I senegalesi costituiscono,
in ordine di grandezza, la nona comunità di
stranieri presenti in Italia. Secondo le stime della Caritas, nel
2006 a Roma ne vivono 46.327.
Roma sunu Senegal in lingua
wolof vuol dire Roma il nostro Senegal. E’ un’espressione coniata insieme ad un immigrato senegalese,
Ibrahim, che dopo alcuni anni di lavoro in Italia, di speranze e di
delusioni è tornato in Senegal.
Egli aveva aderito alla proposta di collaborare a questo progetto
perché riteneva che, attraverso la creazione di un sito internet,
un libro, una mostra itinerante, la raccolta di storie di vita, si
sarebbe potuta illustrare la condizione dell’immigrato senegalese
anche a coloro che, ancora in patria, progettavano di emigrare. Roma
sunu Senegal avrebbe potuto raccontare, la distanza che spesso si
registra, nel bene e nel male, fra il proprio progetto migratorio
e le condizioni di vita e di lavoro, che si realizzano, qui a Roma.
Ibrahim abitava al Residence Roma, nel XVI municipio, eravamo vicini
di casa, l’ho conosciuto grazie alle associazioni di volontari
che, in zona, si occupano degli aiuti per il continente africano e
delle condizioni di vita degli immigrati da lì provenienti.
Il Residence Roma è stato un luogo di approdo per molti senegalesi
che sono arrivati a Roma, direttamente dall’Africa e qualche
volta passando dalla Francia. Dopo un certo numero di anni di regolare
affitto, la proprietà del Residence non ha rinnovato i contratti,
ha abbandonato ogni manutenzione creando le condizioni per il degrado.
Ora il residence è stato sgomberato e malgrado le condizioni
critiche in cui innegabilmente ha versato negli ultimi due anni, non
era definibile solo come una struttura fatiscente dove risiedeva un
numero imprecisato di immigrati senegalesi.
Il Residence Roma è stato un luogo di incontro anche per quei
senegalesi che abitavano in altri quartieri e che avendo una casa
propria tornavano a trovare i loro fratelli, a mangiare con loro.
Era un luogo che, durante il Ramadan, si trasformava in uno spazio
per funzioni religiose per le quali convergevano senegalesi da varie
parti della città. E’stato un luogo dove cantanti, cantastorie,
danzatori, suonatori di cora e percussionisti, attraverso una rete
di solidarietà si sono affrancati dalla loro condizione di
ambulanti. E’ stato un luogo dal quale, la comunità senegalese
ha iniziato un processo di avvicinamento e compenetrazione con la
città circostante, con le istituzioni e con le scuole, i licei
di Monteverde e Bravetta in particolare, con cui ha stabilito una
fitta rete di rapporti ed iniziative culturali.
E’ stato il simbolo e allo stesso tempo il segno della qualità della
vita dei senegalesi immigrati: uomini e donne che non esauriscono
la loro carica umana ed espressiva nella povertà e nell’esclusione,
ma danno vita ad un mondo sfaccettato e composito, dove le parole
solidarietà, fratellanza, famiglia hanno significati a noi
europei sconosciuti, che derivano dalle loro radici, dalla loro struttura
familiare. Racconta a tal proposito il griot Badarà Seak che
sua madre ha sposato suo padre che ha avuto 3 mogli e che tutti vivevano
nella stessa casa con 30 figli.
E’ stato da questo luogo che si è partiti per una ricerca
verso altre zone di Roma dove la presenza senegalese è numerosa,
prima fra tutte quella del Pigneto.
Il processo d’integrazione è condizionato da numerosi
fattori, ma è attraverso il rapporto di lavoro, che l’immigrato
riesce a stabilire nel paese di accoglienza, che si perfeziona questo
processo. Il processo di integrazione è uno dei fattori di
mutamento della condizione antropologica dell’immigrato. Cambia
la percezione di sé anche in ragione della percezione che i
romani, in questo caso, hanno del lavoratore straniero. I matrimoni
misti vedono sempre da parte senegalese un lavoratore regolare, non
un clandestino da regolarizzare. Luogo comune vuole che, almeno in
ambito romano, il senegalese sia percepito esclusivamente come venditore
di prodotti falsi, ma la realtà ci dice che la comunità senegalese
a Roma è anche fortemente caratterizzata da artigiani, da artisti,
da uomini di cultura che esercitano il loro lavoro, le loro professioni
ed arricchiscono questa città.
La ricchezza di questa comunità è difficilmente percepibile
da un occhio frettoloso o disattento. Per conoscerli e, quindi, “vederli” è necessario
un incontro umano ravvicinato ed una corretta messa a fuoco.
Questo progetto percorre un’esplorazione e una conoscenza ravvicinate
di questa realtà, attraverso la presentazione di immagini e
parole raccolte direttamente dai Senegalesi.
Obiettivi
•
Presentare al pubblico italiano una visione più articolata
e complessa del fenomeno migratorio proveniente dal Senegal.
•
Rendere noto all’opinione pubblica come la comunità senegalese
di Roma sia riuscita ad avviare rapporti proficui con l’amministrazione
locale, organismi del volontariato e del terzo settore, così come
a creare una rete di scambi culturali con le scuole, malgrado le precarietà delle
condizioni di vita in cui versano molti senegalesi
.
•
Realizzare un prodotto che possa essere fruito anche dagli abitanti
del Senegal, soprattutto quelli intenzionati all’emigrazione,
dei benefici, ma più spesso delle difficoltà a
cui andrebbero incontro una volta arrivati in Italia.
Il progetto prevede la realizzazione di due forme di prodotto,
strettamente legate nell’elaborazione, ma che possano
vivere di vita propria: la mostra fotografica ed il libro.
Esse saranno destinate, come già evidenziato nel punto
precedente, sia al pubblico italiano che a quello senegalese.
Il lavoro fotografico, partendo dal concetto di messa
a fuoco, precedentemente enunciato, presenterà, nel suo allestimento, un percorso iniziale,
in cui, immagine dopo immagine, la fotografia di un volto di un uomo,
di un africano, di un senegalese si farà sempre più nitida
fino a generare un incontro di sguardi. Il visitatore e/o il lettore,
al termine di questo percorso di avvicinamento all’altro, entrerà nell’ambito
del racconto fotografico che si avvarrà, in un rapporto
di autonomia di linguaggio, della parola scritta con estratti
di storie
di vita, sia in lingua italiana, che francese.
La prospettiva della ricerca sarà quella di chi si fa accompagnare
dal suo stesso soggetto, d’altra parte, la prospettiva, è un
dato insopprimibile della conoscenza sia nella vita che nella fotografia:
la conoscenza, l’incontro con l’altro, non la sovrapposizione
all’altro, che ne voglia fagocitare le differenze.
Roma, 18/09/2007
Roberto Cavallini
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