Altri Acuti



IO LE CONOSCO QUELLE FACCE

di  Nantas Salvalaggio

 Io le conosco quelle facce, ho già visto quei volti affilati di vecchi che marciano nel fango, quei fagotti di stracci in cui le madri in fuga dal Kossovo avvolgono i loro bimbi.
 Sotto le immagini dei fuggitivi in colonna, che ora inondano gli schermi della televisione, con il loro carico di silenzioso orrore, scorrono i nomi dei luoghi martoriati: Kukes, Qafe Prushi, Pristina. Sono le città, sono i villaggi e le colline del Kossovo rastrellato dalle bande del presidente Milosevic. Ma sono le medesime facce di donne, di bimbi, di vecchi, che ho già visto scappare mezzo secolo fa dai paesi del Montello, del Pasubio, del Piave, del Tagliamento. Sono i nostri fratelli dalla parte sbagliata, come i popoli perseguitati dalla maledizione biblica.
 Osservo quei reportage di sofferenza e di morte, dalla poltrona di casa mia, e non ho il minimo dubbio: quei drappelli di profughi affamati e disperati sono gli stessi dei miei paesani, dei miei amici e parenti deportati nel ’44 in Germania sui treni piombati dalle squadracce delle ‘SS’. Con una sola differenza: che le ‘SS’ non sempre bruciavano le case degli esiliati, come fanno ora i macellai della Serbia: si limitavano a rubare gli ori delle loro donne, qualche piatto o posata d’argento. Come a dire che “il peggio non è mai morto”.
 Forse ci basta una frase, un piccolo verso, per bollare la tragedia che si svolge al di là dell’Adriatico: è un risentito verso di Jacques Prévert, dalla poesia ‘Barbara’: “Quelle connerie, la guerre!”. Che grande, che immensa imbecillità, la guerra!
 Quando vedo quelle madri kossovare che portano i loro bimbi piccolissimi dentro una tenda della Croce Rossa, e con un solo gesto raccomandano le loro fragili creature alla solidarietà dei medici, la mia memoria schizza automaticamente in un altro tempo e in un altro luogo: e rivedo le colonne dei miei concittadini, ebrei veneziani, che sotto la minaccia delle baionette tedesche, salgono sui vagoni-bestiame tenendo i piccoli per mano, sotto le volte annerite della stazione di Santa Lucia.
 Io li ho visti partire, certi miei compagni di liceo ebrei, ma nessuno di loro è più ritornato. Come ho visto partire gli ufficiali del IX Alpini, dalla stazione di Conegliano, disarmati e dileggiati dai soldati tedeschi perché non volevano passare dalla parte di Hitler: anche loro avevano le stesse espressioni smarrite, gli stessi occhi sbarrati dei vecchi e dei ragazzi che evadono dall’inferno del Kossovo. Avevano un solo torto: odiavano la violenza, rifiutavano quel turpe gioco che si chiama guerra.
 A queste altre migliaia di esuli, di perseguitati, di affamati – che ora vediamo sui nostri teleschermi -  quale conforto possono mai portare le retoriche litanie dei loquaci commentatori da ‘studios’, dei verbosi politici d’ogni stirpe e colore?
 Basta guardare per un attimo la grinta ferocemente impassibile del dittatore jugoslavo Milosevic, i suoi occhi di marmo, per prevedere che non ci sarà voce al mondo in grado di commuoverlo, non ci sarà pianto di bimbo capace di ammansirlo. Egli è rimasto indifferente persino alla figura vacillante del vecchio pontefice, vestita di bianco, che aggrappata alla croce di Cristo, durante la Via Crucis del Colosseo, invocava con voce accorata: “Fate cessare le sofferenze dei popoli inermi, aprite un corridoio di pace per i soccorsi ai fuggitivi minacciati di genocidio!”
 Non c’è frustrazione più grande di chi è costretto a contemplare la ferocia dei propri simili e non ha nulla, non ha alcun mezzo per farla cessare. E mentre salgono al cielo – un cielo purtroppo indifferente – i pianti delle vittime, una seconda pena si aggiunge al dolore dello spettatore impotente: la pena di non potere scegliere tra due mali ugualmente spaventosi; l’angoscia di dover decidere se sia più disumano chi spara con la mitragliatrice sui connazionali in fuga, o chi bombarda di notte con i missili ‘intelligenti’.
 Quando hai soffiato il soffio della vita, o Signore, su quel manichino di creta che sarebbe diventato Adamo, sei sicuro di non aver dimenticato qualcosa? Un granello di sale in più, un pizzico di saggezza sarebbe forse bastato. Ma ormai, come tutti sanno, ormai è tardi per provvedere.