SIRIA, GIORDANIA E LIBANO (Le "civiltà carovaniere" nel primo viaggio IHV)

Pietrone esiste!!!!

Esclamazione spontanea di Ornella, ma pensiero unanime, quando capimmo che il robusto e panciuto signore sessantenne con barba bianca, appena sceso all’aeroporto di Vienna, proveniente da Malpensa, era proprio il Pietrone di IHV. Ma più che banale verità "ontologica" era un grosso sospiro di sollievo. Soprattutto per Luigi ed io, gli unici due che, bazzicando sul NG e conoscendo Pietrone soltanto "virtualmente", avevano convinto altri otto partecipanti della necessità di spostare qualche milione dei propri sudati risparmi sulle coordinate bancarie di un semplice nickname….

In realtà io non avevo mai avuto dubbi. Pietrone non lo conoscevo, poteva anche non esistere, poteva nascondere un incallito imbroglione, ma il suo carisma, che traspariva in maniera lampante dai messaggi degli altri frequentatori del NG, mi aveva convinto ad aderire senza starci a pensare troppo alla sua proposta di un viaggio in Siria lanciata nel NG quasi per scherzo o per sfida e poi, passo passo, ad aiutarlo a trovare altri partecipanti e infine a bonificare i milioni necessari come da sua semplice richiesta virtuale.

Fatta questa doverosa premessa, eccoci quindi, il 15 maggio 2000 alle ore 14 circa, riuniti all’aeroporto di Vienna, dieci partecipanti più Pietrone, appena il tempo di presentarci prima di salire subito sull’aereo dell’Austrian Airlines per Amman, con tutta la responsabilità che ci proveniva dall’essere gli apripista d’una "prima" IHV affatto eccezionale.

A questo punto, prima di proseguire il viaggio e visto che siamo in aereo, è doveroso un sentito ringraziamento a Sabrina che, nonostante il poco tempo a disposizione prima della partenza stabilita, è riuscita a superare l’impasse dei voli completi da Roma a Amman, con la brillante alternativa del volo via Vienna.

Per la parte di viaggio svoltasi in Giordania e Libano cliccare sui rispettivi paesi.

INGRESSO IN SIRIA

E di nuovo in fretta per arrivare all’appuntamento al di là del confine con la guida siriana: abbiamo "solo" tre ore di ritardo! Per fortuna le formalità doganali sono abbastanza veloci e dopo aver lasciato il confine giordano e salutato il nostro Zaid, attraversiamo qualche chilometro di terra di nessuno e entriamo finalmente in Siria dove troviamo ad accoglierci Belal, la guida siriana che ci accompagnerà fino al termine del viaggio. Costui, visibilmente contrariato per il ritardo, si presenta e, con un italiano meno fluente di quello di Zaid ma molto più preciso e appropriato come avremo modo di rilevare nel corso del viaggio, ci fornisce qualche notizia sul suo paese. Repubblica democratica, diciotto milioni di abitanti; 185.000 chilometri quadrati di superficie; 6,6 figli per ogni donna feconda; istruzione obbligatoria fino alla sesta elementare ma scuole superiori e università con numero chiuso. La Siria vanta di aver ospitato sul suo territorio alcune delle più antiche civiltà, di essere stata la terra ove per la prima volta è stata praticata l’agricoltura e vi sono state scoperte le leghe metalliche e la ceramica e infine di essere la patria della cultura che ha inventato il primo alfabeto della storia. Effettivamente sono credenziali di tutto rispetto anche per noi italiani abituati a considerare l’occidente come il centro del mondo. Mentre Belal ci racconta queste cose, non possiamo fare a meno di notare, guardando fuori, una incredibile quantità di immagini del Presidente Assad che tappezzano strade, palazzi, ponti in maniera veramente ossessiva. Belal ci dice che Assad è al potere da quasi 30 anni essendo stato rieletto per ben quattro volte pressoché all’unanimità.

Politica a parte, mi sembra di notare un maggior movimento di persone e mezzi rispetto a quanto visto in Giordania. Il paesaggio è più verde, con tanti alberi e campi coltivati. Dopo qualche chilometro raggiungiamo Bosra, importante città carovaniera e dal 70 al 106 d.C addirittura capitale del regno nabateo. al posto di Petra. Poi, dopo la conquista romana, capitale della provincia imperiale di Arabia raggiungendo nel secondo secolo il culmine del suo sviluppo urbanistico. A Bosra visitiamo subito il magnifico e imponente Teatro romano situato ai margini della città vecchia. Dopo il teatro colorato di Petra, quello bianco e grigio di Jerash ecco oggi un teatro in pietra basaltica grigio scura. Entriamo a metà gradinate e resto stupefatto dalla sua imponenza e dalla conservazione. Si parla di una capienza di 15000 persone, anche se altre guide si fermano a 6000 posti a sedere più 2500 in piedi, disposti su 37 file di gradinate. La balaustra terminale era ornata da una fila di leggere colonnine purtroppo rimaste integre solo in parte. Il diametro massimo della cavea raggiunge 102 metri e il palcoscenico ha uno sfondo di 45 metri di larghezza. Sono misure necessarie per far capire l’imponenza del teatro tutt’oggi utilizzato per la rappresentazione di spettacoli musicali e in prosa. L’edificio adiacente al palcoscenico, un tempo fortezza araba, ospita un piccolo museo dove sono conservate, tra l’altro, alcune sculture nabatee e romane in basalto, raffiguranti donne. Nonostante il ritardo che abbiamo accumulato, Belal rivela subito la sua efficienza, non facendoci rinunciare alla visita della vicina Shahba che infatti raggiungiamo in una mezz’ora, salendo a circa 1000 metri di altezza. Shahba, oggi piccolo cittadina, ha la caratteristica di essere l’unica sede urbana siriana fondata dai romani e precisamente nel 244 d.C. dall’imperatore Filippo l’Arabo, che vi nacque, da cui prese infatti il nome di Philippopolis. Seppur velocemente vediamo un piccolo teatro, i resti di un ninfeo, una grande piazza pavimentata, e una specie di torre facente parte del cenotafio del padre divinizzato di Filippo, unico tra gli imperatori romani a vantare origini arabe. Nella vicina Suweida (15 km) visitiamo anche un piccolo museo dove sono state raccolte alcune pavimentazioni a mosaico provenienti da Shahba, fatte con piccolissime tessere di pietra colorata, rinvenute in palazzi e ville dei dintorni: ricordo il matrimonio di Bacco e Arianna, Afrodite e Ares, e Teti, la dea del mare, madre di Achille.

Torniamo a Bosra, dove alloggeremo al Cham Palace a cinque stelle, quando ormai il sole sta per tramontare. Ma Belal non si arrende e, nonostante il buio incombente, ci porta ( ma qualcuno preferisce rinunciare e restare in albergo ) a visitare la parte antica della città dove, in mezzo a terme romane, decumano colonnato, porta nabatea, cattedrale bizantina scoperchiata e moschea di Fatima, abitano tutt’ora in modeste e antiche casette, un centinaio di famiglie povere in attesa di ottenere una sistemazione più adeguata.

Al rientro, nella hall dell’albergo, Pietrone incontra e si precipita ad abbracciare una fanciulla del luogo: null’altro che una "sua" guida d’un precedente viaggio, che doveva anche essere la nostra, se soltanto l’organizzazione del viaggio IHV avesse potuto procedere più spedita. Ci confesserà comunque che nel cambio con Belal non abbiamo perso niente. Anzi, pur riconoscendo in Fida’a (così si chiama la fanciulla) una grande preparazione sui monumenti, essendo laureata in architettura, si deve riconoscere a Belal una preparazione generale più puntigliosa e precisa.

 

DI NUOVO IN SIRIA

L’intenso programma di visita della mattina, la calda ora pomeridiana e i panini libanesi trangugiati sul pullman, determinano un generale abbiocco che non ci consente di gustare al meglio la stupenda valle della Bekaa con i suoi vasti campi di frumento e altri cereali. Belal, instancabile, prova ad intavolare una esposizione sui problemi che portarono alla guerra libanese, ma poi, di fronte ad una Sandra e una Marcella che gli dormono platealmente davanti senza alcun ritegno, si vede costretto a desistere. E il prof. Pietrone, sui banchi, pardon sedili, in fondo al pullman, è già passato spontaneamente dalla sua cupa incazzatura ad una più conciliante pennichella.

Il viaggio prosegue senza note di particolare interesse fino al confine settentrionale siriano-libanese, dove salutiamo la nostra Berta che, assolutamente professionale, ci ha voluto inutilmente accompagnare sino alla frontiera, non ostanti le nostre insistenze a che si fermasse a Baalbeck. Dovrà ora, quindi, cercarsi un passaggio per il ritorno. Le immancabili decine di ritratti del Presidente Assad presenti in ogni luogo ci avvertono che siamo nuovamente in Siria. Solo allora Luigi si sveglia dal torpore e ci avverte che ha avuto una illuminazione; ha capito il motivo per cui questo Assad è stato riconfermato per ben trent’anni di seguito alla guida del paese. Si riserva però di comunicarci questo segreto nel prosieguo del viaggio.

Passando dalla periferia di Homs, terza città siriana dopo Damasco e Aleppo e senza nessun interesse turistico in quanto centro industriale, deviamo verso occidente in direzione della costa mediterranea per salire sul colle dove i crociati costruirono uno dei loro più splendidi castelli, il cosiddetto Krak dei Cavalieri.

La strada che conduce al castello è stretta, ripida e tortuosa e il pullman sembra superarla con una certa fatica. L’autista ricorre con preoccupante frequenza ad ingranare la prima! All’interno c’è silenzio, e non certo perché si stia dormendo: anzi anche Sandra, Marcella e Pietrone sono ora ben svegli e attenti. A complicare le cose ci si mette anche l’attraversamento del borgo di Al-Hosn, situato a metà salita, con le sue incredibili strettoie fiancheggiate da abitazioni e negozietti. Finalmente, salutato da un generale sospiro di sollievo, si arriva alla base del castello.

Visto da lontano questo castello rappresenta proprio il castello crociato del nostro immaginario: una fortezza apparentemente inespugnabile situata sulla punta di una collina, circondata da un doppio sistema di mura concentriche intervallate da terrapieni, da torri e da un profondo fossato; tre lati delle mura sono a strapiombo sulla scarpata, mentre il quarto lato, quello più vulnerabile, era difeso da un fortino triangolare in legno.

I Crociati lo costruirono verso la fine del XII secolo sul posto dove esisteva già un antico forte curdo. La posizione strategica era particolarmente felice perché consentiva di controllare il passo di Homs, l’unico passaggio che collegava le coste mediterranee con l’interno della Siria. Il Krak rimase in mano ai crociati e ai cavalieri dell’Ordine degli Ospedalieri fino al 1271 quando , ormai presidiato da poche decine di cavalieri e dopo un assedio di 37 giorni, venne conquistato dai mamelucchi.

La visita all’interno del castello, con le sue larghe rampe di scale accessibili ai cavalli, la sua ampia piazza d’armi, le lunghe camerate appena illuminate da strette finestre, la grande sala che serviva alle riunioni di carattere militare, la semplice cappella romanica ad una navata preceduta da un elegante portico, il suggestivo camminamento lungo le mura con la vista che spazia sulle colline e le vallate circostanti e infine la salita sulla terrazza della torre più alta, mi porta a rivivere per un’ora le gesta dei cavalieri cristiani che, con più o meno buona fede, erano venuti fin qui per liberare dagli infedeli la terra ove era nato Gesù Cristo.

Prima di risalire sul pullman Belal non manca di farci entrare in un ristorante situato nelle vicinanze, dal quale possiamo godere una stupenda veduta del Krak, aiutati anche dai raggi del sole che tramontando, illumina e colora di rosso i possenti bastioni del castello.

Questa veduta merita senz’altro un brindisi: e lo facciamo volentieri, Pietrone su tutti, con bollenti bicchieri di tè alla menta e di caffè alla turca.

Tornati sulla strada principale, il viaggio prosegue verso nord lungo una strada fiancheggiata dai soliti campi coltivati a frumento e ceci, mentre Belal dà sfoggio della sua cultura e del suo inossidabile orgoglio di musulmano raccontandoci qualcosa sugli obblighi imposti dalla sua religione: alcune note polemiche, "da occidentali", di Ornella e di Alfieri per punzecchiare Belal vengono prontamente rintuzzate anche grazie ad autorevoli interventi dal fondo del pullman da parte del prof. Pietrone. Il nostro professore gratifica Belal del suo pieno rispetto per i musulmani confessando però che una cosa gli resta inaccettabile: l’assoluto divieto, per chi si è convertito all’islamismo, di una successiva apostasia per tornare al credo precedente, concedendo automaticamente il diritto a chiunque di ucciderlo senza pagarne il fio.

E così, poco prima delle 21, eccoci ad Hama, dove trascorreremo la quinta notte del viaggio. Hama è la quarta città della Siria e conta più di 450.000 abitanti. Raggiungiamo il nostro Apamea Cham Palace – il secondo dei due cinque stelle previsti, dopo quello di Bosra – attraversando la città a piedi per avere l’opportunità di apprezzare le originalissime norie che da più di 1000 anni – a tutt’oggi ne sono rimaste attive ancora 16 - caratterizzano il fiume Oronte nella zona di Hama. Sono grandi ruote di legno che, sfruttando la corrente del fiume, e grazie ad un ingegnoso sistema di recipienti ricavati nella struttura della ruota, provvedono a prelevare l’acqua dal fiume innalzandola per un’altezza pari al diametro, per incanalarla negli acquedotti per l’irrigazione e il rifornimento idrico della città e dei suoi dintorni. La città è quindi contraddistinta da un continuo cigolio prodotto da queste ruote che girano incessantemente: Belal ci racconta che proprio questo cigolio è favorevolmente salutato al mattino dagli abitanti della città in quanto segno di presenza e quindi di disponibilità dell’acqua.

Un piacevole movimento di persone che passeggiano sulla strada lungo l’Oronte ci riporta con il pensiero alle serate estive nelle nostre città: oggi è venerdì e quindi giornata festiva per i musulmani. Un bambino che vende piccole seggioline in legno fa buoni affari con il nostro gruppo: Grazia, Ornella e Rosa non si lasciano sfuggire l’occasione. E il bambino ci dimostrerà la sua gratitudine, accompagnandoci, felice, sino al nostro albergo.

Come da copione, drink di benvenuto, distribuzione delle camere e cena a buffet internazionale in un lussuoso salone. Pietrone gongola soddisfatto perché, nella sua qualità di tour leader, gli è stata assegnata una splendida suite con due camere, due bagni, uno spogliatoio e un soggiorno nel quale fa bella mostra di sé un invitante vassoio di frutta fresca.

 

PROSEGUE IL VIAGGIO A RITROSO TRA LE ANTICHE CIVILTA’

Al mattino di sabato 20 maggio, consueta sveglia e abbondante colazione nonché approvvigionamento di panini e uova sode per lo spuntino del mezzogiorno. Il prof. Pietrone si presenta con un po’ di ritardo giustificandosi col tempo perso a ricuperare tutta la sua roba "dispersa" nelle varie stanze della sua suite.

Nuova piacevole passeggiata attraverso i giardini pubblici di Hama già frequentati, nonostante l’ora, da numerose famiglie siriane con bambini. I raggi del sole che attraversano l’acqua incessantemente sollevata dalle norie creano suggestivi effetti di arcobaleni.

Mentre il pullman attraversa la città prima di riprendere il viaggio verso nord, abbiamo modo di vedere alcune moschee, una chiesa greco-ortodossa e gli scavi archeologici intrapresi da una missione danese che stanno portando alla luce interessanti reperti risalenti al periodo neo-ittita e aramaico. Alla periferia la strada fiancheggia un immenso quartiere residenziale costituito da qualche centinaio di edifici a 3-4 piani, tutti uguali e in attesa di essere abitati. Un’industria per la lavorazione del cotone prima di lasciare Hama, uno dei pochissimi stabilimenti visti durante l’intero viaggio, dà l’occasione a Belal di ricordarci che il cotone, dopo il frumento, è la principale coltura della Siria.

Lungo la strada che ci porta ad Apamea, passiamo vicino agli imponenti resti di Qalaat Sheizar, una fortezza araba con tanta storia da raccontare, come ogni altro luogo della Siria : i primi accenni si trovano negli archivi egiziani di el-Amarna, poi nuova fondazione da parte di Alessandro Magno e poi dominio di Seleucidi, Romani, arabi, bizantini, luogo di incontro degli eserciti musulmani durante le crociate, franchi, ayyubidi e mongoli. Tutta la storia.

Il tempo a disposizione non ci permette una sosta e infatti proseguiamo direttamente fino ad Apamea. Qui troviamo solo un altro piccolo gruppo di turisti francesi e quindi possiamo gustarci al meglio la poesia e la serenità di questo sito delicatamente disposto in mezzo al pianoro che si eleva sulla piana del Ghab.

Luogo abitato sin dal neolitico, la città venne fondata come Apamea nel 300 a.C. da Seleuco Nicatore in onore della moglie persiana Apame. Per i più distratti ricordo che Seleuco era uno dei generali macedoni tra i quali, dopo anni di lotte, venne diviso l’impero alla morte di Alessandro Magno: ai Tolomei l’Egitto, ai Seleucidi l’Asia e agli Antigonidi la Macedonia. Successivamente Apamea venne conquistata dai romani che la ricostruirono per ben due volte a seguito distruzioni causate da altrettanti terremoti. Al momento del suo massimo splendore Apamea contava più di mezzo milione di abitanti. Dopo la fine dell’impero romano vi si alternarono le ormai note civiltà : sassanidi, persiani, arabi, bizantini, normanni durante le crociate, di nuovo arabi e il tutto accompagnato da una nuova serie di disastrosi terremoti che la ridussero nelle condizioni odierne.

Nei pressi dell’ingresso al sito esiste un piccolo spaccio, dove Pietrone approfitta per bere la sua prima bibita della giornata. Siamo anche accolti in due modeste abitazioni dove due donne, attorniate dagli immancabili bambini, ci propongono l’acquisto di monete e piccole suppellettili romane.

Iniziamo la visita partendo dalla porta sud dove ha inizio il lunghissimo cardo romano: un rettilineo di 1850 metri, un tempo interamente fiancheggiato da colonne, che sembra sorgere come per incanto in mezzo alla campagna per perdersi poi all’infinito. Assecondato dal fresco e dalla luce ancora radente delle prime ora della mattina e dalla assenza di altri turisti, percorro lentamente il cardo ascoltando solo in parte le puntuali descrizioni di Belal.

Sarà per il nome, Apamea, che trovo estremamente musicale e dolce, ma stamani mi piace abbandonarmi più alla poesia che alle pur interessanti note tecniche, storiche e artistiche. Il luogo mi incanta.

Cammino lentamente lungo questo cardo lastricato, osservando resti di chiese, la rotonda, il ninfeo, le terme, l’agorà, il tutto scandito da belle colonne, quando lisce, quando con scanalature verticali e quando a spirale. All’incrocio con il decumano che si snoda in direzione est ovest, volgo lo sguardo verso occidente e incontro una catena di montagne aldilà delle quali, sulle coste del Mediterraneo, ci sono Lattakia e la mitica Ugarit.

Purtroppo il programma non prevede di arrivare sino là, anche perché, dice Pietrone, a Ugarit non c’è niente di particolarmente bello da vedere: però sapere che proprio lì, nel XIV secolo a.C., fu inventato dai fenici il primo vero alfabeto fonetico della storia della civiltà mi fa venire un brivido di commozione. Mi debbo consolare al pensiero che tra qualche giorno avrò comunque modo di vedere al museo di Damasco proprio quella minuscola tavoletta, rinvenuta negli scavi del Palazzo reale ad Ugarit, contenente alcuni segni di questo alfabeto ugaritico affiancati dalle analoghe voci della più consueta scrittura cuneiforme sumerico/accadica.

Ma una cosa è vedere un oggetto esposto asetticamente nella bacheca di un museo e un’altra è essere nel luogo dove…Così è, almeno per me.

E proprio nel corso di questo viaggio avrò modo di veder confermata questa sensazione, in modo particolare durante la visita dei siti di Ebla e di Mari, luoghi dove non ci troveremo di fronte a niente di particolarmente bello o esaltante, ma dove io mi sentirò pervaso da una magica sensazione di scoperta e di totale immersione nella vita di migliaia di anni fa.

Proseguo il cammino verso nord mentre Belal spiega che grazie ai finanziamenti di un ricco siriano, sembra il proprietario della catena di alberghi di lusso Cham, diverse colonne e architravi sono stati rimessi al loro posto. Tra i tanti fregi presenti sui cornicioni dei vari templi ci fa notare una testa di Socrate, un paio di organi sessuali maschili e uno femminile. E così arriviamo al termine del cardo, alla porta di Antiochia, dove ritroviamo il nostro salmonato pullman.

Breve sosta per visitare un caravanserraglio dove un tempo sostavano i pellegrini diretti alla Mecca e dove oggi sono conservati interessanti mosaici rinvenuti negli scavi di Apamea, nonché sarcofagi, lastre tombali e una curiosa acquasantiera/ossario dove l’olio, introdotto dall’alto, era poi utilizzato dai fedeli opportunamente benedetto dal filtraggio attraverso le ossa di qualche santo ivi contenute.

Da Apamea fino a Ebla, un paio d’ore di comoda strada con una breve sosta ristoratrice per mangiare, chi i panini proletari e chi un piatto caldo di carne di montone: e poi, per tutti, un delizioso dolce a base di miele, noci e pistacchi e un buon caffè turco.

EBLA

Prima di arrivare al sito archeologico di Ebla, oggi chiamato Tell Mardikh, Belal, per niente scoraggiato del generale intorpidimento che come al solito aleggia nel gruppo nella prima ora pomeridiana, per meglio prepararci alla visita di Ebla, si cimenta in un impegnativo quanto arduo tentativo di illustrare per sommi linee un quadro delle antiche civiltà sviluppatesi in Siria a partire dal 10.000 a.C.

Lasciando da parte per gli studiosi la preistoria, sarà comunque proprio la civiltà eblaitica a dare inizio nella seconda metà del IV millennio a.C. a quel fermento di città stato in Siria che bilancerà per qualche tempo la straripante potenza dei Sumeri e degli Accadi nella Mesopotamia, raggiungendo, per quanto riguarda Ebla, il massimo splendore nel 2400 circa. E saranno proprio gli Accadi che preoccupati dal sempre più vasto raggio di azione di Ebla, verso il 2300/2250 guidati dal loro re Sargon I (o da suo nipote Naram-Sin), intraprenderanno una campagna di guerra che porterà alla completa sconfitta e distruzione di Ebla.

Ma non definitivamente. Dopo qualche secolo di decadenza e di silenzio, Ebla riuscì infatti a riacquistare una certa importanza: nel periodo che va dal 1850 al 1600 viene identificato il suo secondo periodo aureo dimostrato anche dal ritrovamento dei resti di una serie di edifici costruiti proprio in tale periodo.

Poi una nuova, e questa volta pressoché definitiva, distruzione si abbatté su Ebla per mano degli Ittiti che nel 1620 circa, durante la loro travolgente marcia di trasferimento verso Babilonia, conquistarono e distrussero Ebla.

Una punta di orgoglio nazionalistico ci scuote quando Belal dice che il merito della scoperta del sito di Ebla è da attribuire alla Missione archeologica Italiana dell’Università di Roma guidata dal prof. Paolo Matthiae, che, proprio con lo scopo di individuare l’antico sito di Ebla, iniziò gli scavi nel 1964; e solo nel 1968 , con il ritrovamento di un frammento di statua regale del XX secolo, ebbe la certezza di aver finalmente trovato quello che stava cercando.

Belal poi rivela la sua naturale indole musulmana verso gli ebrei, accalorandosi un poco contro un altro studioso italiano, Pettenato, per le sue affermazioni sulle probabili origini ebraiche di Ebla: secondo Belal, Pettenato sarebbe giunto a tali affrettate conclusioni solo per aver decifrato il nome di Abramo su alcune tavolette cuneiformi qui ritrovate. E per un siriano sentire insinuare che forse Ebla è ebraica deve essere veramente troppo!

Ma è giunto il momento di tornare al nostro viaggio. Anche perché il tempo, bellissimo al mattino, si è ora improvvisamente abbuiato e un cielo nero accompagnato da tuoni in lontananza non promette niente di buono. Infatti proprio mentre siamo raggruppati intorno a Belal per ascoltare le sue meticolose descrizioni dei resti degli edifici eblaitici, comincia a piovere. Qualche attimo di smarrimento nel gruppo per i goccioloni tutto sommato abbastanza graditi a causa dell’ora calda, ma poi restiamo tutti lì ad ascoltare attenti i metodi costruttivi di uomini di 4 millenni fa. Saranno comunque le uniche gocce d’acqua – e comunque anche di breve durata - che si faranno sentire in tutta la durata del viaggio: per il resto sempre giornate stupende con cielo azzurro.

Il sito di Ebla è costituito da uno spazio di circa 50 ettari occupato da una collinetta solo parzialmente scavata per portare alla luce i resti degli antichi edifici, il tutto circondato da un terrapieno interrotto da quattro ingressi, ora ricoperto da erba e coltivazioni, che una volta fungeva da cinta muraria difensiva della città. Al di là lo sguardo si perde su un infinito di campi coltivati che variano dal verde, al giallo, al marrone, colori che si sposano magnificamente con la plumbea tonalità del cielo ancora imbronciato. Unica forma di vita qualche piccolo gregge di pecore serenamente sorvegliato da bambini.

Al primo periodo, quello più antico, appartengono i resti del Palazzo reale, oggi ricoperti a titolo conservativo da una calce bianca che a me appare eccessiva e anche un po’ anacronistica: negli archivi di questo palazzo, allineate in scaffalature di legno, sono state ritrovate circa 17.000 tavolette cuneiformi in argilla alle quali dobbiamo tutto quello che oggi sappiamo su questa importante civiltà. Le tavolette, con dimensioni variabili da pochi centimetri fino ad un massimo di 45 per lato, sono scritte a caratteri cuneiformi in originale lingua eblaita, una lingua di ceppo semitico molto simile all’accadico.

A documentare il secondo periodo ci sono scavi che stanno portando alla luce resti di altri palazzi e di templi religiosi come quello dedicato alla dea Ishtar con muri spessi quattro metri e quello al dio Sole. Comunque fa uno strano effetto venire a sapere che per la quasi assoluta mancanza di ritrovamento di documenti scritti le nostre conoscenze su questo periodo sono scarsissime, a differenza invece di quanto sappiamo, grazie alle migliaia di tavolette, del periodo di otto secoli più vecchio.

Come era prevedibile quindi non ci siamo trovati di fronte a resti stupefacenti, ad opere d’arte da levare il fiato, a costruzioni dalle linee incredibili, a statue finemente lavorate e così via. Niente di tutto questo. Poco più della base perimetrale di alcuni edifici, qualche centinaia di semplici e rudimentali mattoni di fango cotti al sole, tante collinette ancora da scavare. Però il fascino che emanano questi posti è incredibile e non riesco a raccontarlo come vorrei.

Considerare che sono sul luogo di una civiltà rimasta sconosciuta fino a pochi anni fa, una civiltà importante tanto da aver contribuito con la sua scoperta alla riscrittura della storia del medioriente e non solo, mi trasmette il solito fremito di emozione. Lì, intorno a Belal, siamo tutti about sixty e quindi ognuno di noi ha reminiscenze scolastiche più o meno vaghe di imperi assiro-babilonesi, di fenici difficili da localizzare sulla carta geografica, di egiziani costruttori di piramidi, ma niente di Ebla e della sua civiltà. E invece ora ci sono in mezzo. Ho carezzato la base dei suoi grossolani muri, ho spaziato sulla sua cinta muraria, ho guardato verso l’orizzonte a 360° come 4/5000 anni facevano i suoi abitanti. Vorrei poter restare qualche giornata su questa collina a scavare, a spolverare piccoli frammenti di argilla, ad aggirarmi senza tempo tra questi resti: ma questo un’altra volta. Ora il professore mi chiama.

E allora, arrivando sino al terrapieno della cinta muraria per percorrerne un centinaio di metri, usciamo dal sito e saliamo sul pullman diretti ad Aleppo.

Prima però facciamo una simpatica sosta in un vicino villaggio dove ci sono diverse piccole casette sormontate da un tetto conico. La solita marea di bambini che si accodano allegri accennando appena la richiesta di un bon bon o di una penna. Solo dopo che mi sono mescolato tra di loro per fotografarli nel pieno dei loro atteggiamenti festosi e curiosi, mi lascio andare a distribuire qualche pupazzetto e qualche automobilina portata da casa. Mentre lo faccio, mi viene il dubbio se quello sia un comportamento positivo o meno. In quel momento vedo che chi riceve il regalino è contento, però poi, passato il momento dell’euforia, cosa penserà quel bambino di questi stranieri che dispensano con facilità tanti oggettini per lui così preziosi? Mi fa pensare anche il rischio di creare brutte rivalità e gelosie tra di loro, perché non tutti riescono ad ottenere qualcosa: anzi magari c’è chi prende tanto e chi nulla. E quello con tanto te lo ritrovi sempre davanti, in prima fila, non ancora contento ma pronto a domandarne ancora. Difficile è dare qualcosa ai più timidi, a quelli che restano in fondo al gruppo, a quelli che vorrebbero ma non ne hanno il coraggio. E’ sempre la solita storia del mondo.

E allora meglio ripartire e questa volta senza fermarsi fino ad Aleppo, la seconda città della Siria con il suo 1,6 milione di abitanti e la solita tanta storia da raccontare. Vi arriviamo nel tardo pomeriggio e alloggiamo in un albergo in periferia stranamente ricavato dagli spogliatoi di uno stadio di calcio, proprio sotto le tribune. C’è qualche lamentela per la mancanza di finestre nelle camere, per una certa sensazione di umidità ma poi tutto si sistema e ci ritroviamo seduti ad un tavolo all’aperto in un grande prato dove siamo gli unici ospiti. E stasera niente buffet internazionale ma tipica cena siriana a base di salsine: ci stiamo ormai affezionando alla crema di ceci e le prime zuppierine vengono velocemente svuotate intingendovi l’ormai consueto pane arabo. Terminiamo con dolce a base di latte, gelato e pezzetti di formaggio acido: strano connubio ma risultato buono.

Dopo cena giochiamo una partita a whist nella quale Giorgio (neanche una partita intera giocata, dopo che Pietrone ci ha iniziato alle "delizie" di questo splendido gioco "da viaggio" che costituisce in fondo il pretesto del più classico dei libri di viaggio, nientemeno che il "Giro del mondo in 80 giorni") si conferma campione liquidando bridgisti come Luigi, Marcella e il sottoscritto. All’altro tavolo Pietrone insegna l’whist ad Alfieri, Alberto, Ornella e Sandra mentre Grazia e Rosa, stanche, hanno preferito avviarsi a letto. Seguite comunque a breve da tutto il gruppo

 

 

VERSO LA TURCHIA ALLA SCOPERTA DELLE CITTA’ MORTE

Come al solito di buon mattino, oggi è domenica 21 maggio, lasciamo l’albergo e partiamo per un giro nella zona nordoccidentale di Aleppo. Attraversiamo la periferia della città con viali fiancheggiati da oleandri, conifere, tamerici e acacie e naturalmente tanti crocevia con l’immancabile statua del presidente situata nel punto centrale. Il territorio siriano che visiteremo oggi è attiguo a quella zona costiera con la città di Antiochia, che dal 1939 è stato annessa dalla Turchia ma che la Siria, ci dice Belal, prima o poi rivendicherà.

In fatti, già di prima mattina siamo ben "incamminati" sulla via di Antiochia, strada romana in solido lastrico di pietra, come avevano da essere tutte le strade dell’Impero, fatta costruire da Diocleziano per collegare Antiochia ad Aleppo. La passeggiata che ci concediamo d’un chilometro, diretti al nostro pullman salmonato che ci aspetta laggiù in fondo, percorrendo il largo selciato ancora intatto, con solo i solchi scavati dalle molte quadrighe che lo percorrevano giornalmente, immersi nel terso cielo primaverile d’una campagna tipicamente "palestinese" di ulivi e mandorli in fiore, di contorti pini di Aleppo (e che sennò!), ci procura per un attimo l’emozione d’un inconscio "déjà vu" cinematografico: cittadini dell’Impero, noi frettolosi apostoli viandanti diretti a Damasco, o (a completa nostra fantasia) navigati centurioni a cavallo diretti ai presidii di Aleppo o di Antiochia…

Poi avvicinandoci sempre più al confine con la Turchia, entriamo nella regione di Idlib con un paesaggio caratterizzato da colline calcaree sulle quali crescono centinaia di olivi. Infine una ultima stradina stretta e tortuosa, non conosciuta neanche dall’autista che deve addirittura ricorrere a chiedere informazioni a un pastore, ci porta al primo sito della giornata: si tratta di Qirq Bizeh. Ci troviamo su una altura, tra le rovine in pietra d’una di queste "città morte", insediamenti bizantini abbandonati per l’espansione dell’Islam; da una parte i resti di una villa con portico del III secolo d.C. e dall’altra i resti di una piccola chiesa cristiana, la più antica della zona risalente al IV secolo, nella quale possiamo individuare la sala unica, due porte con architrave scolpito, un ambone rialzato a ferro di cavallo e un arco trionfale. Tutto sembra in miniatura in questo "paese", con vicoli non più grandi di corridoi ma delimitati da pareti eseguite con una tecnica muraria di primordine che manda in visibilio il nostro tour leader, che fotografa come un forsennato particolari architettonici (unica deviazione che si è concesso in tutto il viaggio, insieme con l’alba a Palmyra, alle rituali foto di gruppo) con la scusa che gli ricordano le stupende murature incaiche di Ollantaytambo e la pietra dei "dodici angoli" di Cuzco. Agguanta anzi un ragazzino e si fa accompagnare nella ricerca, per fotografarli, di tutti i simboli esoterici cristiani scolpiti nei punti più impensati, croci di Malta, croci latine e greche…

Noto una cosa assai curiosa, che in queste pietraie si sfrutta ogni palmo di terra da coltivo, infatti all’interno di ogni ambiente (mentre le murature sono rimaste intatte, i tetti lignei sono ovviamente stati i primi a scomparire) nella poca terra rossastra che si è concentrata all’interno dei ruderi, ordinati filari di pianticelle di tabacco, hanno proprio l’aria d’essere pazientemente innaffiate a cucchiaiate con l’acqua delle antiche cisterne, che svolgono ancora dignitosamente una loro funzione.

Recuperato il Pietrone, e risaliti sul pullman, cento metri di ripida discesa a fiato sospeso e altrettanti di salita, per superare un arido valloncello, ed eccoci a Qalb Lozeh, città "morta" nei monumenti ma oggi villaggio ben vivo, abitato da una piccola comunità drusa, inspiegabile enclave, vista la lontananza dai territori etnici di competenza da noi incontrati giorni addietro, appena entrati in Syria, a sud di Damasco nella zona di Bosra e Suweida. Attraversiamo in fatti il villaggio, accolti da decine di bambini che sventolano piccoli cenci bianchi da loro stessi ricamati, le bambine, con semplici disegni colorati di cavalli e di altri animali. Un po’ distratto da questa calorosa accoglienza non mi aspetto certo di vedere quello che mi si presenterà davanti alla fine del villaggio: una bella basilica cristiana a tre navate, costruita alla fine del V secolo utilizzando blocchi di pietra di un caldo giallo ocra. Ormai è priva di copertura e di pavimentazione, ma per tutto il resto è ancora capace di suscitare emozioni con le sue pareti alleggerite da porte e finestre sormontate da archi a tutto sesto, con le sue due torri quadrate che fiancheggiano la facciata e con una deliziosa abside semicircolare ingentilita da tre finestre. E l’abside è ancora oggi coperta da una semicupola, realizzata con gli stessi blocchi della chiesa, che termina con un elegante cornicione interamente scolpito con fasce ornamentali.

Comincio ora a capire e a condividere la riflessione anticipatami da Pietrone circa le vere origini del nostro romanico.

Prima di lasciare Qalb Lozeh veniamo ospitati nella modesta abitazione di una famiglia drusa dove, tutti seduti per terra su stuoie che ritengo sia il loro letto per la notte, ci beviamo l’ormai consueto e bollente bicchiere di tè. Una delle bimbe di casa, bionda con gli occhi azzurri, ci mostra il suo cencio ricamato con un cavallo; il ricamo non è granchè, ma la bimba ha uno sguardo così dolce… eppoi si chiama Sabrina, come la "fatina" dei nostri voli aerei, la grande amica IHV: Pietrone non può allora esimersi dal fotografarla col suo lavoro, che immancabilmente "acquisterà" per portarlo, con valore propiziatorio, alla nostra Sabrina, che tanto avrebbe voluto essere con noi a "riscoprire" questi magici luoghi paleocristiani e bizantini.

Di nuovo in pullman diretti, attraverso colline di olivi, verso la chicca della giornata, il santuario di Qalaat Sim’an, fatto costruire verso la fine del V secolo dall’imperatore Zenone intorno ai resti della colonna, luogo del martirio di San Simeone lo stilita. Belal ci racconta la storia di questo santo: nato in Siria da famiglia cristiana nel 389, dopo alcuni anni vissuti come monaco in vari monasteri dà inizio a pratiche autolesionistiche accompagnate da predicazioni alla folla; gli ultimi trent’anni della sua vita li trascorse infine ritirato a pregare in cima a questa colonna, dalla quale due volte al giorno predicava alla folla che accorreva numerosissima dai paesi vicini, inaugurando così la folta dinastia degli anacoreti "stiliti".

Prima della visita, breve sosta ristoratrice: come al solito c’è chi si accontenta di un panino proletario, oggi accompagnato da patatine fritte usate come cucchiaino per gustare la solita squisita crema di ceci, e chi , come Belal, l’autista e….Pietrone - sì proprio lui, lui quello che aveva detto e scritto: "a mezzogiorno non si mangia perché si perde tempo e poi ci si appesantisce" - si butta su una specialità del luogo, un ricco piatto di arrosti misti, il "lahmme bel sahon", come sentenzia la guida.

In pochi minuti poi raggiungiamo il sito di Qalaat Sim’an. Cominciamo la visita dal battistero che nella forma ricorda pienamente quelli di Parma, Pisa e Firenze e da qui vediamo a circa trecento metri di distanza in mezzo ad un pianoro, una imponente costruzione, come al solito ormai priva dell’originale copertura lignea, costituita da quattro basiliche a tre navate che, in direzione dei quattro punti cardinali, partono da una cappella ottagonale al cui centro è visibile quello che resta della famosa colonna del martirio di San Simeone.

Mentre gli altri si attardano a fare foto di gruppo, io approfitto della assoluta mancanza di visitatori per entrare da solo nel complesso: e dopo qualche minuto mi accorgo stupito che sto scattando foto a ripetizione, attratto dalla perfezione di quegli archi a tutto sesto, affascinato dalle finestre che si aprono su un cielo azzurro e incantato da una serie infinita di linee di fuga e di scorci prospettici.

Se ce ne fosse stato bisogno ho trovato qui la conferma della interessante riflessione di Pietrone sulle origini delle nostre chiese romaniche. Qui, ben settecento anni prima, portando avanti l’esperienza degli architetti romani, si costruivano già chiese che anticipavano lo stile e la struttura delle nostre prime chiese romaniche; addirittura le pareti di queste chiese orientali mi appaiono molto più aeree, ricche come sono di grandi porte e finestre, rispetto alle pareti pressoché piene che, per evidenti problemi di staticità, siamo abituati a trovare nelle chiese romaniche occidentali. Altro interessante elemento dinamico il tipico "capitello siriaco" che, come ci fa notare Pietrone, è nient’altro che un normale capitello corinzio investito da una folata di vento, sicchè le foglie d’acanto sono percorse da un fremito che determina una particolare animazione e intensità espressiva in un elemento architettonico che siamo usi considerare solo nella sua "grave" funzione statica.

Una sola cosa in questo complesso risulta non del tutto allineata: l’asse longitudinale della basilica estesa verso oriente è leggermente spostato, cioè non perfettamente perpendicolare rispetto a quello delle altre tre basiliche. Belal ci racconta che circolano tre ipotesi sul motivo di questa leggera deviazione: o si è trattato di un errore, oppure si è voluto allineare l’asse con la testa inclinata di Gesù sulla croce, oppure, e questa è la più accreditata, si è voluto far coincidere l’asse con il punto di levata del sole nel giorno dell’equinozio di primavera.

Per l’ultima visita della giornata risaliamo in pullman e costeggiamo la verdissima vallata del fiume Ifreen, caratterizzata da coltivazioni di campi di grano, da olivi e da filari di alberi di melograno nel pieno della loro rossa fioritura. Lasciamo la strada principale diretta a Ifreen e, salendo a piedi per una strada sterrata che gira intorno una piccola collinetta dominante la campagna circostante, raggiungiamo sulla cima il sito archeologico di Ayn Dara. Troviamo sulla cima, in estatica attesa, Pietrone che attardatosi ad armeggiare con gli usuali suoi problemi idraulici, ha pensato bene, per ricuperare, di tagliare sulla direttissima di pendio.

Un misterioso leone in pietra basaltica nera a grana fine sembra stare a guardia dei resti di un tempio dedicato alla dea Ishtar risalente al periodo della dominazione neo-ittita avvenuta intorno all’XI secolo a.C. Il tempio, del quale rimangono solo poco più delle fondamenta dei muri perimetrali, è arricchito da alcune statue e bassorilievi sempre in basalto nero raffiguranti sfingi alate e leoni. Due gigantesche orme di piedi nudi sono impresse sullo scalino che introduceva all’interno del tempio a dimostrazione, si dice, dell’avvenuto ingresso della divinità.

Infine sazi e soddisfatti dell’odierno bagno di antiche civiltà, ci rilassiamo qualche minuto con l’immancabile bicchiere di tè offertoci dal guardiano del sito e ripartiamo alla volta di Aleppo.

Cambiamo albergo (quello della notte scorsa è stato un ripiego, ci spiega Pietrone, introdotto all’ultimo momento quando abbiamo aggiunto un giorno in più ad Aleppo) e ci sistemiamo all’Hotel Tourism, un discreto tre stelle situato in pieno centro dove – finalmente domani non dovremo richiudere le valigie! - alloggeremo per ben due notti!

Classica cena nella sala dell’albergo situata al settimo piano con veduta sulla Aleppo notturna, e poi rilassante breve passeggiata nelle strade circostanti. Nonostante l’ora notturna molti negozi sono ancora aperti e lo sono in modo particolare – forse è il quartiere – i numerosi negozi di scarpe che stranamente espongono e vendono solo ed esclusivamente scarpe per uomo: Alfieri che, incuriosito, entra in un negozio per domandare dove poter acquistare scarpe per sua moglie, viene addirittura invitato ad andare in un altro quartiere della città.

ALEPPO

 

Oggi, lunedì, giornata interamente dedicata alla visita di Aleppo, seconda città della Siria con i suoi 1,6 milioni di abitanti. Un sintetico panorama storico della città si renderebbe necessario per capire in quale miscuglio di civiltà e di etnie ci troviamo. Ma, senza entrare in dettagli, sarà comunque sufficiente elencare i nomi dei dominatori più importanti succedutisi in questa città a partire dal XVIII secolo a.C.: stato di Yamkhad, Hittiti, Aramei, Assiri, Neobabilonesi, Achemenidi, Macedoni di Alessandro Magno, Seleucidi, Romani, Bizantini, Persiani, Arabi, Turchi, Selgiuchidi, di nuovo califfati arabi, Mongoli, Mamelucchi, Ottomani, protettorati europei e infine il ritorno all’indipendenza.

Le prime due ore della mattinata sono dedicate alla visita del Museo Archeologico dove abbiamo modo, grazie anche alle competenti e appassionate spiegazioni di Belal, di approfondire la conoscenza delle forme artistiche delle diverse civiltà viste sino ora sul campo e che ora ritroviamo ben disposte in diverse bacheche sui due piani del museo. Non è certamente il caso di elencare tutto il materiale esposto e quindi mi limito a ricordare i pezzi che più mi hanno colpito, associandoli alle relative civiltà: Mari, con la statua in pietra del re Lamgi che ha consentito l’identificazione del sito e alcune tavolette cuneiformi; Tell Brak, con curiosi idoli stilizzati in alabastro caratterizzati da occhi grandissimi; Ebla con un bel pannello contenente alcune figure di dignitari in processione in legno e frammenti calcarei posti su fondo scuro, che mi ricordano quelle del famoso stendardo di Ur rinvenuto appunto nelle tombe reali di Ur in Iraq e risalente alla prima metà del III millennio.

Dal museo ci trasferiamo all’ingresso della famosa Cittadella, costruita su una collinetta alta 55 metri che domina e caratterizza tutta la città. Pur facendo risalire l’occupazione di questa collina all’antico regno di Yamkhad, la prima vera fortificazione del sito è attribuita ai seleucidi.

L’ingresso alla Cittadella è veramente maestoso: un grosso ponte con otto arcate attraversa il largo fossato che circonda la collina e collega la torre rettangolare sulla strada alla grande porta monumentale detta dei leoni. Questa porta era originariamente fiancheggiata da due torri poi unite da un’arcata sino a formare un imponente edificio che ospita tuttora la sala del trono. Un successivo corridoio a zigzag che porta all’interno della Cittadella, rendeva ancora più sicura la fortezza da eventuali attacchi e ingressi indesiderati.

Percorrendo la piccole strada in salita che porta fino alla parte più alta della collina, osserviamo la moschea fondata nel 1214 con cortile porticato, gli stupendi bagni illuminati dalle cupolette traforate, e poi dal cammino di ronda ci godiamo un bel panorama monocromo della città: se si escludono due cupole verdi di una moschea, tutto il resto è color sabbia.

Il cammino di ritorno ci porta all’interno della magnifica sala del trono con soffitto ligneo ricco di arabeschi colorati recentemente restaurati e da qui scendiamo direttamente alla porta dei leoni.

All’uscita Pietrone incontra il "solito" (dice lui) vecchio arabo che vende le tipiche, bianche, papaline musulmane lavorate ad uncinetto, e, come se la stesse cercando da tempo, (pare che a casa ne abbia di un’intera collezione che usa giornalmente nel suo look casalingo) ne acquista una e se la mette in testa: da quel momento non sembrerà più un turista occidentale ma un vero arabo siriano. Il suo esempio viene imitato dalle nostre gentili signore, con Grazia e Sandra in testa.

Proseguiamo la visita di Aleppo facendo una breve puntatina in un suq coperto, poi ci addentriamo nella città vecchia e, passando attraverso il labirinto di vicoli e vicoletti che costituiscono il quartiere armeno, raggiungiamo il ristorante tipico dove, infrangendo, questa volta tutti, la regola del digiuno di mezzodi, abbiamo deciso di approfondire la nostra conoscenza della cultura gastronomica locale.

Mangiamo ad un tavolo situato in un cortile all’aperto di una tipica casa araba della media borghesia: solita presentazione di zuppierine con la conferma della immancabile crema di ceci ormai consacrata must culinario del viaggio e con alcune gradite novità. Tra queste, una pietanza ci colpisce in modo particolare, con il suo delicatissimo sapore che accompagna un misto di legumi. Ognuno di noi si cimenterà nel tentare di scoprire l’ingrediente base di quel condimento, ma solo Rosa, laureandosi così esperta culinaria del gruppo, darà la risposta esatta: si tratta di un condimento a base di melograno. E chi ci avrebbe pensato! Il pranzo prosegue in piena allegria ma senza ulteriori particolari novità: comunque ognuno di noi fa la sua figura tanto da far esclamare al tour leader la frase che ci accompagnerà per il resto del viaggio:" Mi sembra di guidare un gruppo di pensionati anoressici!".

Dopo pranzo scendiamo nelle interessantissime "catacombe" del ristorante: salette, bar, piccoli separè su più livelli, collegati da piccole scale e corridoi; Belal ci spiega, in risposta a Pietrone che aveva visto le stesse cose in un altro ristorante, che sotto il quartiere armeno c’è tutta una città sotterranea formata da queste cantine su molti livelli, che anticamente erano tutte collegate fra loro con passaggi segreti e cunicoli, città che gradualmente viene oggi ricuperata appunto per fini turistici e residenziali. Facciamo anche un salto a vedere le camere dell’hotel annesso al ristorante per eventuali consigli a nostri amici circa il soggiorno in Aleppo. La "sistemazione", in splendide camerette in stile armeno, si rivelerà incantevole.

Dopo pranzo continuiamo il passeggio nel dedalo di viuzze coperte che costituiscono il suq di Aleppo, forse il più grande del medioriente e, di certo una delle attrattive più interessanti della città a cui è d’obbligo dedicare almeno un paio d’ore. Visitiamo al suo interno anche la Grande Moschea purtroppo in fase di ristrutturazione. Dopo il solito vasto cortile entriamo all’interno e qui assistiamo a strazianti scene di fanatismo religioso rivolte verso una vetrata verde con l’interno illuminato, dietro alla quale sembra sia conservata la testa di Zaccaria padre del Battista. Proseguiamo con la visita del maristan Arghun, una casa privata del XIV secolo, trasformata in ospedale per malati di mente, rimasto funzionante sino all’inizio del nostro secolo. L’ingresso con un bel portale conduce, attraverso un vestibolo, ad un cortile principale rettangolare con fontana dove i malati venivano placati al suono della musica. Poi attraverso una serie di stretti e oscuri corridoi si visitano tre piccoli complessi ognuno dei quali formato da una serie di camerette o meglio celle che si aprivano tutte intorno ad una piccola corte centrale. Ogni complesso in pratica era un reparto ospedaliero nel quale venivano rinchiusi i malati di mente suddivisi in base alla gravità della loro pazzia. L’impressione è abbastanza angosciante, oltre che per l’utilizzo a cui era destinato l’edificio, anche per un senso di oppressione, di chiuso, di prigione che vi si respira.

Prima di uscire il custode della "clinica" ci offre un bicchiere di tè che ci beviamo seduti nel cortile di ingresso.

Veloce ritorno in albergo per prepararsi a quella che , fuori programma, si rivelerà la chicca della giornata: una visita all’hammam – e guai a chiamarlo bagno turco in Siria, per il noto rancore nutrito dai siriani verso i turchi per motivi storici e politici.

E abbiamo la fortuna di vivere questa simpatica esperienza proprio nel bagno pubblico considerato il più bello dell’intera Siria, da quando la catena dei Cham Palace l’ha ricuperato restaurandolo e mettendolo in funzione proprio com’era nell’Ottocento, l’hammmam Labbadiye situato nei pressi della cittadella. Entriamo tutti insieme in una larga sala quadrata che funge da spogliatoio, attrezzata con una decina di piccoli salottini rialzati che corrono lungo tutte le parete. Da una parte andiamo noi uomini e dall’altra le donne. Ci spogliamo coprendoci poi con un asciugamano di spugna bianca e, zoccolando, ci dirigiamo verso le stanze interne: prima il frigidarium, poi il tepidarium, poi ancora il calidarium mentre la temperatura si fa sempre più alta e infine, senza asciugamano entriamo, chinando la testa, attraverso una porticina in una piccola stanzetta dove seduti su gradoni in pietra addossati al muro veniamo investiti e poi avvolti da una piacevolissima nube di vapore. La sensazione di caldo umido accompagnata da un senso di leggero stordimento è forte; Pietrone si sdraia e temiamo che, come al solito, possa addormentarsi.

Poi dopo una decina di minuti di sauna, a coppia ci dirigiamo nella stanza dei massaggi dove due energumeni ci prendono e ci massaggiano vigorosamente, poi con un guanto di crine ci insaponano ruvidamente e infine ci sciacquano con violenti getti di acqua caldissima. Proprio nel momento centrale delle sevizie passano le nostre donne che non possono trattenersi dallo sganasciarsi per i maltrattamenti in corso. Poi ci racconteranno che, nel loro caso, le due massaggiatrici donne, fatte venire apposta per loro, addirittura si sono denudate prima di salire loro cavalcioni dove, mentre le manipolavano, quasi le soffocavano con l’abbraccio del loro materno straripante seno… Noi intanto, belli confezionati dai nostri seviziatori, con asciugamano a perizoma, altro sulle spalle, e un terzo in testa a mo’ di turbante, ce ne siamo tornati ai canapè del "tepidarium" dove, in attesa delle nostre donne, aiutati da un bollente e opportuno bicchiere di tè, sarà bellissimo lasciarsi andare e magari anche pensare che tutto sommato certe cose inventate dagli arabi non sono proprio niente male.

Quindi puliti, massaggiati e rilassati torniamo in albergo per la cena e una buona e ben meritata dormita. Domani ennesima sveglia temprana (triade oraria comunicata dal capo gruppo: 6,30 – 7,00 e 7,30 che stava a significare rispettivamente e rigorosamente, l’ora per la sveglia, la colazione e la partenza) per il proseguimento del giro verso oriente alla scoperta dell’Eufrate e delle sue città morte.

IL MITICO EUFRATE E LE SUE CITTA’ MORTE

Al mattino, prima di lasciare l’albergo, saluto il simpatico lustrascarpe che cura la sua misera postazione sul marciapiede proprio a fianco dell’ingresso. Un ragazzino dagli incredibili occhi neri che sprizzano un’allegria senza limiti; batte le mani a manifestare la sua allegrezza, contento di avere nulla, se non un panchetto di legno, un bussolo di latta, alcuni barattoli di ceretta e una spazzola nera che struscia sulle mani smanioso di usarla sulle scarpe di qualche cliente. Non posso accontentarlo perché i miei sandali non sono "lustrabili" ma la sua immagine sarà una di quelle che porterò dietro per lungo tempo.

E poi, dopo un attimo di suspense per la temuta sparizione della minuscola macchina fotografica di Giorgio che viene invece subito regolarmente ritrovata all’interno della valigia della sua Sandra, lasciamo Aleppo.

Finita la città con le sue moschee e le solite immancabili statue di Assad che troneggiano dal centro di ogni rotatoria, entriamo nella campagna che oggi si presenta finalmente ingentilita da villaggi fatti di piccole casette costruite in fango dello stesso colore del paesaggio, con un piacevole risultato di armonia e di naturalezza. Di nuovo gruppi di contadini al lavoro nei campi, sempre più greggi guidati da bambini, asinelli carichi fino all’inverosimile, uomini e donne incredibilmente fasciati dai loro vestiti colorati che se ne stanno placidamente seduti all’ombra di muretti di fango.

Dopo una ottantina di chilometri facciamo una breve sosta al grande mercato all’aperto lungo la strada nei pressi della cittadina di Maskaneh. Ci sono centinaia di venditori disposti in file che espongono le loro svariate mercanzie per terra, tra un vivace movimento di compratori locali. Approfitto di queste gustose scene per impressionare un po’ di pellicola: distese di padelloni e casseruole in lucente alluminio, pile di grossi pani di sapone di Aleppo, una fila di uomini seduti dietro vecchie macchine da cucire con le quali riparano scarpe, vecchi uomini con la testa fasciata dall’immancabile khefiah bianco o rosso, mamme che sollevano soddisfatte il loro bambino di fronte al mio obbiettivo, venditori di bicchieri d’acqua potabile, banchetti che friggono polpette e biscotti. Resisto alla pressante offerta di un ragazzino che vuole ad ogni costo vendermi dei pulcini e, seppur a malincuore per le tante foto mancate, lascio il mercato e risalgo sul pullman. Pietrone rientra sul pullman avendo acquistato, per non aver saputo dir di no, addirittura un biglietto della lotteria…

Proseguiamo attraverso una territorio che si fa sempre più desertico e sassoso, sino ad incontrare il lago Assad, un immenso lago artificiale creato con le acque dell’Eufrate. Quindi per raggiungere il sito di Qalaat Ja’abar, la più antica cittadella islamica della Siria risalente al 657, attraversiamo il lago sulla diga, costruita in terra alla maniera russa come quella del lago Nasser sul Nilo, e vediamo a destra giù in basso ripartire le acque nuovamente tornate ad essere fiume Eufrate. Qui, su suggerimento di Belal, ci rendiamo conto che siamo in Mesopotamia, nella mitica Terra tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, che ognuno di noi ricorda sin dai tempi dei primi studi scolastici.

La cittadella di Qaalat Ja’abar, conosciuta anche per essere stata utilizzata da Nur ed-Din come prigione per i crociati, si presenta da lontano in tutta la sua imponenza, con ancora ben conservati i bastioni della possente cinta muraria, un tempo intervallata da ben 35 torri poligonali, anche se, una volta superata la rampa di accesso, si presenta all’interno con la solita distesa di rovine, su cui spicca isolato uno zoppicante minareto cilindrico alto 27 metri, che Belal si affretta a dirci non originario della cittadella ma ricuperato da una località che l’avrebbe visto finire sommerso dalle acque. Molto suggestiva è la veduta dall’alto, con le acque azzurre del lago che contrastano magnificamente il giallo ocra chiaro dei resti del castello.

E tanto per cambiare, prima di riprendere la strada, ci beviamo qualche bicchiere di tè. E sarà proprio questo tè, bevuto in abbondanza e in modo particolare dal nostro grande Pietrone, a far aumentare la frequenza di richieste di pipì-stop durante i tragitti in pullman.

Tornati sulla riva destra dell’Eufrate, ma non prima d’una sosta a fotografare le case di fango (ed i soliti bimbi accorsi a frotte), riprendiamo la strada, che ormai costeggerà il fiume fino a Mari, proseguendo il nostro trasferimento verso oriente. Poi finalmente, alle ore tredici esatte di una giornata senza ombra di nuvola in cielo, nella perfetta canicola d’un sole a perpendicolo, dopo aver abbandonato la strada principale ed esserci inoltratati verso sud in pieno deserto siriano, ci fermiamo per iniziare la visita alla suggestiva città morta di Resafah. Meno male che il clima è secco, ma Luigi controlla sul suo termometro da polso e senza voce ci dice: siamo a 43 gradi! Ma noi non ci facciamo impressionare per così poco e stoicamente iniziamo la visita.

Resafah si trovava sull’antica via carovaniera che univa l’Eufrate a Palmyra, ma la sua importanza cominciò quando Sergio, comandante delle truppe romane e anche vittima delle persecuzione anticristiana, vi venne sepolto. Da quel momento la città divenne meta di pellegrinaggio attorno alla tomba di Sergio tanto da venir considerata città santa con il nome di Sergiopolis. Il solito succedersi di dominazioni che ormai è inutile ripetere, fintanto che, con l’avvento della dinastia Abbaside, Resafah cominciò a veder diminuire la sua importanza fino a sparire completamente con l’arrivo dei conquistatori mongoli.

Tutti gli edifici della città, nonché le porte e parte delle mura, sono costruiti con blocchi di pietra di gesso cristallino dalla calda tonalità giallo/ocra/rosa, che secondo l’angolazione dei raggi solari si illumina di riflessi dorati tanto da farle meritare il nome di "Perla del deserto". E si capisce anche perché antichi narratori abassidi e persiani possano lasciarsi andare talvolta nei loro racconti a parlare di città "dalle mura di cristallo"…

Oggi quel che resta di Resafah dà veramente l’idea della città morta: una cinta muraria rettangolare di 500 x 400 metri ancora intera sembra spuntare in mezzo ad una piana desertica senza ostacoli visibili nel giro d’orizzonte a 360°. All’interno, passando attraverso la porta Nord, tuttora in buono stato con il suo elegante ordine corinzio finemente lavorato, ci troviamo in una grandissima area apparentemente vuota, anche se dopo un po’ cominciamo a riconoscere in lontananza consistenti resti di strutture ancora in piedi in mezzo a centinaia di collinette di detriti tuttora da scavare e da esaminare. In alcuni punti del lato interno delle mura è ancora visibile il portico colonnato che correva lungo tutto il perimetro per quasi due chilometri.

Il sole è alto, fa un caldo tremendo, ma l’attrazione è forte. E allora noncuranti del sole anche se tutti rigorosamente muniti di cappello, percorriamo l’area desertica all’interno della città e arriviamo alle cisterne monumentali, due grandiose navate ipogee alte venti metri e coperte da imponenti volte a botte in pietra squadrata: tutti noi ci limitiamo a vederle dall’alto attraverso un apertura nel terreno senza che nessuno provi ad imitare il nostro stoico tour leader che, infaticabile, si cala fin giù sul fondo all’interno, lungo un buio cunicolo, per poterci fare, dal basso, una delle sue foto di gruppo.

Proseguiamo, tra resti di abitazioni e di negozi, verso quel che resta della Cattedrale della Santa Croce risalente al V secolo d.C.: e qui vediamo i due muri che dividevano la navata centrale da quelle laterali, nati su tre sole ardite arcate e poi invece, per problemi di staticità, corretti con l’inserimento, all’interno di ogni arcata, di due archi più piccoli sorretti da tre colonne. Una stupenda abside ancora in buono stato chiude la basilica verso oriente.

Alle due e mezzo terminiamo la visita e finalmente, con il nostro pullman – che mai come oggi ringraziamo di essere dotato di aria condizionata e acqua fresca a bordo - ci dirigiamo verso una meta non proprio artistica ma pur sempre culturale: un pranzo a base di pesce dell’Eufrate che concretizziamo nella cittadina di Ar Raqqa.

Dopo l’ennesima performance del gruppo di pensionati anoressici, alle cinque del pomeriggio riprendiamo la strada che costeggia il fiume: l’inevitabile abbioccamento mi consente appena di intravedere campi di grano, filari di olivi, rive coperte da fitti canneti e un gradevolissimo colore azzurro elle acque dell’Eufrate.

La distanza che separa Ar Raqqa dalla meta finale della giornata, la cittadina di Deir-ez-Zor, è di circa 140 chilometri. Il tragitto è opportunamente interrotto poco oltre la metà con una sosta lungo la strada per l’immancabile pipì-stop e soprattutto per visitare i resti della città fortificata di Halabiya.

Fondata dalla regina palmirena Zenobia nel III secolo d. C. per difendere i confini orientali del suo regno e per controllare il traffico fluviale, Halabiya è costruita su una collina che si eleva sulla riva destra dell’Eufrate. Oggi rimane una possente cinta muraria triangolare in calcite che conserva all’interno dell’ampia area i resti della strada monumentale, delle terme, del Foro e di una chiesa. Forse niente di particolarmente nuovo per chi, come noi, ha già veduto nella stessa giornata siti come Qaalat Ja’bar e Resafah, ma resta comunque indimenticabile la veduta che, dopo una faticosa salita, e dopo aver sorpreso una grossa volpe prontamente dileguata nel deserto, possiamo godere dall’alto delle mura: sotto di noi l’Eufrate, con le sue placidissime acque azzurre, si snoda sinuoso in mezzo a campi coltivati.

Poco lontano, sull’altra sponda, si vedono i pochi resti dell’altra cittadina fortificata, Zalabiya, che completava degnamente il sistema di controllo dei traffici fluviali e terreni attuato dalla potente Zenobia della quale sentiremo parlare domani – e da quale oratore! - mentre ci avvicineremo a Palmyra.

Prima di risalire sul pullman, quasi a rendere più concreto un sogno giovanile, scendo sulla bassa riva del fiume e immergo le mani nelle acque dell’Eufrate.

Arriviamo a Deir-ez-Zor quando ormai è buio e, passati davanti al Cham Palace a noi destinato prima che facessimo il cambio con quello di Bosra, come ci ricorda il tour leader, ci sistemiamo in un simpatico albergo, il Waha Hotel, costituito da piccoli cottages in legno situati in mezzo ad un giardino ben tenuto. Anche il welcome-drink (sopr'a tutto per la graziosa hostess che ci riceve sorridente) è niente male.

Doccia rilassante, sterminio di zanzare in camera, cena tipica, passeggiata nel giardino (o partita a Whist per gl’incalliti, con whisky digestivo) e poi tutti a letto.

VERSO L’IRAQ: MARI

Alle sette di mattina di mercoledì 24 maggio siamo già tutti sul pullman. Ultimi ad arrivare, come al solito, Alberto e Ornella; ma comunque sempre in orario. Questa puntualità del gruppo verrà pubblicamente elogiata dal nostro tour leader.

Lasciamo l’albergo situato alla periferia della città, attraversiamo l’Eufrate tornando sulla riva destra e riprendiamo la strada verso sud est. Breve sosta alla fortezza araba di Qaalat Ar Rah’beh che dall’alto di una collinetta domina la strada. L’immancabile salita per vederne da vicino le due cinte di mura in mattoni serve solo da allenamento e da preparazione alle altre visite della giornata. Nella pianura desertica ai piedi della fortezza c’è un accampamento di nomadi dove, incredibilmente parcheggiata nei pressi di una tenda, sta una coloratissima, quanto obsoleta, Cadillac.

Prima di arrivare a Doura Europhos viene richiesta una sosta. Ci fermiamo nella piccola e moderna cittadina di Al’Ashara per acquisti di frutta e bicchiere di tè. Insieme ad Ornella approfitto dell’invito di una mamma che mi ha chiesto una foto del suo bambino, per entrare a vedere l’interno di una abitazione di recente costruzione. Saliamo al primo piano: al termine della scala, in una specie di ingresso comune, si aprono le porte di alcune grandi stanze scarsamente arredate ma con il pavimento pieno di stuoie e di tappeti, in ognuna delle quali sembra vivere una famiglia. Siamo di mattina e gli uomini sono evidentemente al lavoro: ora ci sono solo donne e tanti, tanti bambini. Dovrei approfittare dell’occasione per fare qualche bella foto, ma l’accoglienza è talmente calorosa che, per la solita maledetta fretta, i risultati saranno poi veramente deludenti.

Una gentile signora ci fa capire a gesti che vorrebbe offrirci una focaccia di pane: senza badare ai nostri complimenti, tira fuori da un armadietto tre panetti di farina e si accinge a metterli a cuocere su una piastra di ferro. Le facciamo capire che non abbiamo il tempo di aspettarne la cottura e ringraziandola, usciamo seguiti da uno stuolo di bambini. Mentre ci ricongiungiamo con gli altri che stavano seduti ai tavolini proprio lì sotto, improvvisamente mi fanno cenno che qualcuno mi sta chiamando; alzo lo sguardo e vedo la gentile signora che dal terrazzo mi chiede di parare la mani perché mi sta per gettare le tre caldissime focacce di pane arabo cotte nel mentre noi scendevamo le scale! Finalmente abbiamo l’opportunità di assaggiare il vero pane arabo e non quello che, in ogni ristorante, ci viene servito inevitabilmente confezionato in tremende buste di plastica trasparenti. Ora invece sfornato e mangiato, ancora caldo e fragrante. Ottimo.

Dopo pochi chilometri, sempre lungo l’Eufrate, ci fermiamo per il secondo stop culturale della giornata: la città morta di Doura Europhos.

Fondata nel 300 a.C. da Nicatore, governatore seleucida, sorge su un pianoro direttamente a picco sull’Eufrate, delimitato a nord e a sud da due wadi. Lo scopo della città, che era quello di proteggere l’impero da invasioni dalla Mesopotamia, venne mantenuto solo fino al 114 a.C. quando Dura venne conquistata dai Parti che vi dominarono fino al 165 d.C. Durante il loro dominio Doura divenne tappa importante del traffico carovaniero e visse il suo periodo più florido. Poi nel 165 venne conquistata dai romani e incorporata nella provincia siriana. Perse di importanza fino a diventare un vero e proprio accampamento militare con conseguente decadenza del commercio. Infine nel 256 fu conquistata e distrutta dai Sassanidi per esser poi definitivamente abbandonata.

Fu però durante il periodo trascorso come colonia romana che Doura assunse quell’aspetto di cosmopolitismo religioso che la fa distinguere dalle altre città morte siriane. E ancora oggi, camminando al seguito del puntiglioso Belal nell’ampia area all’interno della cinta muraria, la più lunga della Siria con i suoi 3.175 metri, possiamo renderci conto della eccezionale tolleranza religiosa che doveva esistere in questa città, raffinata capitale dei culti esoterici e delle molte misteriosofie che si accompagnano alla decadenza dell’Impero Romano. Di volta in volta ci troviamo di fronte a resti di chiese Seleucidi (santuario di Artemide, santuario di Zeus) poi riutilizzate per divinità Mesopotamiche (rispettivamente Nanaya e Gad), chiese Palmirene (santuario di Bel, santuario dei Gaddé), edifici dedicati al culto di divinità di Dura (santuario di Atargatis, santuario di Aphlad), un mitreo romano (il mitraismo nel III secolo era una delle religioni dominanti nell’impero Romano prima di venire sostituito dal cristianesimo), una chiesa cristiana e infine una sinagoga ebraica. In questa sinagoga, grazie all’interramento a scopo difensivo eseguito nel 256 che ne ha consentito una buona conservazione, è stato rinvenuto uno stupendo ciclo di affreschi che avremo modo di vedere tra qualche giorno al museo archeologico di Damasco.

Insieme a Pietrone e ad Alberto completo la visita della città arrivando sino al bastione che si affaccia a picco sul fiume, da dove ci godiamo il consueto, ma sempre bello e suggestivo, panorama sull’Eufrate e sulla Mesopotamia.

Di nuovo in pullman per raggiungere il punto più orientale del nostro viaggio. Infatti, dopo una trentina di chilometri arriviamo a Mari, oggi Tell Hariri, situata ad appena dieci chilometri dal confine iracheno. Come prevedibile, Mari è una di quelle mete di ogni viaggio che hanno più un significato simbolico e "culturale" che turistico, nel senso cioè che fa piacere arrivarci, così solo per fantasticare e per concretizzare quanto abbiamo letto e sentito dire intorno ad essa. In fatti gli unici turisti che incontriamo sono una coppia di anziani americani che stanno uscendo dalle rovine chiacchierando con la loro guida, proprio mentre noi vi entriamo.

La scoperta archeologica di Mari, risalente appena al 1933, avvenne grazie ad un caso fortuito come è nella migliore delle tradizioni archeologiche e fu subito gestita dai francesi che vi inviarono il prof. André Parrot. Tuttora proseguono gli scavi sotto la direzione di una missione archeologica franco-siriana.

"Lamgi-Mari son io…re…di Mari…il grande.. Issakku.. che offre…la sua statua …a Ishtar.." : questa frase venne letta direttamente dal prof. Parrot decifrando i caratteri cuneiformi incisi sulla spalla destra di una piccola statua appena estratta dalle macerie del tell nel 1934. E questa iscrizione è quella che consentì l’identificazione del sito con la Mari che già sapevano essere esistita grazie ad antichissime iscrizioni Assiro-Babilonesi. Una di queste iscrizioni parlava di Mari addirittura come la decima città fondata dopo il diluvio.

Mari venne fondata nel XXVII secolo a.C. da popolazioni semite, ma resta misterioso il motivo della scelta di questa zona particolarmente desertica e stepposa.

Nella storia di Mari vengono identificati tre periodi. Il primo che va dal XXIII al XXII secolo e che vide Mari come città stato indipendente, ipotesi confermata dai documenti che parlano di rapporti con i re di Ebla. Una seconda fase che va dal XXII al XIX secolo vede Mari come avamposto nordoccidentale dell’impero di Sargon di Accad. E infine una terza fase tra il XIX e la prima metà del XVIII secolo, chiamata fase amorrea, quando Mari è capitale di un esteso regno e prospera grazie alla sua posizione situata alla confluenza delle grandi strade carovaniere tra ovest e est e tra sud e nord.

E’ relativo a questa fase il ritrovamento di migliaia di tavolette cuneiformi che hanno consentito di approfondire le conoscenze su questa città e anche di confermare, tra l’altro, alcuni passi biblici che parlano del viaggio di Abramo da Ur a Haran: il patriarca Abramo sarebbe passato proprio da Mari 645 anni prima dell’esodo degli ebrei dall’Egitto guidati da Mosé; quindi intorno al 1950/1900 a.C..

La sempre maggiore importanza assunta dalla Mari amorrea fini per suscitare paura e gelosia nel grande sovrano babilonese Hammurabi, che nel 1760 al termine di una campagna di guerra la distrusse completamente e definitivamente.

Nel nostro breve percorso tra le rovine di Mari, fortunatamente graziati da alcune nubi che ci proteggono dai raggi del sole, prima saliamo sullo ziggurat, una terrazza cultuale di ispirazione assira, che oggi altro non appare che una collinetta un po’ più alta delle altre. Poi vagabondiamo tra stanze, cortili e celle dissotterrate del palazzo reale presargonico, sulle quali si mescolano i resti del grandioso palazzo risalente al successivo periodo amorreo, identificato con il nome del re Zimri-Lim che regnava all’epoca della tragica distruzione per mano babilonese. Questo palazzo era considerato una delle meraviglie del mondo tanto da far scrivere ad un mercante fenicio proveniente da Ugarit: " Ho visto Mari! ". Bene, e oggi l’abbiamo veduta anche noi!

E proprio in questo palazzo sono stati rinvenuti alcuni affreschi – oggi al Louvre – che sono considerati le pitture policrome più antiche pervenuteci dall’Oriente e che danno una dimostrazione di quanto l’arte di Mari sia stata un compromesso tra la rigidezza formale sumerica e la naturalezza semitica. Della seconda fase, quella della Mari accadica o fase dei governatori, è stato trovato solo il palazzo orientale con perimetro unitario di forma quadrata.

Una provvidenziale tenda montata ai margini del sito, ci accoglie al termine della visita e lì, riparati dalla sua ombra senza prezzo, ci mangiamo i panini proletari annaffiati da bibite fresche o, per i più affezionati alle tradizioni locali, dai soliti, immancabili bollenti bicchieri di tè. Infine un breve riposo, mentre il nomade proprietario della tenda tenta di venderci qualche copia di tavoletta cuneiforme, prima di affrontare il lungo percorso fino a Palmyra dove ci aspetta il "mitico" hotel Zenobia (almeno così dice Pietrone, e visti i risultati fin qui ottenuti non c’è motivo di dubitarne!).

PALMIRA, O MEGLIO TADMOR

Ripercorriamo quindi in senso contrario la strada fino a Deir-ez-Zor dove, tanto per non perdere tempo e occasioni, facciamo una sosta per visitare un piccolo ma interessante museo archeologico di recente apertura, tanto che anche il professore dice di non averlo mai veduto. Vi sono fedelmente ricostruiti certi ambienti per dare un’idea delle varie culture preistoriche presenti nel territorio siriano dal 6.000 a.C. Meritano un particolare ricordo le tavolette dell’archivio di Zimri-Lin rinvenute a Mari, due statue di tori androcefali provenienti dalla città neo-assira di Shadikanni, e alcuni sigilli e relative impronte rinvenute nel Tell Sheikh Hamadain situato in piena Mesopotamia a una cinquantina di chilometri da Deir-ez-Zor .

È un po’ tardi e comincio a temere che non ce la faremo ad arrivare in tempo per il tramonto. Alfieri ed io ci innervosiamo un po’. La sua Leica e la mia Canon scalpitano. Il tramonto a Palmyra è una di quelle cose che un fotografo sogna di poter vedere magari una volta nella vita e quindi solo il pensiero di rischiare di arrivare in ritardo mi fa andare un po’ su di giri. Ma Belal non si scompone. State tranquilli, ci dice, che saremo a Palmyra in tempo per il tramonto del sole. Noi ci guardiamo increduli e scettici: viste le medie di velocità tenute sino ad oggi, sui 50 kmh, non riusciamo a capire come ciò potrà accadere: sono passate da poco le 15 e ci sono ancora circa 230 chilometri che ci separano da Palmyra. E il sole tramonterà, senza proroga, tra le 18 e le 19. Ma Belal ostenta la sua sicurezza e riprende il suo puntuale racconto sulle usanze siriane. Oggi in particolare parla di come l’uomo sceglie la sua donna, di come si svolgono il fidanzamento e il matrimonio, di come è impostata la vita matrimoniale.

Punzecchiato dalle domande tendenziose dei soliti Alfieri e Ornella, che non possono fare a meno di esternare la loro certezza nella superiorità della nostra cultura occidentale, Belal conferma invece la sua ferma convinzione sulla validità di certe usanze islamiche e, nonostante certe evidenze, non vuole ammettere che la loro è una società prettamente maschilista. Ci racconta di sé, che ha 39 anni, laureato, si è sposato da sei anni con una ragazza di sedici anni meno di lui dalla quale ha avuto due belle bambine; sua moglie si veste sempre in maniera tradizionale, con abiti lunghi e il capo rigorosamente coperto ed esce pochissimo da sola.

Mentre ascolto questi discorsi rilevo con piacere che oggi il pullman corre più veloce del solito, aiutato peraltro da una strada diritta che attraversa il deserto e da un traffico pressoché inesistente: ma i rari cartelli stradali continuano ad avvertirmi che Palmyra è ancora lontana. Guardo Alfieri, lui guarda me e scettici guardiamo Belal. Sempre tranquillo e sicuro di sé.

Per allentare la leggera tensione venutasi a creare con questa lotta contro il tempo, taglia corto il sempre puntuale professore e, salendo in cattedra, anzi questa volta al posto del navigatore a fianco dell’autista, prende il microfono e comincia a leggere a voce alta dalla sua "Guida Culturale". Ho dimenticato forse dirvi che Pietrone aveva preparato per noi un interessante fascicolo rilegato di oltre 100 pagine con vecchi articoli, estratti da libri, monografie, schemi storici, letture da viaggio assai utili per calarci nei temi delle civiltà che stavamo percorrendo, oltre ad un secondo fascicolo in 36 pagine con cartine e mappe dettagliate delle località da visitare.

E così mentre il pullman continua imperterrito a macinare chilometri e chilometri di una allucinante strada nel deserto, Pietrone ci incanta senza interruzione per una ventina di minuti con la storia della "sua" grande regina Zenobia, tanto da fargli affermare senza ombra di dubbio:

" Per me, la più grande donna di tutti i tempi! ".

Ci racconta una breve storia di Palmyra, la Tadmor della Bibbia così ribattezzata dai Romani, la città oasi di palme secolari che splendeva nel deserto come un miraggio, racchiusa da un giro di mura lungo venti chilometri. Storia lunga 1.300 anni, partendo da Salomone per arrivare poi ai Romani, passando dagli Assiri, dagli Hittiti, dagli Egizi, dai Persiani, dai Greci e dai Macedoni. Ci racconta del suo equilibrio tra i Romani da una parte e i Persiani o Parti dall’altra e soprattutto della sua posizione di città carovaniera che all’inizio del secondo secolo d.C. raccolse l’eredità di Petra, ormai provincia romana, divenendo il nodo centrale obbligato di tutto il commercio tra l’India, la Persia, l’Arabia e l’estremo oriente con il mondo mediterraneo. Nel 260 il senatore arabo di Palmyra, Settimio Odenato, sposa una fanciulla saracena di straordinaria bellezza, Bath-Zabbai, figlia di uno sceicco e di una donna discendente di Cleopatra. Bath-Zabbai era il suo nome beduino, ma alla storia passerà con il nome romanizzato in Zenobia.

Di fronte alla minaccia di Sapore, re di Persia, che, dopo la sconfitta inflitta all’imperatore romano Valeriano, manifesta l’intenzione di distruggere Palmyra, entra finalmente in ballo lei, la grande Zenobia, e qui lascio la parola a Pietrone.

"…è questo il momento in cui Zenobia, levandosi come la più grande figura di donna guerriera che ricordi la storia, cinge la sua città minacciata di una luce immortale d’epopea. Figlia del generale saraceno, moglie del capo di Palmyra, bellissima, ella trascina col suo prestigio e col suo fascino l’esercito dei beduini, accampato sotto le mura. Si slancia a cavallo dal palazzo, per il Grande Colonnato, e passa in rassegna l’esercito. I cavalieri arabi non avevano mai avuto di fronte un grande esercito disciplinato; bisognava apprender loro quella fermezza, non disgiunta dall’agilità nel manovrare, che si richiede per agire in grandi masse. Mentre istruiva la sua gente, Zenobia rivelava e perfezionava il genio guerriero che la natura le aveva dato".

Questa non è leggenda ma testimonianza addirittura dell’imperatore Aureliano che ebbe occasione di conoscere Zenobia. " Sotto il comando di Zenobia, la cavalleria leggera araba, quella pesante di Palmyra e le fanterie romane armate di corazza compirono in segreto una rapida marcia nel deserto e sorpresero l’esercito persiano sulla riva destra dell’Eufrate….." . In seguito Zenobia sconfisse un generale romano ribelle e Roma, per ringraziarla, nominò suo marito Augusto d'Oriente. Fu questo il periodo del suo massimo splendore: cacciò i Goti dall'Asia minore, sconfisse i Persiani sotto le mura di Ctesifonte e dominò le terre tra l'Armenia e l'Arabia. Disgraziatamente Odenato venne assassinato da un nipote degenere e Zenobia rimase sola, reggente del figlio, ma vera regina e padrona assoluta del suo regno. "Zenobia, sovrana assoluta, possedeva tutto ciò che occorreva per consolidare la sua fortuna e renderla duratura: tutto meno la moderazione. "

Dove voleva arrivare?

" Invase l’Egitto con un corpo di spedizione di 70 mila uomini, disperse le forze secessioniste e potè finalmente salire sul trono della sua antenata, pretesa o reale, Cleopatra, estendendo così il suo impero sopra una metà del mondo civile"

Questa lettura delle gesta di Zenobia ha ormai emotivamente coinvolto tutto il gruppo e Pietrone continua.

"Questa figlia di un capo beduino la quale riuscì a crearsi un Impero che andava dalle montagne del Caucaso ai deserti della Libia, è un esempio unico in tutti i tempi. Nei giorni della sua gloria, che supera quella di Semiramide, Zenobia offerse uno spettacolo fantastico e incantatore. L’elmo in capo, le braccia nude fuor da una veste chiusa con un fermaglio di diamanti, la regina si recava alle assemblee, o marciava a piedi per lunghe tappe coi soldati, sedendo a mensa con gli ufficiali, molti dei quali provenivano dagli eserciti persiani sconfitti. Essa aveva la pelle bruna, gli occhi neri e pieni di fuoco, le labbra tumide, i denti bianchi magnifici, il volto pieno di espressione. La persona era graziosa, la voce chiara e forte: sapeva parlare solenne o familiare, in modo da trascinar l’anima semplice del soldato, o conquistare il più acuto filosofo. Longino, il pensatore neo-platonico affascinato da tanta grazia e potenza d’intelletto, lasciò Atene per Palmyra, ove divenne il primo consigliere della Regina.. E se Longino scrisse il trattato Del Sublime, la migliore opera critica delle letterature antiche (Capisco solo adesso perché Pietrone ce lo ha indicato tra le "letture consigliate da viaggio", nella sua "scheda" sulla Syria!), si può dire che in essa si riflettono il gusto e la larghezza di vedute, dominanti in quella corte magnifica……...poiché morto il marito, l’ambizione di lei non conosceva più limiti: Zenobia aspirava a prendere il posto dei re persiani contro la potenza romana…" e per qualche anno le cose le andarono per il giusto verso tanto da riuscire a sconfiggere per una volta addirittura l’Imperatore romano Gallieno. Ma Roma non poteva sopportare di lasciare impunito un così grande affronto e nel 272, sotto la guida del nuovo imperatore Aureliano, dispose alla battaglia le sue legioni nei pressi di Antiochia. "

" La figlia del capo beduino, preso il comando, lanciò i saraceni a cavallo contro la cavalleria romana, che si disperse. Ma, contro al solito, questa volta subito dietro la cavalleria romana non erano schierate le truppe a piedi: Aureliano le teneva al di là dell’Oronte, e non le fece avanzare se non quando l’impeto delle cariche nemiche si fu esaurito nell’inseguire la cavalleria leggera dei romani. E Zenobia, per troppa fiducia in sé, conobbe la prima sconfitta……con gli avanzi dell’esercito dell’esercito sconfitto si ritirò su Palmyra, dove sostenne un lungo assedio" . Non ancora doma cercò di concludere un’alleanza con la Persia e a tal scopo " lasciato il comando a Zebda, partì di notte su un cammello, attraversò, non vista, il campo nemico, e dopo cinque giorni raggiunse l’Eufrate. Ma mentre si imbarcava per passare il fiume, sopraggiunse al galoppo una pattuglia di cavalleria romana. I compagni di Zenobia si arresero subito. Aureliano tornò a Roma e Zenobia,, avvinta con catene d’oro, fu tratta dietro il carro del trionfatore. Quando seppe che Palmyra era stata rovinata dai vincitori, rifiutò di prendere cibo e morì, si dice, di fame."

Pietrone ha terminato la lettura e, visibilmente soddisfatto delle gesta della "sua" Zenobia, riceve dall’auditorio un meritato applauso. Anche se non ce n’era bisogno il racconto delle gesta di Zenobia ha contribuito in maniera determinante a farci aumentare la voglia di Palmyra.

Un cartello stradale mi avverte che siamo appena a 10 chilometri da questa oasi di palme secolari e sono le 17.30. Alfieri ed io ci guardiamo contenti: la speranza di vedere il sole prima che scompaia dietro le colline di Palmyra si fa ormai più concreta, anzi quasi certa. Piano piano il deserto assoluto comincia a venire meno; si vedono i primi alberi e qualche accampamento di tende bianche, a base quadrata con cupola conica, di nomadi circassi. E finalmente ecco Palmyra. Il sole ha ancora un’ora di vita.

Ma io scalpito e mi inquieto ancora quando capisco che anziché portarci direttamente a vedere il tramonto dal castello arabo situato su una collina a due chilometri da Palmyra, Belal vuole passare prima all’albergo per assegnarci camere e scaricare i bagagli. Cerco di convincerlo, ma non vuole sentire ragioni: potrei avviarmi a piedi, ma la collina è lontana e allora, un po’ arrabbiato e un po’ dispiaciuto per questo disaccordo con Belal, mi adeguo alla sua volontà. Anche perché, visto il risultato, dovrò riconoscere che avrei dovuto avere più fiducia nella sua esperienza dato che alle 18 siamo già tutti e belle sistemati nelle nostre camere, dopo essere stati accolti con il solito "welcome drink", per questa volta (novità unica di tutto il viaggio): aperitivo a base alcolica, probabilmente Arak.

Siamo sistemati nel mitico Hotel Zenobia, un albergo in stile liberty, dall’aria vagamente coloniale e legionaria, situato proprio a fianco dell’area archeologica, a ridosso del tempio di Bel-Shamin: dal suo giardino, incredibilmente arredato con capitelli corinzi in funzione di tavolini, prelevati direttamente sul "decumano", possiamo già correre con lo sguardo sulla scenografico castello arabo che dall’alto della collina di Qalaat Fakhr ed-Din ibn Ma’an fa intuire un panorama mozzafiato. Non fatichiamo molto a capire perché Pietrone ha fatto carte false nel volerci proprio portare in questo albergo!

Una volta arrivati sulla collina, con un Belal visibilmente soddisfatto per il mantenuto impegno, abbiamo anche il tempo di aspettare una decina di minuti prima che il sole si nasconda dietro il castello e poi dietro le colline occidentali.

A costo di ripetermi, lo spettacolo è di quelli unici: da questa collina conica, alta 150 metri, tanto perfetta e opportuna da sembrare messa lì dall’uomo, lo sguardo, prima di perdersi nell’infinita e alienante uniformità del deserto, si sofferma infastidito per un attimo sulla moderna Palmyra e poi comincia a vagare soddisfatto verso destra incontrando dapprima quanto resta della città palmirena, poi il mare incredibilmente verde delle migliaia di palme da datteri, di olivi e di melograni che costituiscono l’originaria oasi di Palmyra e infine una decina di originali tombe a torre sparse nella vallata che viene da occidente.

E mentre il sole abbassandosi dà il via a quel magico spettacolo di colonne, capitelli, archi, ruderi, ninfei, pilastri, decumani, trilitoni che si colorano di volta in volta di giallo, poi di rosa e infine di rosso, staccandosi in maniera quasi surreale dal colore monotono e uniforme della infinita piana desertica, io e Alberto, seguendo l’esempio del professore, che vediamo già sparire laggiù in fondo vicino all’Accampamento di Diocleziano, decidiamo anche noi discendere a piedi la collina per rientrare in albergo attraverso l’area archeologica. Questo ci consente di gustare lentamente, nonostante il forte vento che come sempre si leva a Palmyra al calare del sole, quegli incredibili mutamenti di colore che esaltano le rovine al tramonto, fino a quando ogni pietra, dopo aver dato per qualche minuto il meglio di sé, sembra tornarsene tranquilla, confondendosi con tutto il resto.

Torniamo in albergo e ceniamo alla ormai consueta maniera siriana. Poi, fuori programma, accogliamo l’invito di Belal che ci propone una "zingarata": uno spettacolo di danze e musiche arabe in una delle tende di nomadi che stanno accampate nei pressi della città. Raggiungiamo il campo in pullman e, tra raffiche di vento e un buio completo, entriamo in una ampia, ma semplicissima tenda con il pavimento coperto di tappeti. Ci sistemiamo seduti a semicerchio in un angolo della tenda, mentre al centro un paio di uomini stanno suonando un tamburo e un tipico strumento a corda simile al nostro violino chiamato rababa. Accanto a loro due mamme stanno trastullando il proprio bambino mentre un uomo, completamente disteso su un tappeto, se la dorme indifferente. Una grossa matrona, anche lei seduta per terra, sembra controllare il tutto. Lo spettacolo è solo per noi. Due giovani ragazze cominciano a ballare, o meglio ad ancheggiare in mezzo alla tenda, in un approssimativo tentativo di assecondare la musica e dare una dimostrazione dei loro balli. Poi una delle due mamme che stava accudendo il bambino, si allontana dal piccolo ormai addormentato e si unisce alle due danzatrici tentando di creare una specie di coreografia. Ci invitano a fare due salti insieme a loro mentre la musica aumenta di intensità. E anche sotto questa tenda di nomadi arabi, il gruppo dei pensionati anoressici dà una nuova, vibrante dimostrazione di grande vitalità. Su tutti, Pietrone, che, sollecitato da una ragazzina, si lascia andare "un po’ troppo" al suono monotono della musica e sta quasi per abbrancarla… o forse stava cascando dal sonno? Comunque si riprende in tempo per darsi un contegno da persona seria. Provvidenziale sarà l’arrivo di un bicchiere di tè.

Nonostante alcuni partecipanti, vedi Marcella e Sandra, abbiano poi espresso un parere diverso, io debbo confessare la mia delusione per questo fuori programma. A me è sembrata solo una intrusione fuori luogo di undici persone in una casa nel momento in cui i suoi abitanti, che stanno approssimandosi a terminare come al solito la giornata, per racimolare qualche dollaro si vedono chiamati ad improvvisare senza convinzione né preparazione un misero spettacolo di musiche e danze.

Comunque, dopo uno scarno scambio di convenevoli durante i quali la matrona ci chiede alcune medicine per i suoi problemi di salute, ci alziamo e torniamo al nostro più accogliente Hotel Zenobia.

Prima di andare a letto, Alfieri ed io, ci facciamo una mezza promessa di alzarci presto per non perdere l’occasione, forse unica, di fotografare l’alba di Palmyra.

Alle sei di mattina sono sveglio ma non trovo la forza di alzarmi; poi sento la porta della camera di Alfieri che si apre e si richiude piano piano. Il birbante è stata di parola! (Anzi, mi dirà in seguito che all’uscita scambiò due parole con Pietrone che, già in giro dalle cinque e mezza, stava rientrando). Allora anch’io mi faccio coraggio e in cinque minuti mi vesto e sono fuori. Il sole è già spuntato ma l’aria e la luce sono veramente strane, Fa un vento fresco e forte. E io sono uscito in maglietta. Cerco di resistere, faccio un paio di scatti - fotografici si intende! - ma poi debbo desistere e tornare in camera a prendere un golf. Grazia sta ancora dormendo e, da un suo gesto, capisco che non gradisce il mio andirivieni.

E finalmente eccomi nella magica Palmyra, da solo, con la mia macchina fotografica caricata per l’occasione con un rullino di Velvia, attento a cogliere le infinite variazioni di una stupenda luce rosata che il primo sole modella sulle centinaia di pietre cariche di arte e di storia che giacciono nel sito. Mi aiuta anche un suggestivo cielo azzurro movimentato da tanti spruzzi di leggere nuvolette che creano una scenografia particolarmente originale.

Non vedo Alfieri, molto probabilmente confuso in mezzo a colonne e capitelli. Fotografo a ripetizione: sulla collina Qalaat Fakhr ed-Din ibn Ma’an, il castello arabo parzialmente illuminato dal sole corona degnamente ogni immagine che inquadro nel mirino della mia Canon. E proseguo in perfetta solitudine e silenzio, fino all’ora stabilita per la colazione, alla ricerca di armonie lineari tra centinaia di capitelli, pezzi di architravi, fregi intarsiati, colonne, strade lastricate, fino ad arrivare al Grande Colonnato e all’Agora.

Poi, confidando in una serie di immagini degne di National Geographic, torno in albergo e trovo il grande Pietrone che, seduto nel giardino dell’albergo intorno ad uno splendido capitello romano, sta cercando disperatamente di far quadrare i conti lottando con una sfilza di note e fatture.

Ottima colazione arricchita da uno speciale yogurt e poi in pullman per raggiungere la necropoli di Nord Ovest, chiamata la Valle dei Sepolcri. Qui visitiamo la originale tomba di Elahbel risalente al 100 d.C., una specie di piccola torre quadrata che, insieme ad una decina di costruzioni simili sparse in maniera casuale, si eleva in mezzo alla valle desertica. All’interno, nella piccola sala ipogea e nelle tre salette sovrapposte, si vedono alcune decine di loculi, ormai vuoti, disposti lungo le pareti elegantemente divisi da pilastri scanalati. Attraverso una stretta scala interna saliamo sino alla cima della torre per dare un rapido sguardo alla valle che si perde dietro la collina coronata dal castello arabo.

Un nuovo breve spostamento in pullman, passando proprio davanti alla tomba del grande Giamblico di Apamea, il filosofo neoplatonico scopritore di Pitagora, (tomba attualmente chiusa al pubblico), ci porta verso la necropoli di Sud Ovest, dove, visitando la cosiddetta tomba dei Tre Fratelli, conosciamo il secondo tipo di tombe palmirene, quelle ipogee, risalenti al II secolo d.C.. E’ costituita da una sala sotterranea a forma di "T" rovesciata, dove da ogni braccio si dipartono tanti altri bracci più piccoli contenenti ciascuno sei loculi per un totale di un centinaio di posti. In fondo alla galleria principale una serie di affreschi e tre pilastri con la raffigurazione, all’interno di tre medaglioni, dei fratelli costruttori e proprietari della tomba. La guida ci racconta anche di un’altra tomba ipogea lì accanto, attualmente in fase di rilevamento, che è stata scoperta casualmente di recente perché un camion in sosta c’è sprofondato dentro, proprio come in una trappola per rinoceronti.

E finalmente eccoci impegnati nella visita della vera e propria città, con i resti dei più importanti edifici costruiti negli anni d’oro di Palmyra, quelli che vanno dal II al III secolo d.C.

Dopo la pesante sconfitta subita dalla sua regina Zenobia, Palmyra era riuscita a sopravvivere ad una prima distruzione effettuata dai romani, rifiorendo sotto Diocleziano e Giustiniano, per poi soccombere definitivamente alla seconda distruzione, subita nel 745, per mano araba. Qualche decennio di progressivo abbandono fino al X secolo e poi, per sette secoli, silenzio assoluto; di Palmyra si erano perse le tracce. Fintanto che, nel settecento, alcuni solitari viaggiatori inglesi e francesi ne visitarono le rovine, parzialmente nascoste dalla sabbia del deserto e addirittura inglobate nelle numerose casette arabe che vi erano state costruite, dando il via a quella rinascita che farà di Palmyra una delle mete più significative per chi vuole approfondire gli sviluppi dell’architettura romana.

La città, di forma irregolare, circondata da una possente cinta muraria, ha il suo punto centrale nel Grande Colonnato, un decumano che per quasi 1.200 metri la taglia lungo l’asse E-O e alle cui estremità si trovano rispettivamente il Campo di Diocleziano e il Tempio di Bel: e proprio da quest’ultimo edificio inizia la nostra visita guidata dietro al sempre più instancabile e preparato Belal.

Il tempio è dedicato a Bel, la massima divinità palmirena, e fu costruito nei primi decenni dell’era cristiana, L’intero complesso è racchiuso in un ampio cortile quadrato di oltre 200 metri per lato, il temenos, circondato da un muro arricchito con pilastri corinzi e interrotto da finestre coronate da timpani triangolari con interessanti bassorilievi. All’interno del temenos si vedono i resti di alcuni edifici sacri come la rampa gradinata per gli animali destinati al sacrificio, l’altare e il tempio vero e proprio consistente in un solo vano interno che ospitava la triade divina palmirena (Baal, Yarihibol e Aglibol) . Un mihrab sul muro sud e alcune iscrizioni arabe ricordano l’avvenuta trasformazione del tempio in moschea islamica prima del definitivo abbandono.

Lasciamo il tempio e ci incamminiamo verso il Grande Colonnato che, preceduto da un monumentale arco a tre fornici, sembra quasi aprirsi e distendersi in tutta la sua lunghezza come per invitarci ad entrare nel cuore dell’antica città palmirena. E così anche se nel corso del viaggio abbiamo ormai visitato diverse antiche città romane, Jerash, Baalbeck, Apamea, tanto per citare le più importanti, ancora una volta queste rovine sono capaci di suscitare in noi nuove emozioni e di convincerci sempre di più della grandezza della civiltà romana.

Il grandioso decumano di Palmyra è largo undici metri ed è fiancheggiato da decine di colonne corinzie su alcune delle quali sporge ancora la mensola destinata a sorreggere le statue dei cittadini illustri; le colonne separavano il decumano da due strade laterali porticate, larghe ben sette metri, sulle quali si aprivano una serie continua di botteghe.

Cammino come al solito tra decine di pezzi di colonne, architravi, pilastri, statue che da secoli ormai giacciono sulla sabbia, con lo sguardo che inevitabilmente sale verso l’alto, attratto dall’eleganza dei capitelli corinzi, tutti ancora sormontati dal prezioso architrave lavorato che si snoda per tutta la lunghezza del decumano. Stordito da tanta magnificenza riesco comunque a seguire Belal che, nel tratto sino al Tetrapilo, ci fa osservare a sinistra i resti del santuario di Nebo, a destra il bagno di Diocleziano, poi ancora a sinistra il Teatro, il Senato e infine l’Agora.

Il Tetrapilo è una specie di monumento formato da colonne che sta al centro del decumano nel punto in cui questo si incrocia con il cardo. Proseguendo per la seconda parte del Grande Colonnato si attraversa la zona, peraltro ancora in gran parte da scavare e da riscoprire, ove sorgevano le case del periodo bizantino, i quartieri residenziali di origine ellenistica e la casa della regina Zenobia, Completiamo il percorso del decumano fino a sfociare nella strada colonnata trasversale, al di là della quale si estende il grande Campo di Diocleziano, una città nella città.

E così, stregati dalle gesta della regina Zenobia, confusi dalle migliaia di reperti che ci hanno costretto a continui slalom nella vasta area archeologica, stupiti dalla grandiosità delle opere architettoniche realizzate dai romani in queste terre lontane, affaticati dai chilometri percorsi, abbagliati dalla luce del sole e desiderosi di un po’ d’ombra, affascinati da quella stupenda scenografia creata dal castello arabo e anche consapevoli che tra qualche giorno rimpiangeremo certi mancati approfondimenti storici ed artistici, salutiamo con un certo sollievo la fine della visita e l’appuntamento per il pranzo in un locale situato nel moderno villaggio, fuori le mura della città antica. Tutti rifiutano ormai anche il giro in cammello sollecitato da "premurosi" meharisti. Solo Sandra, la matematica "dei contadini etiopi", vorrebbe provare, ma da sola non se la sente… Pietrone, sempre sensibile ai desideri dei "partecipanti", specie di chi gli ha risolto l’algoritmo che lo tormentava da decenni, neanche si trattasse di un accompagnatore professionista si rende subito disponibile dicendo che anche lui muore dalla voglia… (il bugiardo!). Allora se ci va il Pietrone… anche Ornella e Giorgio non possono essere da meno…

In somma, per "provare anche quello", tra una risata, di Giorgio, e un gridolino di malcelata paura, di Sandra e di Ornella, tre remagi, su altissimi dromedari in carovana, si avviano ieratici sul selciato del lungo decumano, per farsi portare al ristorante passando attraverso l’oasi. Il quarto dromedario viene montato da Pietrone che, veterano del deserto, dice che ha aderito "così, tanto per accompagnare gli altri", ma abbiamo capito tutti che lo fa per prolungare il suo "orgasmo" con la regina Zenobia…

Pranziamo all’ombra di un piacevole pergolato gustando un piatto di spezzatino di montone bollito, mescolato con grano verde, mandorle e yogurt acido: buono, ma niente di speciale tanto che la crema di ceci continuerà ad essere considerata il must culinario del viaggio.

E poi partenza. Salutiamo Palmyra volgendo un ultimo nostalgico sguardo al castello arabo e ci immettiamo sulla strada che per 250 chilometri, di nuovo attraverso un deserto allucinante, ci porterà fino a Damasco passando per Ma’alula.

SULLA VIA DI DAMASCO

Facciamo una unica fermata, per l’ormai consueto e irrinunciabile pipi-stop, in una piccola costruzione in legno dove alcuni nomadi gestiscono una specie di punto ristoro e rivendita di oggetti di artigianato: Ornella, che comincia a soffrire di astinenza da acquisti, ne approfitterà per comprare, dopo estenuanti trattative, una padella in ottone con un lunghissimo manico usata per la tostatura dell’orzo. Dice che le servirà per la sua nuova casa sulle montagne abruzzesi.

Proseguiamo quindi fino a Ma’alula, un delizioso paesetto situato a pochi chilometri a nord di Damasco, in fondo ad una gola rocciosa, e costituito da poche decine di case appoggiate ai contrafforti delle montagne dell’Antilibano. Un peccato l’invadente costruzione del Safir Hotel proprio sulla testa del paese che ne pregiudica irrimediabilmente l’atmosfera. Ma’alula è importante meta di pellegrinaggio ai suoi santuari cattolici e famosa anche per essere una delle pochissime località, unica in Siria, dove tuttora viene parlato l’aramaico, l’antica lingua di Gesù, di ceppo semitico, simile all’ebraico e al fenicio.

Prima di entrare in paese visitiamo la chiesa di San Sergio, di credo cattolico-greco, dove una ragazza ci accoglie gentilmente e, in aramaico, recita con noi il Padre Nostro. L’interno, quasi una miniatura, è improntato ad una semplicità bizantina per noi desueta, usi come siamo ad associare lo "stile bizantino" ai fondi oro dei mosaici ravennati: piccoli blocchi di bianco calcare tenuti insieme quasi "a secco", disegnano la piccola abside, il transetto, il catino, le modanature architettoniche tutte, con soluzioni di grande architettura. Lo stesso altare, uno dei più antichi ci dicono, con il bordo rialzato come le antiche are del sacrificio ebraico pasquale, richiama riti d’una chiesa primitiva. Prima di uscire dalla chiesa, Belal assicura Pietrone che la preziosissima icona raffigurante una insolita "Ultima Cena" intorno ad tavolo circolare, è proprio quella originale, la prima delle "ultime cene", rubata alcuni anni fa, ed ora miracolosamente ricomparsa al suo posto, sulla destra dell’iconostasi.

Un veloce assaggio del dolce vino prodotto dal convento, con "biblici" quaranta giorni di fermentazione, e da qui, a piedi, percorrendo in stretto canyon la "via di fuga" di Santa Tecla, la lunga crepa apertasi miracolosamente nella roccia a sottrarre la vergine cristiana dalla vogliose mire di alcuni centurioni romani, arriviamo ad un anfratto nella montagna dove viene venerata la martire cristiana, seguace di San Paolo, alla quale è dedicato il monastero con chiesa greco-ortodossa che visitiamo al termine del giro. Una breve sosta nella piazza quasi deserta del paese per consentire l’acquisto di due bottiglie del famoso – dicono - vino di Ma’alula, che allieteranno la nostra serotina cena siriana, e poi partenza per Damasco; dove arriviamo quando ormai è già buio, sistemandoci nel centrale Hotel Venicia. Una breve passeggiata di primo assaggio della capitale, dopo cena, e poi tutti a letto.

Damasco, capitale della repubblica di Siria, conta oggi circa 3 milioni di abitanti, e come tutte le grandi città orientali vede un continuo allargamento dei suoi confini con la costruzione di nuovi quartieri attorno al nucleo originario costituito dalla città vecchia. La città, considerata uno dei più antichi centri abitati nella storia dell’umanità, sorge a 690 metri sul livello del mare su un terreno ricco di oasi ai piedi delle pendici del Djebel Qasyrun. Alcuni scavi archeologici hanno dimostrato la presenza umana in questa zona sin dal Paleolitico, ma i primi documenti scritti che parlano di Damasco sono alcune iscrizioni egizie dei tempi del faraone Tutmosi III ( ca.1480 a.C.), seguite da iscrizioni assire e da due citazioni nella Genesi biblica.

Come tutte le altre città siriane, Damasco ha assistito ad un continuo alternarsi di dominazioni: si può cominciare con gli Aramei all’inizio del I millenio a.C., sostituiti poi dagli Assiri e successivamente dai Romani e dai Bizantini che vi esercitarono un dominio stabile per circa 700 anni, fino alla conquista e all’espansione islamica nel 635. Sotto la dominazione araba Damasco conosce periodi di grande splendore, soprattutto sotto la dinastia degli Omayyadi, e periodi di temporaneo declino, come quando sotto gli Abbasidi la capitale venne spostata a Baghdad. Resistette ai diversi tentativi di conquista dei crociati, per poi vedersi occupata in successione dai Mongoli, dai Mamelucchi e infine dagli Ottomani fino a diventare sede di governo del mandato francese nel 1920 e infine capitale della repubblica indipendente nel 1945.

Oggi, venerdì 26 maggio, è giornata festiva per i musulmani e quindi decidiamo di dedicarla interamente alla visita del museo e degli edifici più importanti, riservandoci la mattinata di domani, prima della partenza, per disperdersi nelle centinaia di vicoli del suo immenso suq.

Di buon mattino come al solito, percorriamo a piedi la distanza che dall’albergo ci separa dall’edificio ove è ospitato il Museo Nazionale Siriano.

Già l’imponente facciata del museo è reperto assai singolare: nient’altro che la facciata del Qasr al-Hayr al-Gharbi, un castello omayyade dell’VIII secolo, smontato pezzo per pezzo nel deserto ad ovest di Palmira e qui ricostruito nella facciata esterna e in molti altri particolari architettonici e decorativi sistemati acconciamente nella prima sala del museo. E proprio al centro dell’atrio, con una fedele ricostruzione in scala, viene offerta anche l’occasione per immaginare come doveva presentarsi magnifico, il castello del deserto, alle carovane che pervenivano all’Eufrate dalle lontane contrade persiane e indiane.

All’interno, in sale appositamente ricostruite, sono esposte e conservate alcune delle raccolte più importanti di oggetti provenienti dagli scavi effettuati dalle varie missioni archeologiche straniere e nazionali.

Come al solito Belal, oggi più sereno per la notte finalmente trascorsa nella sua casa insieme alla famiglia, ci guida da par suo nella visita delle varie sale del Museo. Ma piuttosto che fare un elenco, in stretto ordine di marcia, di tutto quello che abbiamo veduto, mi limito qui a ricordare i reperti più significativi, specie quelli provenienti dai siti visitati nel corso del viaggio, cominciando da quelli relativi alle civiltà più antiche.

E allora non si può che cominciare con Ebla, nel cui reparto ricordo il torso del Principe Ibbit-Lim in basalto arricchito da una iscrizione cuneiforme che ha consentito l’identificazione del sito, e con Mari, ricca di vetrine piene di oggetti in legno, ceramica, alabastro, tra cui una deliziosa statua del re Ikun-Shamagan, a mani giunte sul petto, completo di iscrizioni sulla spalla destra.

Particolarmente interessante trovo poi la sala dedicata alla civiltà fenicia di Ugarit (Ras Shamra) dove in alcune bacheche sono esposte, oltre a vasi, ceramiche invetriate, sculture in avorio del 1400 a.C., gioielli tra cui una bella immagine del dio Bel in oro, oggetti e immagini in bronzo, piccoli animali in terracotta, sigilli cilindrici, le famose tavolette in argilla scritte in ugaritico e tra queste una, piccolissima, con i segni del primo alfabeto comparati con i segni della coesistente scrittura accadica. Piccola, ma decisiva, per assegnare ad Ugarit il merito di aver inventato il primo alfabeto fonico nella storia della civiltà.

Proseguendo nel viaggio nella storia, ricordo, del periodo greco-romano, una statua in marmo di Venere ellenistica proveniente da Lattakia e un grande mosaico con figure allegoriche proveniente da Shabba. E naturalmente, freschi di visita della città di origine, non possiamo non ammirare alcuni sarcofagi palmireni arricchiti da bassorilievi con scene di banchetti funebri e la fastosa tomba ipogea di Yarhai del 105 d.C. smontata in loco e integralmente rimontata pezzo a pezzo qui al museo.

Una vera scoperta saranno poi gli indimenticabili affreschi, miracolosamente conservati grazie ad un terrapieno di riempimento che li ha tenuti nascosti e riparati dagli agenti atmosferici per tanti secoli, provenienti dalla sinagoga di Dura Europos. Un attento lavoro di distacco degli affreschi dalle mura originarie e di riposizionamento in un ambiente appositamente ricreato nel museo, ci consente oggi di poterli vedere quasi come all’epoca della loro esecuzione risalente al 240 d.C. La sala, mantenuta in penombra, con soffitto in legno decorato a cassettoni, misura quasi 14 metri per 8, è alta oltre 6 metri e ripropone una fila di sedili lungo le pareti come nella collocazione originale. Il ciclo pittorico completo ci racconta , disposte su tre registri sovrapposti, ben 27 scene tratte da episodi del Vecchio Testamento, nelle quali, cosa rarissima per un luogo di culto ebraico, sono presenti figure di uomini e di donne. Questo fatto conferma ancora di più la originalità del ciclo, eseguito quindi prima ancora che la religione ebraica, per evitare pericoli di paganesimo, vietasse qualsiasi rappresentazione di persone all’interno dei suoi luoghi di culto. Lo stile di questi affreschi risente sia della tradizione orientale che di quella occidentale. Dalla prima ha mutuato la frontalità delle figure, la visione bidimensionale e la presentazione di gruppi di persone in maniera anonima senza caratterizzazione individuale. Dalla seconda invece alcuni timidi espedienti prospettici come la rappresentazione di scorcio o la presenza di ombre sul terreno.

La nostra rassegna dell’arte siriana si chiude naturalmente con le sale dedicate all’arte islamica delle quali ricordo eleganti ceramiche invetriate, bottigliette e piccoli oggetti in finissimo vetro colorato, incantevoli esemplari di Corano ricchi di miniature floreali e geometriche, sarcofagi e mobili in legno di noce e infine una interessante serie di "musharabie" in pietra, le finestre a grata che consentivano alle donne di guardare in strada senza essere vedute.

E dopo una così approfondita visita del Museo che ci ha consentito di ripercorrere ancora una volta le varie fasi delle civiltà siriane viste attraverso le multiformi espressioni artistiche, ci meritiamo un immancabile bicchiere di tè che beviamo comodamente seduti al fresco del giardino del museo stesso.

Prima di salire sul pullman con il quale abbiamo un appuntamento per l’ora di pranzo, vediamo nei pressi del museo l’esterno della moschea Suleimaniyeh, preceduta da un giardino nel quale stranamente sono esposti alcuni piccoli, vecchi, aerei ad elica e un vicino caravanserraglio, oggi ormai occupato da botteghe artigiane e gioiellerie.

All’uscita dal caravanserraglio troviamo poi il gradito pullman salmonato che, prima di portarci in albergo per il pranzo, ci conduce sulla collina che limita Damasco a N-O, dalla quale ci godiamo un bellissimo panorama sulla città riuscendo a distinguere perfino la cupola della Moschea degli Omayyadi che si eleva al centro della lontana Città Vecchia.

Un attimo di panico per una improvvisa caduta di Ornella che, per la fretta di fotografare il panorama, fa un passo indietro senza accorgersi di una buca, e quindi ritorno in albergo dove pranziamo in sostituzione della cena: abbiamo deciso infatti che stasera saluteremo il nostro Belal con una cena in un locale caratteristico della vecchia Damasco, allietata da spettacolo di musiche e danze folcloristiche. Speriamo bene, ripensando ai nomadi di Palmira!

A pranzo, nonostante lo scetticismo di Luigi che forse ha nostalgia di un bicchiere del suo Verdicchio, approfittiamo delle bottiglie di vino di Pietrone per arricchire le ormai risapute pietanze siriane. Breve riposo di qualche minuto e di nuovo in movimento per visitare la città vecchia, con la defezione di Grazia che, stanca e con qualche linea di febbre per leggeri problemi intestinali, decide di riposarsi e restarsene in albergo.

La Città Vecchia ha la forma di una grande ellissi di circa 5 chilometri di circonferenza, un tempo interamente cinta da mura, ed è attraversata nel verso più lungo dalla Via Recta, un rettilineo lungo 1350 metri, originato dall’antico decumano romano. All’interno dell’ellisse, tra centinaia di strade, vicoli e vicoletti, tra decine di moschee e madrase, tra migliaia di botteghe che vendono di tutto, e poi cimiteri, hammam, fontane, minareti, residui di muri romani, antichi palazzi arabi, mausolei, si eleva il grande complesso della Moschea degli Omayyadi.

Attenti a non perdere di vista Belal, iniziamo la visita percorrendo il suq al-Hamidiye, il più noto e movimentato settore di mercato coperto della Città Vecchia che, dopo un arco romano, sfocia proprio nella piccola piazza che introduce alla Grande Moschea. Vicino ad uno dei tre ingressi del cortile della Moschea, situato in una squallida e piccola stanzetta di un anonimo edificio, è esposto il sepolcro del grande Saladino, tuttora oggetto di sentita venerazione da parte dei siriani.

La Grande Moschea risale, nelle forme attuali, all’ottavo secolo, durante il dominio dei califfi Omayyadi, ma fu costruita su un’area che vantava già più di mille anni di culto religioso: nel I secolo a.C. vi sorgeva, prendendo il posto del più antico culto del dio arameo Hadad, il recinto del tempio dedicato a Giove Damasceno e successivamente vi fu edificata una cattedrale cristiana dedicata a San Giovanni. Si dice che il califfo al-Walid decise di costruirla perché "..vide che la Siria, la terra dei cristiani, era ricca di belle chiese dalle forme attraenti e dalla vasta fama….pertanto diede ai musulmani una moschea che li distogliesse da queste chiese e ne fece una delle meraviglie del mondo…"

Il complesso, di forma rettangolare di metri 150 x 110, è praticamente diviso in due parti non uguali nel senso della lunghezza: la parte più larga è occupata da un grande cortile (sahn) delimitato da tre lati da una galleria e dal quarto, verso sud, dalla parte più stretta costituita dalla grande sala di preghiera (haram). I grandi e spettacolari mosaici che ricoprivano la parte alta della galleria come un pannello ininterrotto alto più di sei metri, considerati i più grandi del medio oriente, oggi sono rimasti integri solo in alcuni punti delle pareti. Questi mosaici, su fondo oro, risalenti al periodo omayyade, raffiguravano soprattutto strutture architettoniche inserite in paesaggi fluviali e immerse in verdi boschi di cipressi, ulivi, meli e cedri. All’interno del cortile, al quale si accede attraverso tre porte, sorgono due piccoli templi, la Cupola degli Orologi e il Tesoro degli Omayyadi, e, centralmente, la fontana destinata alle abluzioni dei fedeli.

Dal centro del cortile si vedono i tre minareti della moschea, tra i quali quello chiamato minareto di Gesù perché si dice che dalla sua cima si dovrebbe vedere il ritorno di Gesù quando scenderà sulla Terra per combattere l’Anticristo prima del Giudizio Universale.

Per entrare nella immensa sala di preghiera, l’ haram, lunga 130 metri, è obbligo togliersi le scarpe e quindi anche noi, a piedi nudi, ne percorriamo il pavimento interamente coperto di tappeti. Seduti per terra o addirittura sdraiati, appoggiati alle colonne, da soli o a gruppi familiari. i musulmani trascorrono ore a pregare o a parlare, lasciando che i bambini giochino tranquillamente correndo magari da una colonna all’altra come se fossero in un giardino pubblico.

La sala è divisa nel senso della lunghezza da tre lunghe navate separate da colonne e nel punto centrale del transetto si eleva la grossa cupola ora in pietra che ha sostituito quella originale in legno. che contraddistingue il panorama di Damasco. Le pareti e le colonne, come è nella più rigida e antica tradizione islamica, sono di una semplicità disarmante appena decorate con arabeschi e semplici motivi geometrici. Unica concessione a qualcosa di elaborato, una edicola in pietra, completamente chiusa da vetrate scure, sorge tra due colonne, in posizione non centrale e richiama molte persone che sembrano venerarne il contenuto in modo particolarmente intenso: la cosa mi meraviglia un po’ perché all’interno si dice sia conservata la testa mozzata di San Giovanni Battista, ma mi si spiega subito che, come molti altri personaggi biblici, è venerato anche dall’Islam come profeta Iaia. Infine al centro della parete sud si apre il mihrab, o nicchia della preghiera, affiancato a destra dal pulpito o meglio minbar.

Anche noi seguiamo l’esempio islamico e ci sediamo in cerchio sul pavimento nel centro della navata. Ne approfitto per riposarmi e per entrare per qualche minuto in sintonia con lo spirito islamico. L’aria calda, la leggera penombra, il brusio delle preghiere, il parlare sommesso dei fedeli, il soffice calpestio dei piedi nudi sui tappeti, mi aiuta a rilassarmi. E, più di me, Pietrone che, completamente sdraiato, riesce perfino ad addormentarsi, mentre Belal ci intrattiene con una appassionata lezione "conclusiva" sull’Islam, quasi estremo tentativo di volerci convertire…

Dopo la moschea Omayyade di rito sunnita, seguiamo Belal che, raccomandandoci di mantenere un contegno particolarmente serio, riesce a farci entrare nella moschea di Nostra Signora Rakya, di rito sciita. La costruzione è più moderna e l‘ambientazione è molto più sfavillante, ricca di luci, specchi e colori. Gli stessi fedeli che la frequentano danno l’impressione di essere particolarmente eccitati : alcuni uomini, toltasi la camicia, stanno mortificandosi a torso nudo intorno ad una edicola che evidentemente contiene qualche reliquia particolarmente importante; molte donne stanno piangendo, lamentandosi a voce alta. L’atmosfera è piuttosto tesa e, anche se con dispiacere, preferisco rinunciare a scattare fotografie.

Usciamo dalla moschea, anche questa preceduta da un piccolo cortile, e andiamo a visitare il palazzo Azem, che nel 1750 era la residenza del governatore di Damasco e ora ospita il Museo delle Tradizioni e Arti Popolari. Un bel giardino interno ci introduce ad alcune stanze della residenza dove sono state ricostruite scene di vita e di costumi popolari. Comunque più che per queste scene, il palazzo risulta interessante soprattutto perché ci consente di conoscere la tipica struttura di una importante abitazione del XVIII secolo.

Proseguendo per la lunga Via Recta, oggi particolarmente deserta e tranquilla per la giornata festiva, ci ritroviamo al punto stabilito per l’appuntamento con il pullman.

Ritorno in albergo per prepararsi per la cena di gala. Fortunatamente Grazia sta meglio: il riposo le ha fatto bene e quindi potrà venire anche lei.

Il locale scelto da Belal si trova in uno scantinato della Città Vecchia, proprio dietro la Grande Moschea e si chiama, manco a dirlo, Ristorante degli Omayyadi. Lo raggiungiamo passando attraverso alcuni vicoletti che, nonostante il buio, ci appaiono assolutamente tranquilli. In un grande locale sotterraneo ci sono diversi tavoli e nella parte centrale una piccola orchestra formata da un mandolino, un’arpa orizzontale, un piffero e un tamburo suona musiche malinconiche. Un cantante dalla voce particolarmente calda e melodiosa li accompagna suscitando nostalgie, mentre due ballerini dervisci, vestiti di bianco con pantaloni coperti da una larga gonna a campana, girando vertiginosamente su se stessi, senza spostarsi minimamente, suscitano suggestive ma anche un po’ angoscianti sensazioni. Girano per due minuti di seguito, senza interruzioni o rallentamenti, a testa alta, con lo sguardo fisso verso le pareti della sala, quasi da sembrare in tranche. Poi al termine della musica i due dervisci si fermano istantaneamente e si allontanano tra gli applausi del pubblico senza il minimo accenno di giramento di testa o di vertigine.

Si pranza a self-service e per l’ultima volta ci togliamo la voglia di salsine, insalate di verdure crude e bollite, polpette ripiene, creme pasticciate, involtini in foglie d’uva e tanti, tanti dolci. Belal e l’autista si lasciano andare concedendosi una fumata di narghilé e poi tutti a letto per l’ultima notte mediorientale.

Al mattino successivo, sabato 27 maggio, dopo aver caricato sul pullman per l’ultima volta le nostre valigie sempre più gonfie, dedichiamo la mezza giornata restante prima della partenza agli acquisti e alla visita del suq, ieri appena intravisto a causa della chiusura festiva dei negozi. Luigi purtroppo non si sente troppo bene e preferisce restarsene in albergo consolato dalla fedele e premurosa Marcella.

Finalmente nel mitico suq di Damasco, nonostante l’invito di Belal che avrebbe preferito che restassimo tutti uniti, io, con Grazia, Alberto, Ornella e Pietrone ci stacchiamo dal gruppo, accordandoci di ritrovarci tre ore più tardi presso la porta Bab Sharqi situata all’estremità occidentale della Via Recta per raggiungere in pullman l’aeroporto.

Il suq è animato da un intenso e frenetico movimento di persone, sia uomini che donne, e di merci, trasportate con carrelli spinti a mano o caricate sugli insostituibili asinelli che sembrano trovarsi a loro agio in questo intrigo di vicoli.

Gli uomini indossano soprattutto vestiti occidentali ma non mancano anche quelli che portano ancora i loro tipici pastrani e molti sono quelli che hanno la testa coperta dal caratteristico khefiaz bianco e rosso.

Le donne invece, pur camminando tranquillamente per le strade del suq come potrebbe succedere nei nostri mercati, sono tutte avvolte in abiti lunghi e sempre con il capo coperto da un chador per lo più nero o al massimo grigio. Il volto è spesso scoperto anche se qualcuna tiene in mano un lembo del chador con lo scopo di coprirsi almeno la bocca. E non mancano quelle con il volto completamente nascosto da un fazzoletto nero – non un velo! - che scende dal capo fino al collo proprio come una tendina, tanto da sembrare incredibile che riescano ugualmente a vedere.

Ci ritroviamo spesso sulla Via Recta, una delle poche strade della Città vecchia lungo la quale transitano a senso unico mezzi motorizzati: una ininterrotta e rumorosa fila di auto sgangherate, taxi, camioncini, motorette che turba e inquina non poco la piacevole atmosfera del suq.

Dopo un po’ conveniamo che forse si comprava meglio nel suq di ieri, dove peraltro Pietrone vorrebbe tornare perché vi aveva dimenticato una piccola calcolatrice, ricordo di qualche cosa di prezioso e di importante

Per 50 syrian pound (2.500 lire) concordiamo un taxi nel quale entriamo a forza in cinque, anzi Pietrone per diritto di pancia se ne sta davanti accanto all’autista e noi quattro sul sedile posteriore di una vecchissima Renault, chiaro residuo di qualche rottamazione occidentale. All’andata, nessun problema per far capire all’autista dove vogliamo andare; in pochi minuti eccoci nell’ormai conosciuto caravanserraglio di ieri, vicino la Moschea Takiyyeh as-Sulaymaniyyeh, la Moschea di Solimano.

Qui, ultimi acquisti di tovaglie, specchi, stampe colorate a mano con originali scene di caccia e di guerra orientali, e soprattutto di un bellissimo e lungo pugnale con fodero da parte di Alberto che, dopo pochi minuti, comincerà però a preoccuparsi pensando agli inevitabili controlli aeroportuali ai quali verrà sottoposto.

Anche Pietrone resta soddisfatto per il ritrovamento della sua preziosa calcolatrice e quindi riprendiamo un taxi, questa volta faticando non poco per riuscire a far capire all’autista dove vogliamo essere condotti. Saranno necessarie tre o quattro inversioni di percorso, alcuni interventi di passanti, inutili consultazioni della pianta di Damasco, per giungere alla desiata porta Bab Sharqi

Nonostante tutto arriviamo in anticipo sull’ora fissata per l’incontro e allora, non ancora soddisfatti, ne approfittiamo per visitare anche i vicini quartieri ebraico e cristiano dove una cappella ricorda il luogo riconosciuto dalla tradizione come casa di Anania. Personaggio biblico, famoso per aver aiutato e battezzato il futuro apostolo Paolo dopo che quest’ultimo, ancora militare romano e giudeo di nome Saulo, viene folgorato sulla via Damasco, dove si stava dirigendo per arrestarvi i cristiani, restando improvvisamente cieco e convertendosi in un giorno dal culto ebraico a quello cristiano. Paolo comincerà ad insegnare proprio ad Antiochia, diventando poi, insieme a Barnaba e ai dodici dell’Ultima Cena, uno dei più importanti apostoli della nuova religione cristiana

Comunque con la scusa di Anania, e per consumare le residue lire siriane che ognuno di noi si ritrova per le tasche, riusciamo anche qui a comprare qualche ulteriore souvenir.

In aeroporto, grazie all’assistenza di Belal che resta con noi fino all’ultimo momento, superiamo senza problemi lo svolgimento delle pratiche, e anche Alberto può tirare un sospiro di sollievo quando vede il suo bagaglio contenente il lungo pugnale superare tranquillamente il controllo della polizia e della dogana. Salutiamo con sincero calore il nostro autista e soprattutto Belal che, anche a detta dell’esperto Pietrone, si è dimostrato una guida competente e perfetta e infine ci imbarchiamo in perfetto orario.

Sul volo delle Austrian AirLine il gruppo dei pensionati anoressici dà l’ultima dimostrazione di un sano appetito mangiando una specie di pasticcio di pasta che, forse per la lunga astinenza dal cibo italiano, viene addirittura scambiato per lasagne alla ferrarese. E concludiamo il pranzo a bordo con una graditissima bottiglietta di vino austriaco che, dobbiamo confessarlo (e Pietrone non se n’abbia a male), risulterà molto ma molto più buono di quello di Ma’alula.

Una volta atterrati a Vienna il gruppo inevitabilmente si divide: Giorgio, Sandra e Pietrone, quest’ultimo particolarmente soddisfatto per l’esito del suo Primo viaggio IHV, si imbarcano velocemente sull’aereo per Milano, mentre gli altri dovranno pazientare poco meno di un’ora prima di poter partire per Roma. Poi volo tranquillo e senza storia e arrivo a Roma con un leggerissimo ritardo.

Il primo viaggio nato e organizzato all’interno del newsgroup it.hobby.viaggi è ormai terminato.

Ma a questo punto lascio la parola a Pietrone, anima e "corpo" del viaggio, invitandolo, insieme a tutti gli amici che attraverso questo mio diario hanno provato a viaggiare con noi, ad un intervento-commento finale, che sarà la conclusione più efficace per questo splendido "Civiltà Carovaniere IHV", nato "quasi per caso" ai fumosi tavolini dell’ormai gloriosa Osteria del Porto.

 

ARRIVEDERCI AL PROSSIMO VIAGGIO

(RUTA MAYA?)

 

 

 

 

 

 

 

 

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