Incontro
21 gennaio 2006
a casa di
Massimo Miniero

The mother


La casa dei giochi
(USA 1987)
di
David Mamet
con
Paul Pavel, Jacques Viala, Sergi Lopez, Nathalie Baye


Immagini del film

E così eccoci al primo incontro del 9° anno. Quest’anno, per la prima volta, non siamo al gran completo anche se le assenze non sono così numerose come avvenuto negli ultimi due incontri.
Il gruppo risente di cose successe negli ultimi mesi. Pesano le assenze. Sento, nelle ore che precedono l’incontro, come un senso di lutto.
Per fortuna c’è stata una nascita che mi riguarda da vicino. Da pochi giorni sono nonno.
E’ il mio primo incontro come nonno.
La cena la cui preparazione risente del mio stato d’animo, è discreta non eccellente; anche i cannoli, tradizione dolciaria che so essere gradita ad Anna, non sono al top.
Il film è «La casa dei Giochi» di Mamet. Il primo film di questo scrittore e regista di teatro.
E’ un film che mi aveva molto intrigato la prima volta che lo vidi in un passaggio televisivo seminotturno di molti anni or sono. E che ho ritrovato citato in un bel libro letto 2 mesi or sono e, in quella occasione, scelto per il mio incontro. Questo per dire che i nostri incontri sono preceduti da una lunga preparazione. Il film è introvabile in lingua italiana. Quando avevo quasi rinunciato a proiettarlo, mi sono rivolto a Roberto che, puntualmente, lo aveva registrato. Mi è dispiaciuto che poi, proprio lui, fosse tra gli assenti.
Caratteristica del film, ma frequentissima nei films di Mamet, è che niente e nessuno è mai come appare. Una doppia, quando non triplice, lettura della realtà come appare.
Nel film, inoltre, ciascuno usa l’altro (gli altri) senza scrupoli, per raggiungere il proprio scopo. Si tratti del danaro, o della vendetta. Questi sono i contenuti, in estrema sintesi, della mia confusa presentazione. Soprattutto mi colpisce, mi ha colpito, l’assenza di sensi di colpa nei protagonisti. Tutto ha una giustificazione. E mi pare che questo darsi una giustificazione sia non solo (o forse per niente) un atteggiamento difensivo. Inoltre avverto, una profonda disumanità, una sorta di cecità cognitiva ed affettiva, nella protagonista femminile (una psicoanalista!!!); una ferrea struttura difensiva con pochi cedimenti segnalati dai lapsus, dal senso di impotenza di fronte al malessere psichico nelle sue più gravi manifestazioni, dal bisogno conflittuale di una figura materna di riferimento ( l’amica analista più anziana), dalla facilità con cui finisce preda di un gioco (passione compresa) che credeva di poter gestire prima del crollo finale, della catarsi, del cambiamento. Una donna, per contrasto, molto acuta nel cogliere i particolari (la pistola che gocciola) ma incapace di cogliere la realtà nel suo complesso. Perché priva di quella umiltà tanto necessaria quando ci si inoltra in territori che non sono conosciuti e nei quali le nostre conoscenze non servono quando non costituiscono un handicap. Il sentimento della fiducia tanto importante in certe relazioni alla base del loro instaurarsi e durare (per esempio quelle terapeutiche, ma non solo) sembra non avere spazio nella storia di Mamet.
La discussione, interessante, si sviluppa intorno alla credibilità dei personaggi, all’inevitabilità degli accadimenti, omicidio compreso. Per permettere alla protagonista di uscire dal suo bozzo e librarsi a nuova vita
Mi pare che la figura femminile riscuota un certo successo e molta comprensione, non solo tra le donne. Anche Lucio, Filippo ( ma anche io) ne sono affascinati. E i più ritengono il suo atto finale (l’omicidio) non solo un comportamento credibile (e giustificabile) ma quasi inevitabile per permettere il suo cambiamento. Non è solo una vendetta: è un percorso di trasformazione, si dice. E’ quasi come se si pensasse che la vendetta rappresenta un passaggio inevitabile per pervenire al cambiamento. Si dice che l’odio, la vendetta non faccia bene, non solo, come ovvio, a chi lo/la subisce; ma soprattutto a chi ne è attore. Ma evidentemente questo non riguarda la protagonista che, sotto la “copertura” di un termine chiave: “autoassolversi”, di cui Lella sembra innamorarsi, migliora, apparentemente, la qualità della sua vita (non proprio esaltante, prima) nonostante un omicidio (o forse proprio grazie a..).
Unica voce dissonante mi pare quella di Antonella che si sofferma sull’accaduto (l’omicidio), sulla freddezza della protagonista nel compierlo e si domanda se si può accettare che sia questa la strada per il cambiamento.
L’unico spunto polemico nel corso della discussione è uno scambio che ho con Anna quando io affermo che mi pare poco credibile uno psicoanalista che ha una tale mole di problemi irrisolti come la protagonista mostra di avere (in effetti ho conosciuto anche di peggio) ed attribuisco il fatto, e lo penso davvero, alle inevitabili carenze di una qualsivoglia formazione. In tutti i percorsi formativi , per quanto rigorosi, ci sono dei buchi. Anna mi dà del presuntuoso ( in effetti un poco lo sono). Anche se la mia affermazione deriva da un problematica da sempre dibattuta e sempre attuale in ambito psicoanalitico.
Geppino è raffreddato e più difficoltosamente di altre volte si lascia convincere a dispensarci le sue perle di saggezza. Ma questa volta non mi convince: quanto dice mi pare troppo cerebrale, forzato. In parte riprende e corregge (tenta di chiarire) quanto ho detto su l’assenza di senso di colpa da parte dei protagonisti per le azioni non solo criminose ma lesive dell’integrità psichica e fisica dell’altro; su come questa assenza sia dipendente (interdipendente) all’aver introiettato l’autoassoluzione. Mi rendo conto, adesso che scrivo, di come il discorso sia complesso. Esistono individui che non hanno bisogno di autoassolversi, che non provano colpa per quello che fanno perché non sanno distinguere tra bene e male: sono privi di qualsiasi senso etico. Ma siamo nella psicopatologia. Le persone normali (il richiamo alla banalità del male di Hannah Arendt è inevitabile) non possono fare a meno di giustificarsi e, quindi, autoassolversi, per sfuggire ai sensi di colpa che, altrimenti, li schiaccerebbero.
Geppino, come scrivevo, mi risponde partendo da una precisazione semantica e proseguendo in una distinzione, molto pignola, tra colpa, giustificazione, assoluzione che non saprei, oggi, riportare con fedeltà: ho, però, il ricordo di non essere stato d’accordo con lui; evento, peraltro, raro. Forse per questo lo ricordo.
Come sempre la discussione continuerebbe ad oltranza ma i meno nottambuli danno l’avvio all’esodo che si compite tra battute e commenti e con Lella che continua ad autocompiacersi per aver scoperto, dato nome (autoassoluzione) ad un suo sentire che spiega l’assenza in lei di qualsivoglia senso di colpa. Ma sarà poi vero (l’assenza di sensi di colpa)?