DIARIO DI VIAGGIO IN GIORDANIA

SIRIA, GIORDANIA E LIBANO o Le civiltà carovaniere o le città carovaniere o cinquemila anni di storia o Medio Oriente

SIRIA, GIORDANIA E LIBANO (Le "civiltà carovaniere" nel primo viaggio IHV)

Pietrone esiste!!!!

Esclamazione spontanea di Ornella, ma pensiero unanime, quando capimmo che il robusto e panciuto signore sessantenne con barba bianca, appena sceso all’aeroporto di Vienna, proveniente da Malpensa, era proprio il Pietrone di IHV. Ma più che banale verità "ontologica" era un grosso sospiro di sollievo. Soprattutto per Luigi ed io, gli unici due che, bazzicando sul NG e conoscendo Pietrone soltanto "virtualmente", avevano convinto altri otto partecipanti della necessità di spostare qualche milione dei propri sudati risparmi sulle coordinate bancarie di un semplice nickname….

In realtà io non avevo mai avuto dubbi. Pietrone non lo conoscevo, poteva anche non esistere, poteva nascondere un incallito imbroglione, ma il suo carisma, che traspariva in maniera lampante dai messaggi degli altri frequentatori del NG, mi aveva convinto ad aderire senza starci a pensare troppo alla sua proposta di un viaggio in Siria lanciata nel NG quasi per scherzo o per sfida e poi, passo passo, ad aiutarlo a trovare altri partecipanti e infine a bonificare i milioni necessari come da sua semplice richiesta virtuale.

Fatta questa doverosa premessa, eccoci quindi, il 15 maggio 2000 alle ore 14 circa, riuniti all’aeroporto di Vienna, dieci partecipanti più Pietrone, appena il tempo di presentarci prima di salire subito sull’aereo dell’Austrian Airlines per Amman, con tutta la responsabilità che ci proveniva dall’essere gli apripista d’una "prima" IHV affatto eccezionale.

A questo punto, prima di proseguire il viaggio e visto che siamo in aereo, è doveroso un sentito ringraziamento a Sabrina che, nonostante il poco tempo a disposizione prima della partenza stabilita, è riuscita a superare l’impasse dei voli completi da Roma a Amman, con la brillante alternativa del volo via Vienna.

NEL REGNO HASCEMITA

Volo senza storia e atterraggio morbido all’aeroporto di Amman. Pochi i cartelli in attesa dei turisti nel salone di ingresso (il turismo di massa degli Alpitour, Francorosso, Turisanda non arriva da Vienna, arriva dritto da Roma), quindi quasi spontaneamente ci indirizziamo verso quel cartello quasi solitario, sventolato da una guida anglofona: "Viaggiare per CAPIRE". Proprio questo, che è tutto un programma, sta aspettando noi… L’inizio sembra sotto i migliori auspici.

Purtroppo si verifica un leggero inconveniente in quanto i bagagli di tre partecipanti, Pietrone, Sandra e Giorgio, provenienti da Milano non appaiono sul nastro trasportatore: il problema si risolverà felicemente alle cinque del mattino successivo. Fatta comunque la denuncia, il nostro ospite ci mena fuori dei cancelli e ci consegna finalmente nelle mani della nostra guida Zaid, un simpatico giordano dai baffoni quasi circassi, che ci fa salire su un vecchio minibus da una quindicina di posti. Parla molto bene l’italiano, è laureato in architettura e ha vissuto per qualche anno in Italia e precisamente a Genova. Prima di andare in albergo ci fa visitare la città. Il percorso dall’aeroporto alla città dura una ventina di minuti e viene utilizzato da Zaid per darci un quadro generale del suo paese. La Giordania è una nazione recente essendo sorta poco dopo la fine della II guerra mondiale (1946) sul territorio della Transgiordania ( emirato autonomo creato dagli inglesi nel 1921 dopo la rivolta araba aiutata da Lawrence d’Arabia contro l’impero turco ottomano) al quale, dopo la guerra arabo-isaraeliana del 1948 conseguente alla proclamazione dello stato di Israele, fu aggiunta la Cisgiordania, comprendente le terre ad occidente del Giordano e del Mar Morto e centri importanti come Gerico, Hebron e soprattutto Gerusalemme. Poi durante la tragica guerra dei Sei giorni del 1967 la Cisgiordania venne invasa e occupata dagli israeliani che sino ad oggi non hanno dimostrato nessuna intenzione di restituirla se non al massimo concederne alcuni punti a pelle di leopardo per la creazione di isole autonome come parti dello stato Palestinese ancora da proclamare e definire. Il problema non può essere chiarito in poche parole ma una cosa mi sembra certa e cioè che la Giordania dimostra di aver rinunciato a qualsiasi aspirazione di reintegro della Cisgiordania nei suoi territori, cosa che invece è all’ordine del giorno in Libano per la sua parte meridionale abbandonata da Israele proprio nei giorni del nostro viaggio e soprattutto in Siria con la rivendicazione delle alture del Golan.

Ritengo che questa politica attuata prima da Re Hussein (buonanima, come immancabilmente verrà citato dal nostro Zaid) e ora dal figlio Abdallah II, sia ampiamente ricompensata da notevoli aiuti economici esteri che contribuiscono in maniera determinante a farla apparire ai nostri sguardi come la Svizzera del medio oriente.

Oggi la Giordania ha quindi una estensione di soli 88.946 kmq con una popolazione non superiore a 5 milioni di persone nonostante le forti immigrazioni di palestinesi dalla Cisgiordania dopo la suddetta occupazione israeliana e il ritorno di emigrati giordani dal Kuwait e dall’Arabia ai tempi della guerra del golfo di Saddam Hussein.

In bus facciamo un ampio giro panoramico della città di Amman, capitale dello stato con più di un milione di abitanti, che si estende su ben 19 colline. La città risale dalla biblica Ammon, poi ribattezzata dai greci in Philadelphia e infine tornata a chiamarsi Amman. Zaid tiene a farci osservare in modo particolare i nuovi quartieri residenziali dove sono in costruzione o da poco terminate decine di bellissime e ampie ville e grossi palazzi condominiali, tutti costruiti e rivestiti con l’elegante pietra calcarea a vista estratta dal sud della Giordania. Dalle parole di Zaid traspare subito una voglia di farci vedere quello che sta facendo la Giordania oggi: un desiderio di benessere, di ordine, di pulizia che, favorito anche dalla relativa scarsità di popolazione, possa portarla a distinguersi positivamente tra tutti gli altri paesi arabi.

Saliamo alla Cittadella, situata appunto su una delle 19 colline, e da qui ci godiamo un panorama a 360° sulla città soffermandoci in modo particolare su uno splendido Teatro romano scavato nella collina che sembra difendersi dall’abbraccio ossessivo di decine di costruzioni più o meno recenti. In questa Cittadella restano solo alcune rovine di templi e edifici romani con tre belle colonne che si stagliano nel cielo azzurro, la pianta di una moschea e un palazzo di un califfo Omayyade attualmente in fase di restauro. Gruppetti di bambini che giocano con gli aquiloni lungo i resti delle mura e alcune donne locali che parlano sedute su un elegante capitello romano, riescono a rendere "orientale" questo luogo carico di storia e di resti romani.

Il primo giorno sta per finire. La stanchezza e il caldo cominciano a farsi sentire. In bus andiamo verso l’albergo attraversando alcune strade della città vecchia. Questa parte di Amman sarebbe ben più interessante per noi piuttosto che i nuovi e lindi quartieri residenziali: ma come è intuibile e comprensibile, il nostro Zaid la pensa diversamente. L’albergo, Ammon, un bellissimo e moderno tre stelle che si rivelerà il più bello dell’intero viaggio, è situato in una zona periferica della città. Ad accoglierci il "welcome drink", un graditissimo e fresco bicchiere di spremuta d’arancia, simpatica abitudine mediorientale che si ripeterà in tutti gli alberghi (undici!) toccati durante il nostro viaggio; poi distribuzione impeccabile delle camere, con buste già intestate contenenti "key-card" e sticker bagaglio, doccia obbligatoria e via al primo buffet internazionale.

A GALLA NEL MAR MORTO

Martedì 16 maggio 2000, inizia il percorso on the road con destinazione giornaliera, Petra. Direzione sud, su una discreta strada che, attraverso colline punteggiate di olivi e cipressi, scende verso la valle del Giordano portandoci dagli 800 metri di altitudine ad Amman a 400 metri sotto il livello del mare: siamo sulle rive del Mar Morto! Lungo la strada un curioso cartello stradale ci aveva segnalato che in quel punto eravamo proprio alla pari del livello del mare…….e la strada continuava a scendere……Facciamo una sosta presso una specie di stabilimento balneare dove possiamo metterci il costume da bagno e avvicinarci, pieni di curiosità alla famosa acqua salata del Mar Morto. Per dire la verità sono un po’ incredulo sulla reale capacità di galleggiamento in queste acque. Bene, la prova è semplicissima. Mi butto e…..si galleggia stando veramente immobili. Anzi la fatica più grande la faccio proprio per nuotare o girarmi o mettermi in verticale. La sensazione è veramente curiosa e anche piacevole. In realtà sembriamo dieci ragazzini in gita scolastica che per la prima volta fanno il bagno in mare… infatti arriva anche il prof. Pietrone e la classe è al completo. Ci fotografiamo in qualche posizione strana, ci manca la classica foto mentre si legge il giornale. Guai a chi inavvertitamente si schizza un occhio o peggio ancora beve una sorsata di acqua. In queste acque non c’è alcuna forma di vita e proprio per questo si chiama Morto. E’ formato dal fiume Giordano che vi entra a nord per uscirne a Sud. Non ha altri immissari e purtroppo il livello delle sue acque scende ogni anno sempre di più. La sua profondità arriva addirittura a 400 metri. Sull’altra sponda del lago, seppure velate da un po’ di foschia, vediamo le colline del Moab, un tempo giordane e ora praticamente annesse ad Israele. Rinfrancati da questo piacevole e curioso bagnetto gli undici scolaretti non disdegnano neppure, seguendo l’esempio di Sandra, un paio di scivolate su un invitante taboga elicoidale che velocemente ci fa tuffare nelle acque dolci della piscina: così, tanto per togliersi il sale di dosso. E alla terza scivolata suona perentoria la voce del prof. Pietrone che all’ultima curva, per colpa di Newton (massa per accelerazione), aveva rischiato d’essere proiettato fuori come un bob impazzito: " Ragazzi! Ora basta. La ricreazione è finita. Ora inizia il vero viaggio culturale". Così richiamati all’ordine e alla serietà che si addice alla nostra età ( tutti about sixty ), ci vestiamo e ripartiamo alla volta del biblico Monte Nebo. Dopo una trentina di minuti di strada in salita che si snoda tra una serie continua di colline desertiche color ocra, appena punteggiate qua e là da alcune tende di beduini, arriviamo in vetta. Qui ora sorge una chiesetta proprio nel punto dove i primi cristiani bizantini avevano costruita un piccola chiesa quadrata in memoria di Mosè che, all’età di 120 anni, salì fin quassù chiamato dal Signore per poter vedere, seppure da lontano, la terra promessa.

Ma lasciamo la parola al Deuteronomio: "… Dalle steppe di Moab, Mosè salì sul Monte Nebo, e Dio gli mostrò tutta la terra: tutto Neftali, tutta la terra di Giuda sino al Mare Occidentale, il Negheb, il distretto della valle di Gerico. Dio gli disse: - questa è la terra che ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Te l’ho fatta vedere coi tuoi occhi, ma tu non vi entrerai…"

E così quel povero cristo di Mosè, dopo quarant’anni di vita grama attraverso i deserti, solo per aver dato, nel dubbio, un colpo di troppo con la verga per far spicciare l’acqua dalla roccia allo Wadi Musa, ecco che gli tocca d’essere sepolto fuori della "terra promessa".

Purtroppo la foschia odierna non consente anche a noi di vedere Gerico e Gerusalemme e quindi dobbiamo contentarci di un altrettanto suggestivo panorama sulla parte nord del Mar Morto e sulla valle del Giordano, che costituisce la parte più fertile del paese dove si produce il 90% dei prodotti agricoli nazionali. Nella chiesa , meta di pellegrini cristiani, sono esposti alcuni interessanti mosaici bizantini tra i quali ricordo uno con figure di animali e abitanti della zona e un altro con una rappresentazione allegorica dei quattro evangelisti, che Pietrone chiama pomposamente "tetramorfo" e che si affanna a spiegare a Grazia (mia moglie), sempre sensibile all’esoterismo, quella che dice essere una sua scoperta: quel mosaico è l’unico caso al mondo in cui nel tetramorfo compare il pavone (antico simbolo zoroastriano) in luogo dell’aquilotto di S. Luca.

Il viaggio prosegue lungo la stupenda Via dei Re, strada vecchia di oltre 5000 anni che congiungeva Amman ad Agaba e che rimane comunque tutt’oggi una valida alternativa turistica alla nuova autostrada costruita più ad est in mezzo al deserto. Facciamo ancora una breve sosta a Madaba, oggi moderna cittadina giordana, famosa per le centinaia di mosaici presenti nelle chiese e nelle sue case ma soprattutto per il mosaico bizantino del VI secolo che raffigura la più antica mappa della Palestina. Questo mosaico, originariamente formato da ben 5 milioni di tessere colorate, costituisce ora parte del pavimento della moderna chiesa ortodossa di S.Giorgio.

Pietrone è andato intanto con Zaid a comprarsi degli slip (spariti nel bagaglio smarrito) e tornano ridendo come matti perché pare che il vecchietto, che gli ha rifilato degli orridi slip folk-caffelatte (gli unici che aveva) alle rimostranze per averli almeno di color bianco, rivolto alla guida pare abbia detto serissimo: "… ma questo anziano signore ha cose da nascondere, o da ostentare?"

Risaliamo sul minibus per proseguire ancora verso sud lungo la panoramica e tortuosa Via dei Re. Ci godiamo un paesaggio fatto di campi coltivati a tabacco e oliveti, punteggiato da piccole casette in mattoni bianchi, squadrate, piuttosto anonime, e sempre rigorosamente incompiute. Ne approfittiamo per calmare i richiami della fame attingendo alla scorta proletaria di uova sode e piccoli panini opportunamente preparata al mattino in albergo, nonostante alcune furtive occhiatacce di Rosa che però, giorno dopo giorno, provvederà ad adeguarsi…….e come!

Facciamo una breve sosta su un punto panoramico situato in cima ad una collina: da lì lo sguardo spazia su una sequenza infinita di colline desertiche e sulla strada che in una continua serie di tornanti a esse sembra attraversarle tutte fino a perdersi nell’infinito. Questa veduta indimenticabile viene intensificata da un provvidenziale caffè turco che ci aiuta a digerire i panini e, vista l’ora, ad evitare inopportuni abbiocchi. E il Pietrone approfitta per acquistare le prime due tartarughe per la collezione della suocere.

I tornanti visti da vicino si rivelano poi ancora più impressionanti e Zaid, da buon musulmano, suggerisce addirittura di far scendere le donne per spingere il pullman. Pendenza e strapiombi a parte, la strada è buona e alcuni resti di colonne ci indicano che stiamo viaggiando su una strada romana risalente al 120 d.C. Qui d’inverno la neve la fa da padrona e la strada resta chiusa. Finalmente la serie di colline finisce e posiamo proseguire spediti verso sud attraversando un altopiano ricco di campi coltivati e delle solite squallide casette squadrate, frutto di recenti insediamenti agricoli.

Poi riprendono le montagne finché all’improvviso, dopo una delle tante curve, ci troviamo davanti l’imponente mole del castello crociato di Kerak, preceduto da uno scosceso canalone profondo 1000 metri dove incredibilmente stanno pascolando alcune caprette. Questo castello faceva parte di una serie di roccaforti che i crociati avevano costruito nel corso del XII secolo ad un giorno di cammino l’uno dall’altra. L’ultimo occupante crociato del castello di Kerak, Rinaldo di Chatillon, viene ricordato dalle guide locali, come "insuperabile maestro di slealtà, tradimento e brutalità " e questo ci deve far riflettere sulla validità dei testi storici e di quelli scolastici in primo luogo. Le nostre reminiscenze scolastiche appunto ci parlano del "feroce Saladino" e degli eroici cavalieri crociati e qui invece troviamo un eroico Saladino che attacca e conquista il castello di Kerak, fa prigioniero il brutale Rinaldo e lo decapita dando così il via al declino delle fortune dei crociati in Terrasanta. Il castello, ampliato nei secoli successivi dagli Ayyaubidi e dai Mamelucchi, è attualmente in fase di restauro dopo secoli di abbandono. Immerso in atroci dubbi sugli effettivi scopi della famosa guerra santa, vedo immense sale e lunghi corridoi con soffitto a volta, piccole finestre dalle quali i fedeli di Rinaldo lanciavano frecce verso gli infedeli di Saladino, salgo sui suoi bastioni per rivedere dall’alto la magnifica Via dei Re che abbiamo percorso. Una visita non prevista al piccolo museo del castello, dove tra l’altro sono conservati interessanti ceramiche risalenti all’età del bronzo (2800 a.C.) e la copia di una stele riportante in ebraico la storia delle gesta eroiche del re moabita Mosh, ci fa ricevere il primo rimprovero da Zaid perché, ci dice, l’autista deve ancora mangiare. Pur non capendo il perché non abbia mangiato durante le soste precedenti, vedi Madaba o qui a Karak dove per arrivare al castello abbiamo proprio attraversato il paese, ci scusiamo e riprendiamo la strada verso Petra, abbandonando però la tortuosa Via dei Re per la più veloce e diritta strada orientale. Poco dopo, una sosta ad una specie di autogrill per turisti lungo la strada, con ricca esposizione e vendita di souvenir e prodotti più o meno locali, dove finalmente l’autista si decide a mangiare, comincia a farci capire il comportamento di Zaid. Per fortuna, sia qui in Giordania che poi in Siria, in tutte – ma comunque non troppe – le soste forzate per turisti che immancabilmente ci faranno fare, il nostro gruppo si rivelerà decisamente poco incline a sprecare tempo nelle solite estenuanti trattative per l’acquisto degli ormai consueti e dozzinali prodotti artigianali.

Finalmente, dopo una lunga tirata di un paio d’ore attraverso il deserto, e quando ormai è già buio, arriviamo a Petra, anzi al moderno paesetto di ……sorto esclusivamente per evidenti motivi turistici. e ci sistemiamo al moderno Hotel Plaza.

Cena, al solito, a buffet. A tavola approfondiamo animatamente la reciproca conoscenza. Pietrone provoca Sandra, "collega" di matematica, chedendole spiegazioni sull’algoritmo della moltiplicazione dei pastori etiopi, che si trascina dietro irrisolto da oltre trent’anni; la cosa lì per lì è sorprendente… ma il giorno dopo immancabilmente la grande Sandra sbeffeggierà l’incauto Pietrone con una teorizzazione completa del misterioso algoritmo…

Nonostante la pesante e intensa giornata sulle spalle, alcuni di noi non hanno ancora voglia di andarsene a letto ed eccoci quindi, Pietrone, Sandra, Giorgio ed io, a giocare una accanita partita a Whist sul bordo della piscina dell’hotel, fintanto che , un non troppo velato accendersi e spegnersi delle luci ci fa notare che siamo rimasti soli e che è l’ora di andare a letto. Anche perché domani mattina dobbiamo alzarci presto per poter essere tra i primi ad entrare nella mitica Petra.

PETRA

E infatti, diligentemente, alle sette di mercoledì siamo tutti già sul pullman per raggiungere il vicino ingresso al sito archeologico. Penso che ognuno di noi si stia preparando alla visita portando dentro di sè una immagine diversa e personale di Petra. Io avevo veduto qualche decina di foto, avevo letto qualche articolo, ma non ero mai riuscito a focalizzare bene che cosa e come veramente fosse questa Petra. Sapevo solo che non sarebbe stato come visitare una chiesa, un tempio, vedere un quadro o una scultura, cose delle quali una lettura, una fotografia e magari qualche filmato possono riuscire facilmente a rendere l’idea di come siano nella realtà. Realtà che qualche volta si rivela addirittura inferiore alle aspettative; quante volte infatti ci è capitato di restare delusi di fronte a opere famose che letture e immagini ci avevano mitizzate oltre i limiti!

Ebbene qui a Petra non ci sarà assolutamente delusione. Qui, anzi, la realtà supererà l’immaginazione alla grande. Certo sarà anche per una mia carenza di documentazione preventiva, ma io non avevo mai lontanamente realizzato che mi sarei trovato di fronte ad una città vera con un’area di 9 kmq, di forma ellittica ( 1 km. per 1,5 km), situata su un altopiano a circa 900 metri di altezza, circondato da alte montagne con pareti a picco che si elevano per altri 300 metri, tutta plasmata dalla natura e dall’uomo in una stupenda pietra arenaria gradevolissima al tatto e alla vista in più di venti colori diversi dal bianco al rosa al rosso, al celeste, al blu, all’indaco, all’azzurro, al viola.

Non avevo mai pensato che il famoso siq, la stradina tortuosa creata da erosioni e sconvolgimenti naturali tra due pareti rocciose a picco alte fino a 200 metri, che quasi segretamente conduce all’interno della città, fosse lungo oltre un chilometro. Questo siq che da solo meriterebbe una giornata intera da trascorrere osservando le infinite variazioni di luce e di colore prodotte dai raggi del sole che vi penetrano nelle varie ore della giornata. E magari un’altra giornata ancora per fotografare la magia e il mistero di queste mutazioni, cercando angolazioni e inquadrature che nessuno prima aveva mai trovato. Non avevo mai pensato che in poco più di mezza giornata dedicata alla sua visita avrei percorso una dozzina di chilometri, di cui un paio a cavallo ma anche un paio in salita, senza mai soffermarmi sulla stanchezza, tutto preso a guardare le meraviglie: circa 800 tra tombe, templi e abitazioni scavate nella roccia con uno stile che di volta in volta ci riporta all’arte egiziana, ellenistica, assira, siriana, romana e naturalmente nabatea.

Sì, siamo proprio in terra nabatea. Ma chi erano questi nabatei, capaci di costruire una tale meraviglia eppure così poco conosciuti e pubblicizzati dalla nostra cultura scolastica che si rivela ogni giorno di più tremendamente limitata e casalinga. Erano beduini nomadi di ceppo aramaico provenienti dalla penisola arabica che nel IV secolo a.C. scelsero questi luoghi per fermarsi, facendo di Petra, già precedentemente abitata dagli Oriti e poi dagli Edomiti, il principale centro carovaniero sulla famosa via dell’incenso che dal sud dell’Arabia saliva fino alle città sul Mediterraneo, e sull’altrettanto frequentata via che dal Cairo portava alle città della Mesopotamia e viceversa. Grazie a questa posizione strategica, i nabatei poterono così arricchirsi facendo pagare elevati dazi per il passaggio delle carovane e fornendo risorse e approvvigionamenti agli uomini e agli animali per il proseguimento del loro cammino. Plinio, in uno dei 37 libri della sua "Naturalis Historia" dice che "…a Petra si pagavano molte dogane, perfino per l’aria che si respirava, per l’acqua da bere e per il diritto di sedersi…"

Non è il caso di approfondire più di tanto la storia di questo popolo, ma, tanto per far capire il livello di potenza raggiunto, basterà citare che nell’85 a.C. il loro re Areta III arrivò ad occupare Damasco. Il regno continuò a prosperare fino al 106 d.C. quando l’imperatore Traiano la conquistò e la annesse alla provincia romana di Arabia. In un vano tentativo di conservare l’indipendenza l’ultimo re Rabbel II decise addirittura di trasferire la capitale del regno da Petra a Bosra, ma ormai la sorte era segnata. Nonostante la fine del regno nabateo, Petra continuò ad essere abitata anche durante l’epoca bizantina e fino all’arrivo dei crociati. Poi, con la fine della guerra santa, iniziò un periodo di completo oblio che fece dimenticare al mondo l’esistenza di Petra, e così fino al 1812, quando finalmente venne riscoperta dal viaggiatore svizzero Burckhardt. Oggi è patrimonio mondiale salvaguardato dall’Unesco: e vista la sua unicità è il minimo che le opulente civiltà occidentali potessero fare.

E riprendendo il racconto del nostro viaggio torniamo quindi all’ingresso del sito. La visita di Petra organizzata dal nostro Zaid prevede che l’assolato chilometro che porta fino all’inizio del siq, venga percorso cavalcando – si fa per dire - un cavallo tenuto per le briglie da un beduino. Per il ritorno invece, ci dice Zaid, il cavallo non sarà necessario e potremo tornare tranquillamente a piedi: mai fu detta una bischerata carognesca più grossa di questa, e poi capiremo il perché. L’importante, dice sempre Zaid, è che non più tardi delle 14 tutto il gruppo sia di ritorno per poter proseguire l’intenso programma della giornata.

Al termine della cavalcata – già pagata, ma la mancia è obbligatoria! – scendo e percorro il suggestivo siq nel quale già si cominciano a vedere i resti di alcune piccole tombe rupestri, nonché due ingegnosi canali di scorrimento dell’acqua piovana. A sinistra quello nabateo, scoperto e scavato semplicemente nella roccia a mezzo metro da terra e a destra quello romano, più raffinato perché costruito utilizzando una serie continua di piccoli cilindri vuoti in terracotta.

Il siq è lungo e l’attesa per la tanto decantata visione improvvisa della facciata del Tesoro del Faraone o meglio detta Khasné, si fa sempre più intensa. Finisco la prima pellicola fotografica dedicata a Petra. E’ questo il momento di caricare in macchina la mitica Velvia. Finalmente ci siamo. Il buio del siq è come lacerato da una sciabolata di luce rosa e gialla. Scatto una serie di fotografie nel tentativo, impossibile, di dare l’idea di come, sin da lontano e attraverso una stretta fenditura tra le due buie pareti rocciose, si vedano le prime colonne e capitelli deliziosamente levigati del Khasné splendidamente illuminati dal sole. Il contrasto tra il buio delle pareti del siq e la luce accecante della facciata della tomba è incredibile e bellissimo.

Questo sarebbe uno dei momenti da centellinare e da vivere riuscendo a dimenticarsi del mondo e del tempo; ma immancabilmente, vuoi per l’orario da rispettare, vuoi per la gente che inesorabile ti passa accanto e ti distrae, vuoi per il pensiero di scattare foto alla ricerca di improbabili nuove inquadrature, oggi, a distanza di pochi giorni, non riesco a ricordarmi il momento in cui, finito di percorrere il siq, sono entrato nella piazzetta circolare sulla quale si affaccia il Tesoro del Faraone. Pazienza. La stupenda facciata, interamente scavata nella pietra per 40 metri di altezza e 28 di larghezza, viene fatta risalire al periodo che va dalla metà del I secolo a.C. fino alla metà del I secolo d.C.. Comunemente le viene attribuita la funzione di tomba, anche se qualcuno è piuttosto propenso a ritenerla un tempio. Lo stile architettonico risente in maniera evidente della cultura ellenistica e di quella egiziana. L’interno, come del resto quello di ogni altra tomba o edificio di Petra, è completamente vuoto e perfettamente squadrato e tagliato nella roccia fino a una quindicina di metri di altezza. Sul soffitto, alle tipiche striature di colori naturali, si è aggiunto il nero del fumo dovuto ai bivacchi dei beduini che, fino alla recente scoperta da parte del turismo internazionale, utilizzavano queste tombe come abitazioni e luoghi di riparo per gli animali. Bisogna proseguire. Cammino lungo la strada, un tempo percorsa da un fiume oggi deviato, con lo sguardo diretto verso le pareti delle montagne che si aprono sempre di più sino a formare una specie di grande spazio di forma vagamente ellittica. Decine di grotte naturali e tombe ricavate nella roccia punteggiano le pareti creando uno spettacolo superbo. Zaid ci fa notare che stiamo camminando su più di tre metri di detriti che ancora coprono la strada originaria: infatti alcune tombe hanno l’apertura semi-nascosta dal livello stradale.

Ci soffermiamo ad osservare la zona chiamata della necropoli dove alcune grotte scavate nella roccia evidenziano la serie di colori naturali. Un paio di beduine rigorosamente vestite di nero ci invita, con discrezione e senza la minima insistenza, a guardare i monili in vendita su un provvisorio banchetto. Lascio la necropoli e proseguo verso un incredibile teatro semicircolare da 3/4000 posti. La forma è tipicamente romana anche se la sua costruzione viene fatta risalire al periodo antecedente la conquista da parte di Traiano. Una quarantina di gradinate semicircolari striate dalle consuete variazioni cromatiche dal rosa al giallo, scavate sul dorsale di una montagna, avvolgono il palcoscenico e un pulpitum al quale si accede attraverso due gallerie laterali.

Il sole comincia a farsi sentire anche se sono appena le nove di mattina. E ora la visita prosegue verso l’area cosiddetta delle Tombe Reali. Si trovano in alto, sul lato della montagna dalla parte opposta al teatro. Così, viste dal basso e da lontano, sembrano ancora facciate di edifici.

Il nostro gruppo comincia a sfaldarsi: ognuno prosegue con i suoi tempi, di fatica e di osservazione. Mentre mi avvicino alle tombe vengo attratto da alcune grotte naturali scavate sul fianco del Gebel al-Khubtha: incredibili zampe di elefante e di cammello sembrano staccarsi dalla roccia per finire piantate per terra quasi per delineare il contorno e l’ingresso di queste grotte. All’interno una serie di sinuose striature nella pietra creano stupende armonie di linee e di colori. Entro in una grotta e volgo lo sguardo verso il basso, verso il teatro romano che, visto da qui, interamente scavato nel fianco della montagna, sembra ancora più incredibile. Raggiungo il gruppo mentre Zaid sta illustrando la Tomba dell’Urna situata a metà dorsale: qui la facciata è preceduta da un ampia corte, ricavata da un profondo scavo nella montagna e fiancheggiata ai lati da due portici con colonne doriche. L’interno è, come al solito vuoto, e una acustica straordinaria invita Marcella e Pietrone a intonare le struggenti note della nostra "Va’ pensiero".

Proseguo lungo il dorsale della montagna e incontro la Tomba della seta, con le sue venature policrome, e poi la Tomba Corinzia. Poi la montagna sembra allontanarsi per aumentare lo spazio da destinare alle abitazioni dei nabatei e ai suoi piedi appare maestosa la grandiosa facciata della Tomba Palazzo: la più grande della città con i suoi 49 metri di larghezza e 45 di altezza e che, anche se non troppo perfettamente conservata, riesce a stupire ancora di più e a rafforzare in me l’idea della grandiosità della città. Anche qui un paio di beduine nomadi stanno sedute dietro le loro bancarelle invitandomi dignitosamente ad acquistare qualcosa. Un bambino di un anno seduto per terra sotto il sole, gioca con dei piccoli sassi nabatei, mentre un altro più grande, forse cinque anni, ma a me sembra un puntino bianco davanti alla maestosa facciata della tomba palazzo, sorveglia attento il suo piccolo gregge di pecore. Zaid in lontananza mi richiama alla realtà. Ha riunito il gruppo sotto un tendone dove stanno venendo alla luce i resti di una chiesa bizantina con interessanti mosaici.

Essendo una cosa "nuova" anche per Pietrone, lo trovo particolarmente attento ed eccitato. Da qui volgo lo sguardo verso la catena di montagne che chiude la città verso ovest e, attraverso una delle merlature delle cime riesco ad intravedere, piccolissima, la punta levigata della mitica lanterna del Deir.

Sì il Deir, chiamato anche il Monastero, sarà la prossima nostra meta. Una impegnativa salita di un’ora attraverso fantastici scenari ci attende. Zaid ci aspetterà ai piedi della montagna; Ornella preferisce non abusare delle proprie forze e decide di affidarsi al seppur traballante dorso di un asinello, e Pietrone si associa, con la scusa che "prima o poi deve provare anche questa", dato che la volta precedente agli inizi della salita ha dovuto cedere il "suo" asino ad una signora boccheggiante; tutti gli altri si alleggeriscono di sacchi e borse e poi, ognuno con il proprio passo, intraprendono stoicamente il sentiero nella montagna sotto un cielo sempre più azzurro e un sole sempre più caldo.

Superando faticose salite fiancheggiate da rocce sempre più colorate, restando stupefatto dai rossi oleandri che spuntano tra le pietre, meravigliandomi di vedere caprette che pascolano abbarbicate su incredibili crostoni di roccia, voltandomi spesso per godere di paurosi strapiombi che si aprono sulle valli desertiche circostanti, e infine salendo gli ultimi ottocento scalini scavati nella rocca, arrivo sulla cima della montagna dove, dopo un’ultima curva, mi appare a 1200 metri di altezza e quasi protetta dall’abbraccio della cima del Gebel el-Deir, la mitica facciata del Monastero.

Il caldo e la fatica mi spingono ad entrare subito in una grotta naturale situata poco lontano dalla quale, al fresco e bevendo un provvidenziale tè, posso gustarmi per qualche minuto le linee architettoniche di quest’ultima meraviglia. E proprio l’originalità delle sue linee, ormai prive di influenze ellenistiche e addirittura anticipatrici del nostro barocco, fanno pensare e ritenere che questo edificio sia stato costruito in epoca successiva al Khasnè, e cioè nella seconda metà del I secolo d.C.

Sono le 12 e 30 e tra un’ora e mezza dovremo essere tutti riuniti all’ingresso per riprendere il viaggio in pullman verso sud. Peccato che non ci sia tempo per godere di più del posto incantato nel quale ci troviamo. Magari per riposarsi un’oretta in quel piccolo anfratto naturale, ombreggiato da un oleandro fiorito, che consentirebbe una tranquilla veduta sulla facciata del Deir; lasciandosi andare a pensieri sulla, fino a ieri sconosciuta, civiltà nabatea capace di aver costruito, duemila anni fa, queste opere che oggi tanto mi affascinano.

Ripensando magari a qualcuna delle altrettanto incredibili opere costruite in altre parti della terra da altre civiltà, come le piramidi egiziane risalenti a ben 2500 anni prima, oppure il tempio di Abu Simbel di 1200 anni prima, per saltare alle misteriose migliaia di pagode costruite a Pagan in Birmania mille anni dopo Petra. Ma non ho il tempo di fermarmi e continuo a salire sulla montagna di fronte al Monastero, per arrivare sino alla cima, per vedere di lassù sulla sinistra, ancora più in alto, il puntino bianco della tomba di Aronne, fratello di Mosè e per spaziare con lo sguardo su una serie infinita di montagne, prima rosse, poi nere, poi bianche e infine verdi fino ad immaginare in lontananza la valle del Giordano, il mar Morto e poi ancora la Palestina e Gerusalemme.

Sono con Alberto e incontro su questo punto più alto Pietrone, Alfieri e Giorgio: tutti gli altri sono rimasti a rinfrescarsi all’ombra della grotta naturale e a quest’ora avranno già intrapreso la strada del ritorno. E’ l’una passata ormai, e non dovrebbero esserci problemi ad arrivare in tempo all’appuntamento stabilito da Zaid. Ma non abbiamo fatto i conti giusti con il sole giordano!

In realtà il ritorno risulterà più faticoso e stressante del previsto proprio a causa dell’ora veramente infelice. Quando al termine della discesa mi trovo ad attraversare la parte pianeggiante di Petra, quella ellittica circondata dalle montagne, quella attraversata da una lunga via colonnata romana che costeggia resti di abitazioni, mercati, negozi, templi e torri, quella in sostanza lunga oltre un chilometro sotto un implacabile sole allo zenit, con una bocca sempre più asciutta, ecco che mi ritroverò ad avere un unico pensiero: raggiungere l’inizio del siq, dove la strada finalmente si restringe e dove sarà possibile camminare radente alle pareti per sfruttare un po’ della loro ombra!

Ma il percorso risulterà veramente senza fine e quando ci ritroviamo con gli altri del gruppo nella piazzetta antistante il Khasnè, dopo una doverosa foto di gruppo, proviamo a contrattare con alcuni beduini per essere trasportati in calesse fino all’uscita. Purtroppo una richiesta esosa e ferma fa rinunciare al calesse sia a me che a Luigi. E così ci ritroviamo esausti a ripercorrere il magnifico siq in senso inverso rispetto al mattino.

Trovo a fatica la forza e la voglia di scattare un paio di foto alle pareti della montagna ora magicamente illuminate dal sole alto. Al termine del siq, nonostante l’ora stabilita per l’incontro sia ormai già passata da un po’, ci fermiamo esausti a bere una provvidenziale bottiglia d’acqua fresca che, disperato per la mancanza di moneta giordana, riesco a pagare in lire italiane. E non è finita! Perché ora abbiamo davanti a noi ancora il chilometro e mezzo di strada, oltretutto in leggera salita, che al mattino avevamo percorso a cavallo. E Zaid che aveva detto che al ritorno non sarebbe stato necessario il cavallo!

Per fortuna i cavalli ci sono e anche tanti. Anzi quando vedono che siamo interessati, ci assalgono e con tanta fatica riusciamo a contrattare il prezzo, ancora in lire italiane, per essere trasportati, finalmente rilassati in sella, fino all’ingresso e al pullman dove troviamo uno Zaid abbastanza arrabbiato per i 45 minuti di ritardo.

Siamo talmente stanchi che nessuno ha la forza di controbattere per rinfacciargli almeno la carognata del cavallo al ritorno.

NEL DESERTO DI SIR LAWRENCE

Quindi neppure il tempo di rimettersi in sesto e siamo già in marcia verso sud. Ad un certo punto il pullman lascia la Via dei Re e prende la più comoda e veloce autostrada del deserto. Troviamo la forza di mangiare i panini oggetto dell’esproprio del mattino e poi ci abbandoniamo ad una provvidenziale pennichella. La giornata intensa ha evidentemente lasciato il segno in alcuni di noi. Prima di tutti Rosa, malore da colpo di sole, recuperata grazie ad un provvidenziale getto d’acqua fresca. Poi Giorgio che si accorge troppo tardi di avere le braccia e il collo completamente ustionati: da domani userà rigorosamente camicie a maniche lunghe e , forse anche per meglio calarsi nello spirito Lawrenziano, anche un fazzoletto tipo legione straniera inserito nel cappello dietro la nuca per ripararsi il collo. E Luigi ancora incazzato con quel beduino che non ha voluto saperne di accettare un paio di dollari in meno per farlo uscire da Petra in calesse. E infine Pietrone, che nonostante il ricorso all’asino per la parte più impegnativa (lui sostiene che si è stancato di più a stare in equilibrio su un somarello che arrancava su scalinate in mezzo a strapiombi), lo vediamo ciondolare addormentato in fondo al bus.

Dopo un’ora abbondante di strada che attraversa una zona desertica, una serie di stupende colline in arenaria rossa che sorgono come per incanto su un deserto sabbioso ci avverte che finalmente stiamo per entrare nel Wadi Rum: la sosta e la foto sono d’obbligo perché sulla nostra sinistra si vedono i famosi sette pilastri della saggezza raccontati da T.H. Lawrence. Poco dopo ci fermiamo in un villaggio lungo la strada, da dove proseguiamo su un paio di jeep per un veloce giro d’assaggio delle molte sensazioni che può suscitare un luogo incantato come lo Wadi Rum. Rosa purtroppo non si sente ancora in perfetta forma e quindi è costretta a rinunciare al giro e rimane alla Resthouse; Pietrone, veterano del deserto, decide di restare con lei consolandosi con qualche bicchiere di tè. Il tour con jeep si risolve in un’oretta di piste sabbiose all’interno del deserto facendoci vedere da lontano le fascinose colline di arenaria. Nel tour sono comprese anche due soste per osservare alcuni graffiti rupestri: i primi, su un enorme masso ai margini di una piana desertica sono attribuiti a nomadi beduini e sono segni che forse indicano il passaggio delle carovane e la quantità di cammelli; i secondi, all’interno di un siq, sono disegni preistorici di animali e di persone risalenti a 5/6000 anni fa.

Purtroppo un’ora di Wadi Rum è veramente troppo poco, specie se fatta nello stesso giorno dopo la visita di Petra e con tutta la strada di ritorno fino ad Amman ancora da fare, e infatti resterò con la voglia, oltre che di proseguire il giro per le altre piste, anche di assistere allo spettacolo del tramonto per coglierne le tanto decantate e immaginate variazioni di luci e di colori.

Quindi di ritorno dal tour in jeep, ritroviamo Rosa e Pietrone, beviamo un tè anche noi e ripartiamo alla volta di Amman dove arriveremo poco prima delle 23, dopo circa 4 ore di quasi autostrada. Una provvidenziale telefonata di Zaid all’albergo Ammon annunciante il nostro ritardo, farà sì che all’arrivo ci si possa adeguatamente rimpinzare con il solito buffet internazionale preparato solo per noi.

JERASH

Qualcuno dice: " E siamo già a giovedì, 18 maggio! ". Sì il tempo passa; quando sembra di essere in viaggio da chissà quanto e quando sembra di essere appena partiti da Roma. In realtà siamo sempre in Giordania e per oggi è prevista la visita della terza, in ordine di tempo, importante città carovaniera del medioriente : Jerash o Gerasa. Terza perché dopo la perdita di importanza di Petra, fu prima Palmira ad assumere il ruolo di nucleo centrale di passaggio delle carovane provenienti dall’India e dalla Cina, almeno fino alla sconfitta subita dalla sua regina Zenobia, per poi cedere lo scettro di regina del deserto alla romana Jerash.

Di nuovo partenza di buon mattino verso nord con una prima breve sosta al Qala’at Ar-Rabad, castello arabo del XII situato su un colle nei pressi della cittadina di Ajloun. Fu costruito da un nipote del Saladino per controllare il passaggio dei pellegrini cristiani che dalla Siria e dal Libano passavano nella vallata sottostante diretti a Gerusalemme. Anche questo castello è in fase di restauro, ma noi possiamo passeggiare indisturbati – siamo gli unici turisti - per le sue sale e i suoi corridoi, raggiungendo poi la terrazza del torrione centrale dalla quale uno splendido panorama a 360° sulla fertile valle del Giordano riesce, per qualche minuto, a farmi calare nel tempo dei crociati e dei pellegrinaggi dei cristiani ai luoghi santi.

Torniamo quindi sulla strada principale che collega Amman al confine siriano per incontrare Jerash. La città moderna si è sviluppata proprio nelle vicinanze della zona collinare ove tutt’oggi si trovano quelli che possono essere considerati tra i resti più belli e significativi di una città romana. Jerash deve proprio il suo periodo di maggior splendore alla conquista romana, iniziata con Pompeo nel 63 a.C., che ne fece una città importante e capitale della provincia romana in medio oriente. Poi la caduta dell’impero romano, le successive devastazioni dei Persiani Sassanidi, l’occupazione araba e infine una serie di terremoti, ridussero questo centro a un deserto ammasso di rovine che solo l’avvento del turismo internazionale è riuscito a far rivivere anche se non ancora completamente. Di città romane ne vedremo diverse nel corso del nostro viaggio e difficile e anche ingiusto è stilarne una graduatoria. Una per la grandezza dell’ambiente, una per la maestosità e il gigantismo delle costruzioni, una per il fascino misterioso che vi si respira, una per la sua incredibile conservazione, una per l’eleganza dei capitelli e così via, si potrebbe continuare per lungo tempo. Quindi mi asterrò dal fare paragoni. Di ognuna dirò quello che mi ha suscitato in quel preciso momento ma che poi mi è restato impresso nella memoria indissolubilmente legato alle immagini che giorno dopo giorno mi passavano davanti agli occhi.

Bene in Jerash entro passando sotto un arco di trionfo , percorro una strada fiancheggiata da un ippodromo; una decina di scalpellini riparati dal sole da miseri baldacchini in eternit (!) stanno lavorando le pietre con punta e martello. Poi attraverso la porta sud – una delle quattro porte di ingresso presenti nella cinta muraria romana e bizantina lunga 3,5 chilometri. La prima grande emozione la provo entrando dal basso nel teatro romano meridionale: avevo ancora in mente quello incredibilmente colorato di Petra e qui mi trovo di fronte una serie di ripide gradinate semicircolari perfettamente conservate in pietra bianca e grigia. Ecco qui ho sentito il bisogno di prendermi una pausa, stendendomi sulla pietra del gradino più alto all’ombra della balconata, dimenticando il tempo per immergermi nella realtà romana. Ma al solito la visita continua. Zaid va avanti, sta spiegando senz’altro qualcosa di interessante e quindi debbo raggiungerlo. Proseguo lungo una strada sterrata che passa attraverso piccole colline e dall’alto vedo il magnifico punto di incrocio, chiamato tetrapilo, del cardo con il decumano. Il cardo è la strada costruita in direzione nord sud e il decumano quella in direzione est ovest. Attraverso altre rovine anonime, che poi leggerò essere di chiese cristiane e bizantine, e arrivo al tempio di Artemide, alto su un rilievo, preceduto da una larga scalinata e da soli cinque residue eleganti colonne, sufficienti a farmi intuire le dimensioni colossali del tempio originario. Proseguo e entro nel secondo teatro, più piccolo ma altrettanto suggestivo. E poi torno indietro camminando questa volta lungo il cardo, strada lastricata e colonnata sulla quale sono ammassati decine di capitelli, di parti di colonne, di frontoni scolpiti, di architravi, di edicole e di statue mozze. Vedo il ninfeo, passo per il tetrapilo, do un’occhiata al decumano che lo attraversa e proseguo infine, come degna conclusione, fino alla grande, stupenda, armoniosa piazza ellittica, circondata da un elegante colonnato pressoché completo.

E dopo una mattinata così piena di cultura antica non poteva mancare un adeguato completamento culturale gastronomico della Giordania. E allora eccoci, prima di attraversare il confine siriano, tutti riuniti al tavolo di un ristorante all’aperto, sotto olivi che faranno cadere infiorescenze nei nostri piatti ad ogni folata di vento. L’accostamento alla cucina giordana inizia con una calda e sottile focaccia insaporita da un piccante peperoncino rosso, e prosegue con una serie di antipasti, chiamati mezzeh, che consistono in una serie di zuppierine che in pochi secondi ci riempiono ogni spazio libero del tavolo: hummus, un passato di ceci amalgamato con olio che diventerà il must culinario del viaggio; baba ganoush, una crema di melanzane; una insalata di prezzemolo tritato e altre verdure; piccole lenticchie piccantissime, fave giganti bollite con aglio, crema di yoghurt acido con riso, il tutto rigorosamente da mangiarsi prelevandolo manualmente dalle zuppierine comuni con un pezzo di khobs, pane arabo. A questi antipasti fa seguito un ottimo piatto di spiedini di carne alla brace di agnello, pollo e manzo chiamati kebab e accompagnati da conosciute patatine fritte e pomodori. Una fetta di anguria e un caffè turco da bere solo fino al penultimo sorso completano, con soddisfazione di tutto il gruppo, il pranzo tipico giordano. Nel caffè sentiremo sempre un aroma strano: chi dice sia menta, chi cinnamono.









Per proseguire il viaggio in Libano

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