I miei ricordi Da tantissimi anni manco dal mio paese
ed è di gran lunga maggiore il numero degli anni passati lontani,
eppure continuamente mi vengono in mente avvenimenti e sensazioni che ho
provato nei primi anni della mia vita, come se questi anni fossero stati
una scuola alla quale fare riferimento per tutta la vita.
Ho voluto scrivere queste note soprattutto per soddisfare il mio desiderio
di raccogliere ricordi che vanno e vengono nella memoria e per tentare di
rivivere sensazioni che ormai appartengono ad un mondo ed a uno stile di
vita che non esiste più e che invece mi appartiene intimamente e
fortemente. Spero che i miei figli, nati e cresciuti in un mondo completamente
diverso, un giorno leggendole possano capire valori che in questa società,
che dà sempre più importanza alla ricchezza e al successo,
sembrano fuori moda.
Mi piacerebbe poter raccontare di una comunità povera e semplice
per la maggior parte dedita ad una agricoltura primitiva e poco remunerativa
e che presto ha dovuto fare i conti con una emigrazione che ha diviso le
famiglie e svuotato il paese; di un paese dove si viveva nel ricordo degli
anni passati, della mafia, di don Calò, delle bombe al comizio di
Girolamo Li Causi, tutte cose passate e che a noi bimbi sembravano quasi
un racconto irreale. La mafia, morto don Calò Vizzini (per molti
anni capo riconosciuto della mafia in Sicilia), e avendo poca possibilità
di sfruttamento si era spostata altrove e il paese viveva in una monotona
tranquillità che raramente veniva turbata da qualche incidente sul
lavoro o qualche morte prematura.
A volte capitava anche che due ragazzi innamorati se ne scappavano (fuivano)
sia per superare l'avversione delle famiglie al loro matrimonio che per
affrettare la data delle nozze. Per la verità a volte scappavano,
d'accordo con le famiglie, per risparmiare le spese della cerimonia nuziale.
In ogni caso al mattino quando i genitori soprattutto della ragazza scoprivano
la sua assenza cominciavano a urlare e a disperarsi, perché i vicini
sentissero, a ingiuriare i ragazzi e giurare che con loro avevano chiuso
e che non avrebbero più messo piede nelle loro case. La notizia della
"fuga" faceva presto il giro del paese e subito cominciavano i
pettegolezzi. Dopo pochi giorni i ragazzi tornavano a casa e dopo la riappacificazione
con i genitori si celebrava un matrimonio un po' sottotono, i ragazzi mettevano
su casa e tutto tornava come prima.
Sino agli anni '60 gli uomini lavoravano la terra con metodi ed attrezzatura
ancora arcaici. Tutti i lavori dall'aratura alla semina, dalla mietitura
alla trebbiatura erano manuali. Si lamentavano sempre, i contadini, per
il duro lavoro e per lo scarso raccolto. Ascoltavano con invidia i racconti
degli emigranti che parlavano di paga settimanale o mensile, di cottimo,
di lavoro stando a sedere (che sembrava voler dire non lavoro) e in molti
nasceva la voglia di piantare tutto e di andare via in cerca di miglior
fortuna.
Anche noi ragazzi, che dividevamo la nostra giornata tra la scuola e i giochi
in giro per il paese e che a volte, soprattutto durante le vacanze, andavamo
a "dare una mano" in campagna, sognavamo il nostro futuro lontano
dal paese, al nord o all'estero, pensavamo ad un impiego in una grande fabbrica,
alla macchina, allo stipendio sicuro tutti i mesi, alla vita piena di comodità
e di divertimenti che ci sembravano qualcosa di irreale. Ognuno di noi aveva
uno zio o qualche amico da qualche parte, in "continente"; moltissimi
erano in Liguria - ad Albenga - lavoravano come muratori o come camerieri,
altri nel Bresciano, a Lumezzane, lavoravano in fabbriche o officine dove
si producevano articoli in acciaio inossidabile e dove molti lavorando a
cottimo, magari non in regola, in officine insalubri, si sentivano fortunati
perché più pezzi facevano e più soldi guadagnavano.
Mi ricordo che quando venivano in paese portavano cucchiai, grattuggie,
pentole e altre cose in acciaio e le donne, abituate ad usare le stoviglie
in rame o in alluminio, si stupivano nel vedere queste cose lucide che "non
si rovinavano mai e che dopo lavate tornavano come nuove".
Io, avendo i miei zii a Bologna, ho sempre pensato a questa città
come il posto ideale per costruirmi un futuro
migliore.
E intanto il paese si svuotava, famiglie intere emigravano, molti giovani
andavano via e in paese rimanevano gli anziani e alcune famiglie che per
un motivo o per l'altro avevano deciso di continuare a vivere con l'agricoltura
e adesso avevano la possibilità di ingrandire la loro proprietà
acquistando le terre a prezzi vantaggiosi.
La vita in paese
In paese vi erano pochi negozi che vendevano un
po' di tutto dai generi alimentari alle pastiglie per il mal di testa. Mi
ricordo che oltre i soldi accettavano in pagamento anche le uova che poi
rivendevano a prezzo maggiorato. Mia madre quando avevo bisogno di un quaderno
o delle matite a volte mi dava un uovo che io barattavo con quello di cui
avevo bisogno.
Spesso arrivavano in paese dei venditori ambulanti.
Al mattino presto si sentiva la voce inconfondibile dell'ortolano che arrivava
con il mulo e con delle ceste piene di verdure. "Acci tenneri e
bedda scalora" ("Sedano tenero e bella scarola") urlava
e poi si fermava agli angoli delle strade e aspettava che arrivassero gli
acquirenti.
Durante la giornata altri venditori arrivavano in genere con le macchine
o i camioncini a vendere ogni genere di mercanzia, dalla frutta alle patate,
dalle cose per la casa alle stoffe, ai corredi e all'abbigliamento. Tutti
avevano un urlo incomprensibile ma inconfondibile. Le donne si avvicinavano
alla macchina stracarica di ogni mercanzia e dopo aver scelto la cosa che
loro interessava cominciavano a contrattare sul prezzo. La contrattazione
era lunga e laboriosa anche su prodotti di prezzo modesto ed era una scena
tutta da vedere con continui tira e molla e minacce da parte delle donne
di non acquistare niente finché non si raggiungeva un compromesso
che desse all'acquirente l'illusione di aver fatto un affare e di aver spuntato
il prezzo migliore.
Alcuni venditori, soprattutto quelli di frutta e patate, oltre il pagamento
in soldi, proponevano lo scambio della frutta con il grano o le fave e questo
invogliava molto di più le donne perché di soldi nelle case
c'è n'erano pochi e invece del grano o un po' di fave si riusciva
a rimediarle.
Altri personaggi di tanto in tanto spuntavano in paese...
Arrivava lo stagnino ("lu quadararu") che stagnava e riparava
le pentole di rame e aveva fama di essere abbastanza sfortunato perché
si diceva in paese che tutte le volte che lui arrivava pioveva e il suo
lavoro che si svolgeva all'aperto diventava più complicato. Era diventato
un modo di dire ("la fortuna di lu quadararu") per indicare
una persona per nulla fortunata.
Artigiani di mestieri ormai scomparsi e che al solo pensiero che siano esistiti
fanno sorridere erano quelli che aggiustavano gli ombrelli ("lu
paraccaru") e quelli che incollavano le brocche di terracotta,
le giare e addirittura i piatti rotti e li cucivano con il fil di ferro
come raccontato tanto bene da Pirandello nella "Giara".
L'attività principale del paese era l'agricoltura e le colture principali
erano il grano duro e ad anni alterni fave o lenticchie.
Il territorio era diviso in tanti appezzamenti più o meno piccoli
e quindi ogni contadino aveva diversi appezzamenti dislocati in vari punti
del territorio, alcuni dei quali anche molto lontano dal paese. Questo obbligava
la gente a lunghi spostamenti al mattino molto presto per lo più
a cavallo di muli o a piedi.
Mio padre lavorava la terra e quando c'erano le vacanze a scuola mi portava
con sè perché, anche se piccolo, potessi dargli una mano.
Così presto mi sono abituato a fare i lavori nei campi.
In ottobre si arava la terra con un aratro tirato da due muli. In seguito
si iniziava la semina e qualche volta sono andato con mio padre per "buttare
le sementi". Lui stava avanti con i muli che tiravano l'aratro ed io
dietro portando una borsa ("coffa") piena di semi che lasciavo
cadere uniformemente all'interno dei solchi.
Il grano si seminava in tutti i solchi quindi ad ogni virata l'aratro chiudeva
il solco precedente e ne apriva un altro. I legumi invece si seminavano
un solco si e uno no. A volte esageravo nel buttare i semi e allora si correva
il rischio di finirli prima della fine della giornata.
Il lavoro era faticoso perché oltre a dover portare la coffa con
le sementi, quando la terra era un po' umida si appesantivano gli scarponi
e questo rendeva ancora più difficoltoso il camminare.
Cominciando presto al mattino, dopo un po' ci si fermava a fare colazione
che in genere era composta di pane, formaggio, olive, frittate e più
raramente mortadella, scatolame e poc'altro.
Anche il pranzo più o meno aveva gli stessi ingredienti e in ogni
caso si mangiavano sempre delle cose fredde e asciutte e questo rendeva
molto più faticoso il lavoro nei campi.
Mio padre diceva sempre che se ci fosse stata la possibilità di mangiare
un piatto di pasta o qualcosa di caldo la fatica si sarebbe dimezzata. Spesso
mi raccontava di quando lui era piccolo e andava in campagna con suo fratello;
siccome avevano sempre molta fame al mattino si dividevano il pane cosicché
ognuno se lo gestiva come voleva e - ricordava ancora - nel periodo che
c'erano le fave verdi cominciavano a mangiarle per riempirsi lo stomaco
e far durare il pane il più a lungo possibile. Quindi nonostante
tutto adesso ci si poteva considerare fortunati.
Qualcosa di caldo si mangiava la sera a casa, ma anche in questo caso il
pasto era composto da minestra, molte volte di verdure e molto abbondante,
e poco secondo per lo più verdure rifatte in frittata o patate.
La carne si mangiava poche volte e soprattutto la domenica. Mia madre mi
mandava dal macellaio a comprare "tri unzi" (250 g) di
carne, di maiale o di castrato, che poi cucinava al sugo insieme con le
patate; con il sugo condivamo la pasta e poi ci dividevamo come pietanza
la poca carne e le patate. A volte mangiavamo il baccalà fritto o
le sarde anche queste fritte. Nella pescheria del paese arrivavano solo
sarde, paganelli, seppie e poche altre qualità di pesce.
Un pasto importante per tutti, ma soprattutto per noi bambini, era la colazione
a base di latte e orzo in grandi tazzoni dove spezzettavamo tanto pane.
Il latte era molto buono perché in genere mio padre teneva una capra
e tutte le mattine la mungeva e quindi avevamo il latte fresco. Solo in
certi periodi che la nostra capra non aveva latte lo compravamo, ma anche
in questo caso passava il capraio che lo mungeva su ordinazione.
In genere, oltre ad avere una capra, tenevamo anche una pecora, cosicché
con il latte di capra che non mangiavamo e il latte della pecora mia madre
faceva il formaggio. Quando si faceva il formaggio c'era la possibilità
di variare la colazione con la "ricuttedda" che era ricotta
con il siero caldo nel quale si metteva il pane. Mi ricordo anche il buonissimo
sapore del formaggio appena tirato dal siero (la "tuma")
che mia madre mi allungava e che divoravo subito.
La mamma faceva delle formine di formaggio sui sette-otto etti e che dopo
stagionate venivano messe in una giara di terracotta e servivano sia come
companatico che da grattuggiare sulla pasta.
Inoltre dalla pecora e dalla capra nascevano agnelli e capretti che però,
soprattutto quando eravamo più poveri, mio padre vendeva e a noi
non restava che la testa, la coratella e le budelline per fare le "stigliuleddi".
Un'altra cosa molto presente come companatico erano le olive verdi o nere
che venivano preparate durante la stagione della raccolta e poi tenute sotto
sale le nere e in salamoia le verdi in vasi di terracotta. Una parte delle
olive verdi veniva schiacciate e messe in salamoia, con spicchi d'aglio
e altri odori, perché fossero pronte presto per essere mangiate.
A volte quando d'inverno pioveva o nevicava mio padre non potendo andare
in campagna, si alzava e cucinava delle fave o dei ceci neri che mangiavamo
conditi con olio e inzuppandoci del pane anche a colazione.
Per cucinare si usava una cucina costruita in muratura nella quale per alimentare
il fuoco si metteva la paglia soprattutto di legumi. In molte case era presente
una cucina a gas che però veniva usata per bollire il latte, per
friggere le uova e per cotture brevi.
Naturalmente capitava spesso che quando si cucinava qualcosa la si mangiava
più volte consecutivamente.
Un legume prodotto al mio paese e molto rinomato erano le lenticchie che
si mangiavano assieme a tagliolini fatti in casa con farina di grano duro,
oppure condite con olio come pietanza.
Ogni contadino al momento della raccolta vendeva il grano prodotto ma teneva
indietro quello che presumeva gli sarebbe servito per la semina dell'anno
successivo e per i bisogni della sua famiglia. Questo era considerato un
bel risultato perché garantiva il pane per la famiglia.
Periodicamente il grano veniva portato in quantità di 30-40 kg. al
mulino per essere macinato. La farina veniva tenuta in un fusto di legno
col coperchio e quando si doveva fare il pane se ne setacciava un po' per
togliere la crusca ("caniglia") e quindi si impastava, si faceva
il pane e si portava al forno per cuocerlo. Al fornaio veniva pagato qualcosa
per ogni pane infornato.
Mia madre faceva il pane d'inverno una volta la settimana e d'estate due
volte. Faceva delle pagnotte di 2 kg. circa l'una e sopra ci metteva tanti
semi di papavero. Appena sfornato il pane era buonissimo e spesso lo mangiavamo
condito con olio, sale e pepe.
I miei genitori ci avevano abituati ad avere un grande rispetto per il pane
e di considerarlo cone un dono di Dio e quindi non andava assolutamente
sprecato e, anche quando era duro e si faceva fatica a mangiarlo, lo si
usava per metterlo nel latte o nel brodo delle verdure cotte.
Dopo questa divagazione sulle abitudini alimentari torniamo ai lavori dei
campi. Eravamo arrivati alla semina che avveniva in dicembre.
Bisognava aspettare che il grano e i legumi seminati crescessero un po'
e quindi si zappavano per muovere la terra e per strappare tutte le erbacce.
Tanto per cambiare anche questo era un lavoro molto faticoso perché
bisognava stare sempre con la schiena curva e fare attenzione con la zappa
a strappare solo l'erba e non anche il grano.
Intanto passavano i mesi e arrivava la primavera. La campagna cambiava colore
e il grano e i legumi cominciavano a maturare.
Quando si seccavano le fave e le lenticchie venivano strappate con le radici
e messe in fasci a seccare.
Poi arrivava il momento della mietitura del grano che veniva fatto a mano
con la falce ed era un lavoro molto impegnativo e faticoso, sia perché
si lavorava dall'alba al tramonto, e in giugno le ore di luce sono tante,
sia perché il caldo a volte afoso raddoppiava la fatica. A complicare
le cose, a volte, veniva a piovere poco prima della mietitura così
il grano si sdraiava per terra e questo rendeva ancora più difficoltosa
la mietitura.
Comunque era una cosa che si faceva con entusiasmo, soprattutto quando si
vedeva che il grano era bello e che il raccolto sarebbe stato abbondante.
Siccome il periodo della mietitura era breve e c'era bisogno di manodopera
dall'agrigentino, in particolare dalla zona di Palma di Montechiaro arrivavano
"i mietitori" (contadini che avendo le terre nelle zone vicino
al mare avevano già mietuto il loro grano e venivano qui per guadagnare
qualcosa), si accampavano in piazza e, con la falce a portata di mano, aspettavano
che qualcuno li assumesse.
La sera, i contadini andavano i piazza, assumevano quelli di cui avevano
bisogno, scegliendo naturalmente i più giovani e quelli che avevano
l'aspetto più robusto, li portavano a casa loro e li facevano dormire
fuori di casa in giacigli di fortuna pronti per partire per il luogo di
lavoro quand'era ancora buio, perché bisognava essere sul posto appena
albeggiava.
Anche mio padre assumeva quelli di cui aveva bisogno, anzi con qualcuno
aveva instaurato un rapporto di stima reciproca e lo aspettava anche negli
anni successivi.
I mietitori cominciavano a tagliare il grano con la falce, se lo appoggiavano
sul braccio che teneva la falce e quando ne avevano fatto un bel mazzo lo
legavano sempre con un pugno di spighe e lo poggiavano a terra. Più
tardi, uno di loro, con una attrezzatura rudimentale che lo aiutava a prendere
i vari mazzi di spighe si sarebbe messo a confezionare dei fasci che si
chiamavano "gregni" e che contenevano una diecina di mazzi.
Gli uomini erano molto veloci nell'eseguire le varie operazioni della mietitura
e il tutto avveniva in modo armonico, stavano tutti in fila e ognuno mietendo
un paio di filari procedeva di pari passo con gli altri.
Durante la mietitura, nonostante l'arsura che la fatica e il caldo provocavano,
molti cantavano stornelli o canzoni allegre e chiedevano da bere a volte
acqua ma più spesso anche ill vino. Il mio incarico, quand'ero piccolo,
era quello di passare con il "da bere". L'acqua e il vino si tenevano
in brocche di terracotta diverse fra loro; "la quartara"
per l'acqua e "lu fiascu" per il vino, si cercava di tenerli
all'ombra, magari mettendoci sopra qualcosa di bagnato, perché stessero
più freschi possibile.
In questa occasione, anche il mangiare era un po' più abbondante
e a volte, prima di mezzogiorno, andavo in paese per prendere le polpette
o dell'altra carne che mia madre aveva preparato e che portavo ancora calde
dentro una pentola. Ci si fermava a mangiare, a volte sotto il sole, e si
stava fermi lo stretto indispensabile perché bisognava in fretta
tornare a mietere e al pomeriggio si lavorava quasi fino al tramonto per
poi tornare in paese facendo magari 5 o 6 chilometri a piedi.
La mietitura durava alcune settimane e non si stava fermi neanche la domenica.
Ultimata la mietitura era già tempo di "pisare",
cioè di trebbiare il grano. Anche questa, prima dell'avvento delle
trebbiatrici, si faceva con metodi antichi sempre gli stessi per secoli.
Il primo giorno bisognava preparare "l'aria". Era uno spiazzo
pianeggiante dove strappavamo tutte le stoppie e le erbacce, poi bagnavamo
la terra con l'acqua, ci spargevamo della paglia e la schiacciavamo in modo
che impastandosi con la terra formasse una specie di pavimento. Preparavamo
la "straula", un carro senza ruote, che sarebbe servito per portare
il grano all'interno dell'aia.
L'indomani mattina di buon'ora - perché il grano era meglio trasportarlo
quando non era ancora molto caldo - trasportavamo il grano all'interno dell'aia
fino a riempirla.
A questo punto cominciava "la pisata".
Mio padre prendeva i muli, andava al centro dell'aia e incitandoli, li faceva
girare in modo che cominciassero a schiacciare le spighe. I muli correvano
e mio padre ogni tanto li frustava perché andassero ancora più
forte. Ai bordi dell'aia ci voleva qualcuno che avvicinasse con un tridente
le spighe che venivano fuori. All'inizio quando il mucchio era grande si
faceva parecchia fatica ma man mano che le spighe venivano pestate diventava
più semplice.
Dopo un po' mio padre si fermava, portava fuori i muli e cominciavamo a
rigirare il grano in modo che la parte pestata finisse sotto e quella ancora
da pestare andava sopra, quindi rientrava nell'aia e riprendeva ad incitare
i muli. Verso la fine della "pisata" cominciava a cantare
"la ladata" un canto che spronava i muli e nello stesso
tempo ringraziava il Signore e i Santi per il raccolto.
Finita la "pisata" bisognava "spagliare"
cioè separare il grano dalla paglia. Per far questo c'era bisogno
del vento che alcune volte faceva i capricci e rendeva il lavoro più
difficoltoso e l'attesa che soffiasse snervante. Ci si metteva uno di fianco
all'altro con un foulard legato in testa e con il tridente si buttava in
aria il grano e la paglia. La paglia più leggera volava ai bordi
dell'aia lasciando il grano sempre più pulito.
Nei giorni successivi si ammucchiavano altre spighe nell'aia e si rifacevano
le stesse operazioni finché non erano finite le spighe. A questo
punto dopo aver spagliato con il tridente bisognava pulire ancora più
a fondo il grano e questo si faceva spagliando con un badile di legno ("pala").
Finita questa operazione il grano era ben pulito, si cominciava a riempire
le bisacce, e a trasportarlo a casa.
Si facevano diversi viaggi, con i muli, e le bisacce in genere venivano
vuotate in una stanza trasformata in magazzino in attesa di vendere il grano
a uno dei commercianti del paese.
Ovviamente per tutto il periodo della "pisata" e del trasporto
del grano l'aia non rimaneva mai incustodita, neanche di notte, e spesso
mi capitava di rimanere a dormire in campagna, magari in compagnia di mio
nonno o di mio padre. Ci preparavamo il letto all'aperto stendendo una bisaccia
sul mucchio della paglia, ai bordi dell'aia, coprendoci con un pleid e con
una cerata perché di notte la temperatura si abbassava e cadeva la
brina.
In questi casi anche la cena la consumavamo sul posto e il menù era
sempre il solito (pane e companatico).
Una volta, invece, che assieme a mio nonno eravamo rimasti a custodire l'aia
in località "cuazzu di la Cruci", essendoci nelle
vicinanze una fattoria abitata da pastori che conoscevamo andammo a cena
da loro e ci prepararono pasta con la ricotta: l'avevano stesa su un asse
e tutti mangiavano riempiendo il cucchiaio direttamente dall'asse. Uno dei
pastori vedendomi un po' esitante, si mise a ridere e dicendomi che di solito
non usavano piatti ma ne prese uno e me lo riempì di pasta. La pasta
era ben condita con ricotta molto buona e dopo cena, con mio nonno, tornammo
verso l'aia veramente soddisfatti.
Dopo aver finito di "pesare" il grano nei vari appezzamenti di
terra che avevamo e dopo averlo immagazzinato in casa, mio padre metteva
da parte quello che ci sarebbe servito per fare il pane e per la semina,
il resto lo vendeva.
La vendita del grano, assieme a quella delle lenticchie e delle fave erano
praticamente l'unica fonte di guadagno e il ricavato doveva bastare per
le necessità della famiglia fino al raccolto dell'anno successivo.
In seguito anche la paglia del grano veniva trasportata, riempiendo due
enormi reti di corda ("rituna") che poi venivano legate ai due
lati del mulo, trasportate verso case e immagazzinate nella "paglialora",
servivano d'inverno come foraggio per gli animali.
La paglia dei legumi invece veniva usata per alimentare il fuoco della cucina.