, ma pure una riga spessa tirata sopra una storia lunga quasi un secolo, grondante sofferenza e nobiltà, sudori e onori, tragedie e trionfi. Invece no. A sparire è stato soltanto il vecchio involucro granata, la scatola in rosso malgestita da Cimmi e Tilli, ufficialmente fallita da qualche giorno. Il Toro esiste ancora, eccome. E oggi festeggia a testa alta 99 anni di vita. Grazie a Rodda, Marengo, Bellino e soci, che a luglio, in pieno caos cimminelliano, sono stati i soli ad aprire il paracadute del Lodo Petrucci. Grazie al sindaco Chiamparino, che ha garantito la bontà dell’iniziativa anche quando il Palazzo nutriva dubbi forti. Grazie a Cairo, il presidente della riscossa, del progetto ambizioso che ha fatto dimenticare un’estate da incubo. Il Toro, però, esiste ancora perché lo ha voluto la sua gente, quella che ha scelto di sbattersene dell’etichetta (il Torino Calcio è morto, il 16 agosto 2005 per la Federcalcio è nato il Torino Football Club) e di badare solo alla sostanza. Al cuore, alla fede. Granata, comunque. Sia chiaro, dunque: senza l’impegno dei lodisti, senza le parole e lo sponsor trovati da Chiamparino, senza la svolta impressa da Cairo oggi non ci sarebbe più Toro lassù, in volo verso la serie A. Ma soltanto l’adesione totale del milione malcontato di tifosi granata sparsi in tutto il mondo al «nuovo» Torino Fc, il loro calore, il loro entusiasmo, la loro ritrovata voglia di esserci (allo stadio, soprattutto) autorizza a non interrompere il 9 agosto 2005 quella storia unica. «Il Toro non è questione di marchio o di denominazione - ha detto ieri l’allenatore Gianni De Biasi, uno degli ultimi arrivati, uno che però ha già capito tutto di cose granata -. Il Toro è patrimonio della sua gente. Il Toro è un’idea, è una storia che non si può fermare». Il Toro è una storia che cominciò il 3 dicembre di 99 anni fa, in una saletta al primo piano della birreria Voigt, via Pietro Micca, cuore cittadino. Ventitré signori in bombetta, 17 con nomi stranieri, un bel po’ di fuoriusciti dalla Juventus che giusto l’anno prima aveva vinto il suo primo scudetto. Da allora, inevitabilmente, è stata una lotta continua con l’altra squadra della città. Pari e patta o quasi in quanto a scudetti (7 la Juve, 6 più uno revocato il Toro), fino a Superga. Fino al primo sgambetto del destino. Da quel 4 maggio 1949, da quello schianto che si portò via Valentino Mazzola e compagnia immortale, nulla è più stato come prima. Non è mai più riuscito a vivere sereno, il Toro. Mazzate, tremende mazzate. E poi reazioni gagliarde. Più lo sbattevano giù e più provava a tirarsi su. Schiumando rabbia, sospinto dalla sua gente. Anni grigi e la serie B conosciuta per la prima volta nel 1959. Pianelli presidente, la testa che si rialza finché nel 1967 non vola via anche la geniale farfalla Meroni. Di nuovo daccapo, fino allo scudetto del maggio 1976. La storia che sembra finalmente poter girare. E invece, a novembre addio capitan Ferrini e a maggio 1977 il 2° posto record con 50 punti su 60, uno in meno della Juve, naturalmente. La solita sfiga. Che, di recente, ha voluto dire soprattutto proprietà sciagurate, la iattura peggiore. Eppure, dopo aver attraversato i cicli Borsano, Goveani, Calleri e Vidulich, e aver rischiato di morire con Cimminelli, il Toro c’è ancora. Ha cambiato nome, sta giocando il suo 7° campionato di serie B sugli ultimi 10, ma erano anni che non lo vedevamo così in salute. Cairo gli ha ridato la speranza, la possibilità di pianificare un futuri su basi solide. Oggi, a pieno titolo, compie 99 anni e vorrebbe tanto regalarsi una bella vittoria contro la Triestina. Soprattutto perché pensa già al prossimo 3 dicembre. Quello del Centenario, che cadrà di domenica. Il sogno è nitido, meraviglioso: la festa del 100 giocando il derby ritrovato, nello stadio «Grande Torino».

Vatta, il mago che trasformava i bimbi in oro
di PAOLO BRUSORIO

ex ala del Toro, amico di Bob Vieri, il padre di Christian. Bobo giocava nel Prato e per convincere il presidente toscano, tifoso granata, a vendercelo comprammo anche il figlio Paolo, portiere ad Ancona».
Com'era Vieri?
«“Mi diceva: sono il più scarso di tutti, vado a casa”. Io gli rispondevo: è vero, sei scarso, ma fai sempre gol. Aveva una feroce voglia di riuscire, alla fine di ogni seduta si fermava un'ora più degli altri a crossare. Non avrei mai pensato potesse diventare così forte». Altro fenomeno: Lentini.
«Lo vidi in una partita degli allievi a Mathi Canavese e ne fui impressionato. In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili, la maglia numero sette finiva sempre stracciata. E una volta fece infuriare Pagliuca...».
Racconti...
«Fece quattro gol alla Samp. Nell'ultimo scartò mezza squadra, poi si fermò sulla linea di porta, aspettò il ritorno del portiere e segnò. Eravamo al Fila, Pagliuca lo inseguì per tutto il campo...».
Il provino più strano? «Al Filadelfia si presenta un ragazzino e mi dice: “Arrivo da Bagnara Calabra, abito da mia sorella e voglio giocare nel Torino”. “Sei troppo piccolo per noi”, gli dissi, così lo mandai al Victoria Ivest, una nostra succursale. Mi richiamarono: questo piccoletto è un fenomeno.... Era Benny Carbone».
La sconfitta indimenticabile?
«Tardelli. Dopo averlo visto a Como, andammo da Pianelli che ci accolse sconsolato: “A l'a pialu l'Avucat” disse. L'aveva già preso l'Avvocato.

Vi racconto il mio Grande Torino
di Folco Portinari

Sunset boulevard. Un passo dopo l’altro sto percorrendo il mio viale del tramonto: ottant’anni ormai e i passi sono ricordi. Di luoghi, di persone, come un set cinematografico. La location, come dicono quelli della televisione con aria sussiegosa, la location è nella periferia di Torino, in via Filadelfia. Se uno la percorre va a finire allo stadio degli odiati cugini, mica tanto distante cioè. Ma via Filadelfia vuol dire il campo dei granata. Non monumentale, con il pubblico a ridosso del prato, così che gli è possibile ascoltare cosa dicono i giocatori, in una strana e totale partecipazione alla grande recita.

Fa un altro effetto sentire il rumore delle botte tra Varglien I e Silano nei derby, per esempio, rispetto all’assenza di audio del Mussolini-Comunale. Qualche pestone orale glielo possiamo dare anche noi dei popolari. Insomma, l’ambiente ha la sua funzionenel racconto che cala giù dalla memoria, proprio per la qualità dei luoghi e dei personaggi. (Qualcosa del genere l’ho sperimentata nel piccolo stadio del Santos di Pelé, simile molto al Filadelfia).

Da dove incominciare? Potrei dire che io sono un sopravvissuto e questo per merito mio. Ho vestito la maglia granata, molto indegnamente. Una scamorza. Devo la mia salvezza solo alla mia mediocrità. Sennò sarei potuto salire sull’aereo per Lisbona o, quel che è peggio, su quello di ritorno a Torino. Ma ero mediocre e perciò…La mediocrità non mi impedì comunque di calpestare il verde di quel campo. O quello stanzone più che spartano che faceva da spogliatoio per noi giovani (lì pensai di scrivere un libro che rimase del tutto incompiuto, nello spogliatoio, dal titolo di umanissima verità: La puzza dell’eroe, quella del sudore a fine partita, la somma dissacrante dei sudori). Perché mediocre? Ecco, ricordo la prima volta che mi trovai, pallone nei piedi, davanti a Valentino Mazzola. Uno bravo non si sarebbe spaventato, io mi fermai pietrificato. Il primo a sgridarmi fu lui e altrettanto mi sgridò il grande Bodoira, Pinza, quando mi vergognai di tirare in porta da due metri. Goal sicuro, rifiutato per timidezza e pudore. Eppure mi sarebbe bastato ricordare che Bodoira arrivava dalla Juve (come Gabetto, del resto,o come Felicino Borel) per lasciare ogni ritegno. Vederlo bianconero.

Con alcuni giocatori bianconero-granata ebbi in seguito una qualche familiarità. Due centromediani, come si diceva allora, due stopper di particolare cattiveria, impietosi con le caviglie degli avversari, che militarono sui due fronti, transfughi entrambi: Cesare Naj e Rino Ferrario, in arte Mobilia, entrambi miei coetanei. Ma colui al quale mi sentii più legato, anche per ragioni di mestiere, fu Raffaele Vallone, diventato poi Raf, uomo di raffinatissima cultura, politicamente impegnato (me lo ricordo nelle stanze dell’Unità in corso Valdocco, direttore Davide Lajolo, a dirigere le pagine culturali del giornale comunista nel 1945). Vallone era un numero dieci, anche se allora le maglie non erano numerate. Sarebbe arrivato al suo posto Valentino Mazzola, mentre lui si iscriveva all’università per una seconda laurea. Lì fummo compagni di scuola.

Ho citato prima Borel, Farfallino. Era sbarcato in via Filadelfia dalla Juventus come giocatore allenatore. Ebbi con lui un sodalizio ventennale. Fu lui, se ben ricordo, a portare il “sistema”, che sarà la formula vincente del grande Toro. Però l’inventore del grande Torino, non ho dubbi, fu Egri Erbstein, ungherese di alta cultura umanistica. La figlia Susanna, assai nota danzatrice classica e coreografa, mi fece leggere un giorno gli appunti del padre e mi colpì un’annotazione che ne rivelava la dimensione intellettuale: insegnare a Ballarin a sorridere. Gli interessava sì la tecnica e la tattica, ma ai suoi giocatori chiedeva di essere innanzitutto uomini, senza sovrastrutture divistiche. Be’, anche i massimi giocatori granata non furono mai divi. Non avevano veline tra i piedi, li potevi trovare da Leri, un bar di corso Vittorio, o a spasso per la città. Il problema era il “dopo”. Non guadagnavano miliardi ogni anno e pensavano a come sistemarsi a fine carriera. Gabetto, che oggi avrebbe novant’anni, si associò con Ossola e aprirono assieme un caffè (come aveva fatto Buscaglia, quasi un’osteria, vicino a casa mia) in via Roma, il Vittoria, e alla cassa si insediarono le rispettive mogli (ah, la simpatia della signora Gabetto, bella e tanta). Ferraris II tornò a Vercelli, padrone del miglior albergo della città. Lo frequentai quando il destino volle che finissi a insegnare in liceo tra le risaie. Notti a evocare con nostalgia, assieme a Piola, un passato senza ritorno.

Passateli in rassegna uno per uno: Maroso, l’eleganza che non abbiamo più rivisto; il trio Nizza, Rigamonti Martelli Bacigalupo, studenti fuori corso; Castigliano, la riproduzione di un giocatore della Pro o del Casale dei tempi eroici, goal normali da trenta metri; Grezar, di un’altra eleganza da quella di Maroso, un signore inglese; Loik, il precursore di Lodetti, il fedele e instancabile scudiero, di cui non può fare a meno nessun Don Chisciotte; Gabetto, incapace di qualunque cosa facile; Menti, dal tiro spaccareti, tutto ingobbito nella corsa; ma sopra tutti lui, Valentino. Quale altro trascinatore ci è stato dato di vedere in Italia paragonabile a Mazzola? Sembrava in certi momenti che si caricasse gli altri dieci compagni sulle sue spalle e li portasse all’assalto della porta avversaria. Suonava , in quei momenti, una tromba sulle gradinate di via Filadelfia, come si vede solo nei film di John Ford, quando arriva il settimo cavalleggeri. E il Mazzola che, senza scendere negli spogliatoi, si fermava durante l’intervallo in campo a giocare con i figli, già vestiti in maglia granata. Uomini normali con le normali crisi di qualsivoglia famiglia, dicevo. Mazzola si divise dalla moglie prima del fatale volo. È di alto patetismo il racconto di come Sandrino ebbe notizia della morte del padre, ormai in un’altra casa.

È paradossale come su questo gruppo di uomini si sia esercitata tanta retorica bolsa, snaturante, trasformando gli uomini in eroi, spogliandoli della loro qualità più singolare in quell’ambiente, specie se paragonato con l’attuale. Erano uomini, erano bipedi come tutti noi. La differenza culturale è tutta in quella trasformazione, che coincide con la trasformazione del calcio: allora era uno sport, oggi è un’impresa pubblicitaria. Quella del Toro che muore a Superga, infilzato da un insipiente torero, e diventata una leggenda. Adesso ci fanno pure un film per la televisione, ma ai miei tempi la leggenda era ancora in fieri, i cinque scudetti consecutivi non c’erano nel carniere. E senza Superga chissà quanti sarebbero stati… Erano già pronti i rincalzi, i “nuovi”, come Fadini, che ricordo in quell’ultima partita contro il Milan, 4 a 1, e lui superbo a centrocampo, degno di quella squadra. Per noi, però, la leggenda c’era eccome. Un’altra, precedente. Era quella del trio Balonceri Libonatti Rossetti (lo conobbi, mio allenatore con i “ragazzi” durante la guerra) e del mio compaesano Janni. Noi, e non solo noi, sapevamo caricare di simboli quelle maglie rosse, contro le bianconere, era un rosso vietato quanto il sol dell’avvenire, era l’antifiat come antiagnelli (anche se poi scoprimmo che Togliatti era juventino, ahilui).

Di quell’avventura ci restano le ceneri. Le ceneri dello sport, così degradato a commercio, ci restano le ceneri di Mazzola e Maroso, la nostra memoria, ma ci restano soprattutto le ceneri della nostra giovinezza irrimediabilmente perduta, benché secondo natura. Ah, ou sont les neiges d’antan ?... Si muore, secondo natura.

GRANATA E' IL NOSTRO COLORE

Siamo tanti, tantissimi, siamo in tutta Italia e nel mondo, siamo un popolo...GRANATA E' IL NOSTRO COLORE.
Siamo orgogliosi della nostra maglia, della nostra storia, dei granata del passato, ma non siamo più in grado di esprimere i nostri sentimenti. Scoraggiati e rassegnati dopo un decennio di "nulla totale", una vergognosa altalena tra la B e la massima serie, squadra e società neppure all'altezza di una tranquilla serie A, siamo ancora qui perché GRANATA E' IL NOSTRO COLORE.
Come davanti ad una donna bellissima, non siamo più in grado di dichiararci, inibiti da una vergogna che non ci appartiene. Non voglio parlare delle colpe delle varie proprietà e di chi ha contribuito con la sua incapacità alla dissoluzione dei valori che sono alla base del Toro, ma di un popolo non più fiero del proprio simbolo. Un amico qualche anno fa mi scrisse: "Domani per la prima volta sarò a Torino, voglio stare tra la gente granata come me, per anni ho subito gli sfottò dei goebi, dove posso andare per sentirmi a casa?"...
Io credevo fosse la domanda più semplice del mondo ma...in realtà, i posti dove un granata si può sentire a casa, si contano sulle dita di una mano. Sono anni che cercano in tutti i modi di farci sparire, di farci vergognare di noi stessi, ci umiliano quotidianamente con il loro disinteresse, con il loro modo di gestire una società di calcio... non ce la faranno mai perché GRANATA E' IL NOSTRO COLORE.
E' giunto il momento di reagire...alziamo la testa... c'è qualcosa di cui andare fieri anche in periodi come questi: la nostra storia, la leggenda e quel colore "rosso come il sangue, forte come il Barbera".
Da oggi deve incominciare la "ri-granatizzazione" di Torino, tutti possiamo fare qualcosa, un poster, una foto, (cominciamo con le nostre case); la bandiera alla finestra, la sciarpa al collo (con questo freddo serve proprio). Scambiamoci le idee... uniti torneremo ad essere un popolo perché GRANATA E' IL NOSTRO COLORE

Vincy

La marcia dei 50 mila è più forte della B
Vince il cuore granata

5.05.03 - Il miracolo di una straordinaria, immensa festa di un popolo calcistico all'indomani della sua condanna al cosiddetto inferno della serie B si è dipanato ieri a Torino per sette ore: da quando - erano le 8 - il campo di via Filadelfia ha cominciato a riempirsi di gente in granata a quando quella stessa gente ha finito di lasciare - erano le 15 - piazza San Carlo. Nelle sette ore della giornata dell'orgoglio granata, da un'idea di Massimo Gramellini, la sfilata dal Filadelfia alla Torre Maratona dello stadio Comunale al cippo di Gigi Meroni in corso Re Umberto, e l'approdo al posto dove la città meglio celebra i suoi amori, le sue allegrie. Gli esperti contabili di assemblee hanno parlato di cinquantamila, liofilizzati in un gruppetto di ex calciatori granata, da quelli del passato lontano a quelli del passato prossimo a quelli del presente societario, che sono saliti a Superga, dove accanto alla lapide hanno recitato, insieme con parenti dei caduti del 4 maggio 1949, preghiere laiche e giuramenti sportivi, dopo che le autorità, lassù con i deputati granata di Montecitorio, avevano deposto fiori. Da Superga è calata alla piazza la videocassetta della cerimonia, e la proiezione ha rifinito una fine mattinata ed un primo pomeriggio in cui Piero Chiambretti, più in forma da quanto dichiarato dai bollettini medici che stanno sincopando la sua ripresa da una seria rottura di ossa, ha irrorato la tifoseria di presentazioni, memorie, storie, interviste a calciatori-guru, filmati gloriosi ed epica di gol nel derby. Con una regia aperta, elastica, fiduciosa nel prossimo anche se trasformato in tribù, in calda valanga umana. Polemiche fisiologiche e niente più, nell'insiene molta civiltà dentro moltissimo amore per il Toro. E molti altri «molti»: molti giovani, molte donne, molti bambini, molto colore granata, molti striscioni, molte bandiere, moltissime magliette della serie «io c'ero», molti cori, molti slogan, molto vino, molto sole come non mai il 4 maggio dal 1949. Molti felici, molti partecipi, molti increduli e poi convertiti, molti occupati a far andare tutto bene (organizzazione pefetta di gente che ha voluto guadagnare soltanto strette di mano, al massimo abbracci). Molta dignità, molto orgoglio granata, molta antijuventinità comunque mai trucida. Molte lacrime, anche, e specie a Superga. Molta allegria di naufraghi, massì, se uno vuol proprio pensare a come è andato male questo campionato, a come è malandata la squadra. Ma anche molte assortite lezioni di sportività, di entusiasmo comunque, quantunque, dovunque, di voglia di prendere un sole speciale, unico, al quale sbronzarsi più che abbronzarsi. Non funziona troppo automaticamente, secondo noi, il pensiero di cosa farebbe questo stesso popolo in caso di successo, di scudetto. Sarà pure la teoria delle scarpe strette, ma per provare follemente e civilmente insieme certe gioie bisogna essere molto allenati a certi dolori. Ieri la gente granata non era felice, ci mancherebbe altro. Era serena, e trattasi di conquista dura, che non passa attraverso nessuna euforia da vittoria, meno che mai da dominio. Grande giornata, grande orgoglio, grande lezione, grande segnalazione, grande esclusiva: chi e come e dove saprebbe fare la stessa bellisima cosa subito dopo - restiamo pure nel mondo dello sport, anche se secondo noi l'interrogativo potrebbe allargarsi - una botta come quella della retrocessione?
Gian Paolo Ormezzano

L'orgoglio granata in marcia

5.05.03 - I record negativi di una stagione che ha già decretato la retrocessione del Torino in serie B, la quarta negli ultimi 14 anni, non hanno scoraggiato i suoi tifosi che in più di 50.000 hanno partecipato questa mattina alla "marcia granata", la prima manifestazione nella storia del calcio organizzata per testimoniare l'orgoglio di tifare per una squadra. Nel cinquantaquattresimo anniversario della tragedia di Superga, lo schianto aereo che provocò la fine del Grande Torino e fece piangere tutta l'Italia del calcio, sostenitori granata ed ex giocatori hanno sfilato per le strade della città e reso omaggio ai luoghi simbolo di una storia lunga, fatta di infinite gioie e incredibili dolori. Con una certezza: possiamo tornare grandi. Nessuno si aspettava una partecipazione così numerosa, nemmeno Massimo Gramellini, il giornalista de La Stampa che alcuni mesi fa lanciò l'idea di organizzare la "giornata dell'orgoglio granata". "Non pensavo ci sarebbero stati così tanti tifosi", ha affermato Gramellini sul palco di piazza San Carlo, dove il serpentone granata è arrivato dopo alcune ore dalla partenza, avvenuta davanti ai resti dello storico stadio Filadelfia. "Sono la dimostrazione che Torino c'è. Adesso aspettiamo un imprenditore che ci faccia tornare grandi". Il riferimento è alla società attuale, secondo molti inadeguata al blasone granata e ad una tifoseria che molte squadre invidiano. "Quella del Toro è una grande tifoseria per una piccola società", ha sottolineato al riguardo un tifoso d' eccezione come Piero Chiambretti. "Qualunque altra piazza - ha proseguito il presentatore televisivo - avrebbe accolto la retrocessione con pianti e disperazione. Noi invece siamo qui, certamente non felici, ma orgogliosi di essere tifosi del Toro.
Speriamo che questa giornata faccia meditare una società fantasma che non ci merita e convinca nuovi acquirenti ad investire nel Toro". Ma a parte la contestazione contro l'azionista del Torino, Francesco Cimminelli, e il presidente Attilio Romero, bersaglio dei cori ultras quando il corteo è passato sotto la sua abitazione di corso Re Umberto, quella di oggi è stata soprattutto un'occasione per ricordare il passato di una squadra che ha dato molto al calcio italiano. Per questo motivo la marcia ha avuto inizio al Filadelfia, è proseguita passando vicino al Comunale, il vecchio stadio dove nel 1976 il Torino ha vinto il suo ultimo scudetto, e si è fermata davanti al cippo che in corso Re Umberto ricorda Gigi Meroni, il giocatore travolto e ucciso da un auto guidata, per ironia della sorte, dall'attuale presidente Romero. E mentre tifosi di ogni età ripercorrevano attraverso queste tappe la storia del Toro, a Superga i campioni del passato - tra cui Angelo Cereser, Claudio Sala, Gustavo Giagnoni, Renato Zaccarelli, Antonio Comi, Roberto Cravero e Giacomo Ferri - ricordavano il Grande Torino, la squadra dei record scomparsa proprio il 4 maggio di 54 anni fa in un incidente aereo. E proprio dalle parole di un grande ex giocatore come Claudio Sala sta il significato di questa giornata. "Se nel momento peggiore della storia del Toro riusciamo a radunare tanti tifosi in piazza - ha detto il tornante dell' ultimo scudetto granata - significa che il Toro è vivo e che il futuro non potrà che essere positivo". E al futuro guarda anche la proposta di azionariato popolare lanciata dal sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. "Da oggi - ha dichiarato il primo cittadino - deve incominciare la ricostruzione del Toro e l'azionariato popolare potrebbe essere una soluzione, ma serve comunque una proprietà forte".