VINCENZO NALBONE è nato a Villalba, in provincia di Caltanissetta, il 17 dicembre i1 1899 ed è morto a Palermo il 18-9-1983. Ha vissuto nel paese di nascita gli anni della prima giovinezza, anni di fecondo e vivido rapporto con la natura e la vita dei campi.

Ha compiuto gli studi superiori a Palermo, dove ha anche svolto la sua attività di insegnante, ad esclusione dei primi sette anni vissuti in Istria e nel Friuli. Alla sua professione e alla attività di compositore di musica, ha dedicato la sua inesauribile vena e un integro entusiasmo.

La poesia ha avuto un importante spazio “privato” nella sua vita, fin dagli anni della giovinezza.

Solo in tempi relativamente recenti ha partecipato a vari concorsi, ottenendo lusinghieri riconoscimenti, in virtù dei quali è stato iscritto all'Accademia Tiberina.  

 

 

 

 

IL MIO PAESE

 

Ti sovrasta il Calvario,

coi suoi cipressi ripiegati al vento

freddo di borea.

Sopra un dolce declivio

ti stendi al sole,

ebbra di odori di trifogli e avene:

immersa

ne l’agreste silenzio,

rotto da un nero crocidìo di corvi

calanti da le Serre,

che il fianco tuo proteggono

coi denti aguzzi digrignanti al cielo.

Da questi massi uscita

lieve una ninfa,

mi condusse per mano a un'alta rupe; 

e poggiando il bel capo a l'erto ciglio, 

guardò pensosa 

verso il mitico tempio de la valle 

d'Agrigento lontana. 

Io l'abbracciai con l'agile pensiero 

dei giovani anni, 

e sotto i veli ne scoprii le forme 

divine a un tempo. 

Se avessi colto il suo virgineo bacio, 

sarei immortale: 

ma da lungi si udì stridulo un suono 

di tritone marino,

e la ninfa disparve.

L'euforbia inverdisce 

a chiazze l'arida altura, 

d'asfodeli azzurrata e dal campestre 

spinoso eringio. 

Il gheppio ruota fulvo alto stridente 

su le timide prede, 

mentre nel cielo limpido si effonde 

la melodìa dolente di Chopin, 

per i tuoi morti 

sul cimitero cinto di roveti. 

Quivi gli avi riposano, 

che mi videro teco giovinetto 

tra i mandorli fioriti e l'aloè, 

sognar mari e crociere a l'Ellesponto:

tra i ruderi dell'Ellade, 

e le voci di Socrate e di Paolo 

al Partenone, 

che mettevano ali al mio pensiero. 

Da l'opposto versante de la Rocca 

de la Finestra, 

fra massi accavallantisi 

per crolli paurosi, 

gli aromi esala il buon crociato cappero 

per le tue mense.

A primavera, 

nei notturni silenzi 

l'usignuolo sull'olmo solitario 

gareggiava 

coi canti d'amore al marranzano 

dei forti giovani; 

che a la luce del giorno, 

tra le rosse amarene ed i crateghi 

avevano rimosse le fumanti

zolle dei campi, 

odorose d'aneto e di giusquiamo. 

Silvia svolazzava 

di palo in palo, 

su scardiccioni e riposate vanghe. 

L'allodola pratense nei sentieri 

tra margherite mi veniva incontro, 

e l'avelia cibava i figli al nido 

tra i mandorli frondosi. 

Lo strillozzo ordinava i semitoni 

sgranellati nel becco, 

e vanitosa l'upupa 

mostrava eretta la sua cresta a ventola 

nei suoi radenti voli. 

Ma il luí, damerino, 

predilige le piante d'alto fusto 

in valli ombrose, 

tra cui saltella e chiama la compagna 

col suo magico verso — fici, fici —, 

che neppur la calandra sa imitare. 

L'allodola canora empiva il cielo 

ampio d'inni gioiosi; 

ed il Busambra si stagliava nitido 

in lontananza, 

glauco veliero in mezzo ai colli ondosi 

opalescenti. 

Nei campi le spighe, screziate 

di papaveri rossi e di giaggiuolo,

attendevano i lieti canti afosi

dei mietitori,

 con calzari di ciocie e curve falci. 

Ne le notti di luglio, il capo al sonno 

posi nell'aia sui covoni franti, 

sotto i raggi dell'Orsa, e della Chioma

che Berenice 

votò a lo sposo in riva al sacro Nilo. 

Intanto le cicale fra le stoppie 

assordavano il cielo, 

e sopra un fusto la vorace mantide 

scioglieva preci a l'infelice sposo 

divorato a le nozze. 

In autunno, 

tra i pampini folti del vigneto 

il coniglio fuggiva ai lievi passi 

del vignaiuolo, 

con la groppa asportando via la cera 

vergine ai grappoli. 

Di fronda in fronda il merlo 

modulava il suo zufolo, sovrano 

cantore dei boschi. 

Dal rugiadoso fico alto pendevano 

maturi i frutti, 

meta del cardellino 

disceso dai cipressi in cima al colle. 

Da le foglie lunate 

affacciavano tonde le vezzose 

guance le pesche, 

come in veranda le fanciulle al sole. 

Il tramonto arrossava tra piropi 

de le nubi squarciate, su la vetta 

de la ferrea sagoma del monte 

di Cammarata; 

e i fichidindia, candelabri accesi 

coronati di spine, a lo scenario 

aggiungevano fasto. 

Emergevano candide di neve 

le Madonie a novembre. 

E quando il cielo s'offuscava plumbeo,

si ammantavano i tetti e le convalli 

dei silenti candori, 

tra i cupi tuoni oltre l'esteso felpo 

de le nubi compatte. 

Si smorzavano i tocchi ai sacri bronzi 

del campanile; 

e un pupazzo di neve sorridente 

dinanzi al mio balcone, 

non distolse lo sguardo dalla chiesa 

di Maria Immacolata, 

finché non si disciolse. 

In quella chiesa da le tetre mura, 

d'una tomba marmorea fregiata 

di colui che opulento fu di censo 

in Micciché, 

io solevo appressarmi al cereo volto 

di giovinette estinte,

che pareva sognassero l'Eliso 

con Raffaele. 

Coronato di licio, 

genuflesso percorsi coi bifolchi 

quel pavimento il venerdì di Pasqua, 

con ingenue catene flagellandomi 

le ingenue terga; 

mentre sentivo un brivido nel sangue 

al canto de le laudi 

del medioevo.

Ne la piazza Matrice, 

sul piedistallo quadro de la Croce 

dei Paolini, 

si godevano il sole i vecchi stanchi, 

come ramarri.


 

ESULO

 

Da te esulo, mia dolce terra, 

culla degli avi miei. 

I tuoi fertili campi 

maturarono granose spighe, 

linfa del mio sangue. 

Sotto il sole generoso, 

gli avi educarono 

mandorli e olivi, 

e vigneti patriarcali 

in un florido paesaggio 

di georgica pace, 

con un limpido cielo 

solcato da rondini 

e addolcito da melodie 

di usignuoli.

Nello studio luminoso 

della casa paterna, 

l'orologio a la parete 

scandiva 

i passi del mio cammino 

verso questa mia maturità, 

immatura 

come la scissa umanità, sbattuta 

fronda di pioppo 

da tormentosi buffi di tornado.

Ora scorgo 

l'orlo d'una tomba

sconosciuta, 

senza le margherite 

de la mia infanzia, 

e gli aromi dei cipressi 

del Calvario sul colle, 

custodi augusti 

di quiete.