SIRIA, GIORDANIA E LIBANO (Le "civiltà carovaniere" nel primo viaggio IHV)

 

UN GIORNATA IN LIBANO

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Venerdì mattina, prima di lasciare Bosra diretti in Libano, Belal acconsente ad una ripetizione con luce del giro nella vecchia città.

Ho così la possibilità di gustare meglio le cose viste in fretta la sera precedente e in modo particolare la grande cisterna foderata in pietra basaltica che raccoglieva l’acqua da utilizzare nelle terme e nel ninfeo, la grande porta nabatea con i tipici capitelli a corni, della quale però, come in altre zone della città, resta ancora da portare alla luce la parte bassa, e il decumano, lungo il quale assistiamo alla curiosa vendita ( o distribuzione?) mattutina del pane. Una lunga fila di persone attende pazientemente dietro la finestra di una costruzione in metallo dalla quale escono di continuo, appena cotti e sfornati, centinaia di khobs, il pane arabo a forma di larga e sottile focaccia rotonda. E dato che il pane è bollente, quelli che hanno già ritirato le khobs, non possono far altro che stenderle a raffreddare su capitelli romani, su pezzi di colonne corinzie e su architravi scolpiti.

Lasciamo quindi Bosra diretti a nord, da oggi a bordo di un nuovo pullman color salmone, più di quaranta posti con aria condizionata, bibite fresche a bordo e gabinetto di emergenza che, grazie anche a frequenti pipì-stop richiesti da Pietrone, non verrà mai utilizzato.

La strada verso Damasco attraversa una zona pianeggiante ricca di campi coltivati a frumento e a ceci. In lontananza, alla nostra sinistra, si vedono le montagne innevate dell’Antilibano. Nei pressi di Damasco prendiamo la strada verso occidente che ci porterà, dopo qualche chilometro, alla frontiera libanese. Attraversiamo accampamenti e villaggi abitati da migliaia di profughi palestinesi, la maggior parte dei quali vive tutt’ora nella speranza e nell’attesa di poter tornare prima o poi nelle terre abbandonate tanti anni fa e ora occupate dagli israeliani. I villaggi sono punteggiati da moschee e minareti e animati da frotte di bambini.

Alle 11.15 entriamo in Libano dove veniamo accolti dalla guida locale. E’ una ragazza e si chiama Berta; è contenta di poter finalmente parlare l’italiano lamentandosi perché di turisti italiani ne arrivano veramente pochi.

Quattro milioni di abitanti e una grande varietà di religioni: una metà cristiani (maroniti, greci ortodossi, greci cattolici, armeni-ortodossi, armeni-cattolici, armeni-protestanti e così via) e l’altra metà musulmani (sunniti, sciiti e drusi) e, tanto per complicare le cose, diecimila ebrei. A questo punto non c’è più da meravigliarsi se è stato, e ancora non ne è fuori, un paese tormentato da anni di guerra civile.

Dopo pochi chilometri di strada, trascorsi da qualcuno armeggiando felice coi telefonini, che in Libano "prendono" di nuovo come in Giordania (Rosa soprattutto che può riprendere i suoi messaggi con la figlia) raggiungiamo il sito archeologico di Anjar, letteralmente "acqua corrente", una stazione di sosta e di "commercio" delle carovane dirette al Mediterraneo, ruolo ancora perfettamente leggibile nei resti delle numerose botteghe allineate ai lati del cardo, e di un elegante palazzo di califfi Omayyadi e Abbasidi. L’utilizzo alternato di pietra bianca e di laterizi nella costruzione della mura di questi edifici, contribuisce in maniera determinante all’originalità del sito. Ancora una cinquantina di chilometri lungo la valle della Bekaa, distesa tra le catene montuose del Libano e dell’Antilibano, la Coelesiria dei Romani, uno dei tanti loro granai che alterna oggi, purtroppo, fertilissimi campi coltivati a postazioni militari che lasciano intravedere preoccupanti carri armati, che sembrano pronti ad entrare in azione, a ricordo del recente passato per cui la Bekaa è tristemente famosa.

Finalmente arriviamo a Baalbeck, il "Signore della Bekaa", oggi modesta cittadina di 10.000 abitanti, situata a 1150 metri di altezza, ma con un passato storico di prim’ordine, a partire dalla leggenda araba che fa di Baalbeck la più antica città del mondo: costruita da Caino quale rifugio alla maledizione divina, e i cui monumenti ciclopici sarebbero stati eretti da giganti mandati da Nembrod.

Il nome semitico Baalbeck intanto la riconduce all’epoca fenicia, che la vede già allora importante centro religioso del paese. Sotto il regno dei Seleucidi prese il nome di Heliopolis e (conquistata la Siria da Pompeo) ebbe da Giulio Cesare il nome di Colonia Julia Augusta Felix Heliopolitana. Iniziò allora l’astuta politica romana che volle concentrare in quel luogo forme religiose asiatiche, innalzando templi che dovevano superare per grandiosità e splendore qualsiasi altra opera conosciuta. Prospera sotto il regno di Filippo l’Arabo e degli Antonini, iniziò la decadenza con Costantino e Teodosio che costruirono sull’acropoli (al centro dell’antico tempio di Baal) due basiliche cristiane. Dopo la conquista araba del 636, che trasformarono l’acropoli in fortezza, tornò a chiamarsi Baalbeck.

Oggi, grazie alla spettacolarità e alle dimensioni della sua Acropoli con i resti dei tre templi dedicati alla triade heliopolitana, e cioè Giove, Venere e Mercurio ( o Bacco), sta assumendo una importanza turistica eccezionale. J O M H (Jupiter Optimus Maximus Heliopolitanus), ci fa notare Pietrone, è inciso su una delle migliaia di enormi pietre che si trovano sparse all’interno dell’acropoli; e qui è veramente tutto massimo.

Le colonne con capitelli corinzi che costituivano il Tempio concordemente attribuito a Giove Heliopolitano, con una circonferenza di quasi sette metri e con i loro 20 metri di altezza (tre volte quelle del Partenone) sono le più alte del mondo : di 54 ne sono rimaste solo 6, ma con il loro gigantesco architrave che ancora le collega, sono diventate il simbolo della città.

Iniziamo la visita salendo una larga scalinata che ci introduce ad un piccolo cortile esagonale preceduto da maestosi propilei larghi una cinquantina di metri. Questo cortile, inconsueto nei templi romani in quanto di ispirazione orientale, ha ancora una parte della copertura sferica costituita da lastre in pietra incastrate tra loro. La nostra guida si sofferma con competenza sulle modalità costruttive adottate dagli architetti romani, facendoci assaporare lentamente quello che tra poco si aprirà davanti ai nostri occhi.

E infatti ecco che le tanto magnificate dimensioni di Baalbeck si impongono prepotentemente: si entra in un cortile rettangolare lungo 135 metri e largo 113 circondato da resti di mura e di colonne; e allora lo sguardo si perde vagando tra resti di altari, su ninfei ormai senza acqua, su parti di esedre rettangolari o semicircolari, su frammenti di sculture, tra decine di giganteschi capitelli corinzi, tra innumerevoli pezzi di colonne in pietra e in granito rosa di Assuan per poi fermarsi finalmente sulla larga scalinata che al termine del cortile precedeva il superbo tempio di Giove, edificato sotto Nerone nel I secolo, del quale oggi restano, oltre alla base delle mura, solo le famose sei gigantesche colonne che ancora sopportano un cornicione alto più di cinque metri.

All’interno del perimetro del tempio di Giove (106 metri per 69), decine di pezzi delle 48 colonne crollate stanno sdraiate per terra, in disordine, quasi come per consentirci di verificarne il diametro di 2,20 metri confrontandolo con la nostra altezza. E poi, caduti dalla cima delle colonne nel corso dei secoli per terremoti o altre calamità più o meno naturali, enormi pezzi dello stupendo architrave cesellato che con uno svolgimento lineare di quasi 350 metri sormontava e univa le colonne del tempio. Alto più di cinque metri, conciliava , pur nella ricchezza decorativa, la sobrietà greca, l’invenzione iconografica persiana e le raffinatezze dell’arte orientale. Al centro fra gli ovoli, le palmette e i fregi della trabeazione (ci fa notare il prof. Pietrone, che ormai è nella sua materia, la Storia dell’Arte, per giunta meditata "sul campo") spicca, a guisa di doccione, una magnifica testa di leone con le fauci spalancate.

Stanno lì, per terra, abbandonati in mezzo a inutili erbacce, e sembrano ricordarci che poco meno di 2000 anni fa alcuni uomini, con mezzi ancora rudimentali, erano riusciti a collocarli a oltre 20 metri di altezza. E noi, con tutta la nostra odierna e illimitata tecnologia, che cosa aspettiamo a rimetterli al loro posto ?

Siamo tutti estasiati e in modo particolare lo è Luigi, che a Baalbeck pare vittima di rivelazioni che altri hanno avuto sulla "via di Damasco" (d’altronde se è giunto ad anteporla a Petra!), il quale arriva a dire che di fronte a queste costruzioni fatte dai romani, nostri connazionali, sente risvegliare dentro di sé l’orgoglio troppe volte sopito di essere italiano.

Ma Baalbeck deve stupirci ancora. Abbandoniamo quello che fu il tempio di Giove e, scendendo verso il tempio di Bacco, Berta ci fa notare che stiamo camminando sopra il Trilitone, un antico basamento di tempio o di mura, costituito dai tre famosi massi più grandi del mondo. I tre massi che sono alla base del muro di nord-ovest dell’Acropoli, con le loro misure (ciascuno di oltre 19 metri x 4 x 4) sono considerati i più grossi mai movimentati dall’uomo; e c’è chi dice che risalgano addirittura a costruzioni fenicie. Ancor oggi ci si chiede "chi", e "con che tecnica", fosse in grado nell’antichità di muovere pietre di siffatte proporzioni, squadrarle, trasportarle ad un chilometro di distanza e collocarle a 10 metri dal suolo. Una mitica razza di giganti, o più semplicemente i Gibliti, dei quali è detto nel Libro dei Re che Hiram re di Tiro mandò al re Salomone per estrarre e collocare i grandi massi nel tempio di Gerusalemme?

Dimensioni ciclopiche a parte, Baalbeck deve la sua importanza anche alla bellezza, ormai solo parzialmente godibile, dei suoi edifici, che non sarebbe azzardato considerare come una specie di summa dell’arte romana in oriente. Zigzagando tra altre decine di pezzi di colonne, architravi, teste di leone, capitelli, arriviamo infine al più piccolo tempio di Bacco.

Il suo stato di conservazione (è il meglio conservato tempio romano di tutto l’oriente, anche se Tadmur Pascià onde ricuperare i grossi perni in ferro che, saldati al piombo, fissavano i rocchi delle colonne, ne fece saltare con le mine una buona parte) ci consente di poterne leggere tutta l’imponenza monumentale. Il tempio, lungo 69 metri e largo 36, è circondato da una galleria larga tre metri sostenuta da un colonnato di 50 colonne, e coperta da un soffitto a cassettoni arricchito da preziosi fregi e disegni floreali. Una larga scalinata, scolpita direttamente in enormi massi in pietra conduce al bellissimo portale alto 15 metri (quanto una casa di cinque piani), impreziosito da ornamenti corinzi che ricoprono i suoi stipiti. E poi, grazie alla integrità delle mura perimetrali – oggi qualità rara in un tempio romano – possiamo finalmente avere un’idea anche dell’interno di un tempio romano: pareti divise in spazi elegantemente scanditi da colonne; santuario sopraelevato che domina la navata dalla quale è separato da tre porte ad arcate; nicchie che dovevano contenere figure di guerrieri o di dei.

Anche se siamo un poco storditi da quanto veduto sino a quel momento, con l’aggravamento del sole che ci accompagna implacabile da qualche ora, Pietrone riesce ad immortalarci in una delle ormai consuete foto di gruppo con la sua mitica Mamiya 6x6. Appena in tempo, perché c’infiliamo lesti nel museo – finalmente all’ombra! – ricavato di recente (Pietrone assicura che è "novità" anche per lui) sotto il basamento dell’acropoli. Organizzato secondo criteri di avanzata museografia, contiene reperti, modelli, e pannelli con cronologie e notizie interessanti sulla ricostruzione del sito e sui ritrovamenti archeologici e, in fine, anche una saletta di fotografie d’autore, nientemeno che di Burckardt, lo scopritore di Petra.

Fuori dell’area archeologica, spendiamo solo un’occhiata da lontano per il delizioso piccolo tempio (il massimo esempio del "barocco" nell’architettura romana) innalzato in onore della terzo figura della famosa triade Heliopolitana: Venere. Esausti, ma soddisfatti, riguadagnamo finalmente il nostro pullman air-con, color rosa salmone, mentre Pietrone, con Belal e Berta scompaiono nell’Hotel Palmyra, vecchio albergo liberty forse ancor oggi unico in Baalbeck proprio di fronte all’acropoli, alla ricerca di non si sa cosa. Fatto si è che lo vediamo rientrare cupo come pochi, intimare alla guida di portarci a vedere, anche senza scendere dal pullman, la famosa pietra detta del "mezzogiorno", o "della donna incinta", o del "venerdì", abbandonata alla cava bella squadrata e pronta all’impiego, quindi ritirarsi nel suo sedile in fondo al pullman, e rimanere praticamente silenzioso sino alla frontiera con la Syria.

E ancora una volta il severo Belal non si esime dal farci notare che siamo in forte ritardo e che corriamo il rischio di non veder rispettato integralmente il previsto programma della giornata. Memori del ritardo di ieri, conveniamo - anche se qualcuno (Giorgio? Luigi?) lo fa a malincuore - che è meglio non farlo arrabbiare di nuovo e quindi rinunciamo al pranzo in ristorante che l’agenzia libanese ci avrebbe offerto e accettiamo di buon grado un cestino da viaggio con un paio di panini (pane arabo farcito e arrotolato) che, a risparmio di tempo, ci mangiamo mentre il pullman lascia Baalbeck diretto a nord verso il confine con la Siria.









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