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Capitolo Primo
Capitolo Secondo


Introduzione:

Quella benedetta rivoluzione, che a tutti è parsa fuori moda dopo la caduta dell’Impero sovietico e della ideologia comunista, vuoi vedere che scoppia all’improvviso dove meno te l’aspetti, in Paradiso? E’ il tema insolito e malizioso che Nantas Salvalaggio tratta nel suo nuovissimo romanzo, “Sognando sognando”.
La notizia inquietante di una sommossa nell’alto dei Cieli arriva a un giovane prete, Gabriele, che lavora per una rivista di teologia in Vaticano: notte dopo notte, per dodici notti consecutive, alcune sante famose, da Santa Caterina da Sieta a Santa Rita da Cascia, avvertono in sogno il piccolo e stralunato sacerdote che “c’è del marcio nell’Aldilà” e che le sante del Paradiso (l’altra Metà del Cielo) hanno deciso di ribellarsi a duemila anni di condotta maschilista da parte delle più alte gerarchie celesti.
In un secondo tempo anche la Madonna si unisce alle devote consorelle e lancia una sfida temeraria: “Dopo duemila anni ha deciso di rompere con Giuseppe, che del resto non ha mai veramente amato. Da tempo si sente addirittura ‘separata in casa’…
Non è che l’inizio di una cavalcata emozionante tra cielo e terra, nella quale l’autore gioca a rimpiattino con i tabù più consolidati della iconografia cattolica.”
E’ probabile che il romanzo non possa uscire nell’anno consacrato al Giubileo. Difatti un grande editore ha avvertito l’Autore che la sua ‘dissacrante ironia’ non sarebbe affatto gradita oltre il Portone di Bronzo.
Ai lettori liberi e spregiudicati di Internet l’Autore ha deciso di offrire i primi due capitoli di “Sognando sognando”; ben sapendo che potrà ricevere consensi o fischi, a seconda dei gusti.


SE LA VITA E’ SOGNO

Parte prima


Capitolo Primo

Eminenza,

chiedo umilmente perdono se oso rivolgermi a Lei. Ma non ho altra strada. Mi hanno chiuso in un vicolo cieco, bollato come eretico, fra sensi di colpa e desideri di morte. Lei avrà l’indulgenza, io mi auguro, di sceverare il bene dal male e la ragione dalle insinuazioni. Alla base delle mie recenti disgrazie suppongo ci sia la mia ingenuità, il mio bisogno di onestà e di chiarezza. Purtroppo sono stato frainteso e ingiustamente punito. Sono stato espulso dal monastero e dalla pontificia università, calpestando la mia vocazione sacerdotale.
Ma è tempo che racconti ogni cosa dal principio, da quei sogni – non so più giudicare se miracolosi o scellerati - che sono alla radice del mio castigo. In certi momenti maledico il giorno e l’ora in cui ne ho parlato ai miei superiori: padre Mariano dell’Università Gregoriana e monsignor Ildefonso, caporedattore della rivista “Ecclesia”.
E’ probabile che nelle mie attuali condizioni, l’impulso abbia il sopravvento sulla temperanza. E tuttavia desidero precisare, Eminenza illustrissima, che non mi sembra di aver agito in malafede o con leggerezza. Prima di farne parola con qualcuno, ho voluto essere ben certo dei precisi segnali che mi venivano dall’inconscio. Solo all’ultimo sogno, il dodicesimo, che mi aveva sconvolto al punto da procurarmi un’altissima febbre, ho avvertito l’obbligo morale di aprirmi alla persona che ritenevo di grande saggezza: quel padre Mariano che in passato mi aveva mostrato affetto e comprensione, il mio attuale insegnante di teologia morale.
Ma ora voglio arrivare al nocciolo, toccare la materia, per molti versi inquietante, di quei miei dodici sogni, che agli occhi dei miei superiori rappresentano la causa prima della mia devianza.
In principio mi apparve Caterina, la grande santa senese. La riconobbi perché stavo pregando nella cappella del monastero – sognavo di pregare - e lei si staccò dal bel quadro che orna la nicchia di sinistra, a lei dedicata. Mentre scendeva dal piccolo altare, e prendeva posto sulla mia stessa panca, inginocchiandosi, d’un tratto lasciò cadere sul pavimento il mantello azzurro e il candido giglio che prima teneva tra le mani. Disparve nell’aria anche l’aureola luminosa che sulla tela cingeva i suoi capelli castani.
“Non ti voltare!” bisbigliò, “Fai finta di niente”.
Il suo corpo emanava un profumo di mughetto o forse di gelsomino (ero troppo turbato per poterlo distinguere). Ma la cosa che più mi stupì, è che le sue mani diafane, dalle lunghe dita affusolate, avevano le unghie laccate di rosso: un dettaglio piuttosto insolito in una santa monaca, venerata e ammirata nei secoli per i suoi rigorosi costumi.
“Vai a fare due passi in giardino” continuò Santa Caterina, “ti devo parlare. E non far caso alla mia persona, ché tanto nessuno, al di fuori di te, mi potrà vedere”.
Stellata era la notte e l’aria tiepida; ma benché il giardino fosse del tutto privo di illuminazione, spioveva abbastanza luce da quel cielo color malva che si stende su Roma dopo il tramonto.
“Chiamami pure Cathy” mi disse subito la santa, mentre sedeva su una panchina accavallando le gambe. Erano gambe lunghe, dalle caviglie sottili, generosamente esposte a causa della minigonna color fucsia. Poi proseguì, ravviandosi i capelli ondulati che le ricadevano sulle spalle:
“Se abbiamo scelto te, è perché sei un ragazzo sveglio, di cuore incontaminato, e hai accesso al quartier generale della informazione cattolica. Mi preme inoltre dirti che non ti parlo a titolo personale, bensì a nome delle mie compagne celesti, sante e meno sante, cattoliche mussulmane e protestanti. E la prima cosa che vogliamo farti sapere è che in Paradiso non è tutto oro quello che luccica; non è puro incenso il fumo dei turiboli. Ma per questa notte ti ho già detto abbastanza. Riprenderemo il discorso domani o dopo. E ne sentirai delle belle.”
Si alzò, nella penombra i suoi occhi brillavano come fiamme di candela. E dopo essersi curvata su di me, mi posò un tenue bacio sulla fronte e disparve. Nel buio restò per qualche minuto qualcosa di lei, una impalpabile silhouette di profumo al mughetto.


A questo punto mi svegliai di soprassalto. Avevo la gola secca e il camicione di tela grezza inzuppato di sudore. Nella cameretta a due letti che occupo in convento, il mio compagno Pierre dormiva della grossa. Svegliarlo? Non era certo il caso. Del resto, che avrei potuto dirgli? C’era una tale confusione nella mia testa. E poi Pierre è un giovane prete di Marsiglia, timido e silenzioso, come me fresco di voti, che ha l’hobby della cucina vegetariana. Sostiene che è propedeutico alla santità. Era stato lui a preparare quella zuppa di cipolle che avevamo gustato la sera prima, con una bottiglia di Beaujolais Nouveau. Senza dubbio un piatto squisito, da leccarsi le dita, ma greve come un macigno. E siccome ora provavo un certo qual senso di nausea, mi sembrò naturale attribuire quel sogno sensuoso e strampalato alla faticosa digestione di una specialità francese.
Non mi riuscì in ogni modo di riprendere sonno. Quando suonò la sveglia, e corsi in bagno per le consuete abluzioni, fui spaventato dal colore terreo del mio viso, e dalle profonde occhiaie blu-navy. Mentre accennavo a insaponarmi la faccia, Pierre mi sorprese con una risata alle spalle.
“Gesummaria, quanto sei brutto!” disse. “Non avrai mica fatto i giochetti del demonio?”
Imbecille. Quanto sanno essere imbecilli i francesi, alle volte, con quelle loro arie di superiorità. Ma dopo un primo moto di rabbia, non diedi troppa importanza alle insinuazioni di Pierre, che non è mai cattivo o malizioso di proposito. Chissà come gli saranno venuti in mente i giochetti solitari sotto coperta. A meno che, sospettai, a meno che non sia lui il primo a praticarli. Con tutte la sue travi, avrebbe detto l’Evangelista, come si permetteva di criticare i fuscelli miei?
La giornata scivolò via come di consueto: quattro ore all’Università, due ore di volontariato all’Ospedale ‘Gemelli’, e la sera la funzione del Santo Rosario nella cappella. Ma qui mi aspettava una seconda sorpresa, e che sorpresa: mentre recitavo le Ave Marie del rosario a capo chino, attraversato ogni tanto dal sogno di Santa Caterina, sentii sul viso una specie di refolo leggero, e nel refolo il profumo di mughetto che tanto mi aveva turbato la notte precedente. Allora alzai il capo e guardai; e mentre fissavo il quadro di Santa Caterina, il lungo giglio nelle mani e il manto azzurro sulle spalle, vidi senza ombra di dubbio che mi rivolgeva un sorriso ammiccante. Quel sorriso era diretto a me in maniera esplicita, non c’era da dubitarne; e siccome la santa voleva sottolinearlo, strizzò due volte l’occhio in segno d’intesa.
Il sangue mi montò alla testa, sentivo le orecchie bruciare e ronzare insieme. Stavo sognando, o avevo delle allucinazioni ? Con la coda dell’occhio cercavo di scrutare i miei compagni all’intorno: che si fossero accorti di quei segnali? Possibile che non avessero notato quel sorriso disinibito di Santa Caterina, per non parlare dell’occhiolino che mi aveva fatto dall’altare?
Malgrado la mia comprensibile trepidazione, m’accorsi che nessuno dei miei confratelli aveva notato quel singolare comportamento da parte della Santa: chi biascicava preghiere, chi si chiudeva il viso tra le mani, e chi addirittura sonnecchiava sul banco. Ma dell’intesa intercorsa tra me e la venerata icona, nessuno pareva essersi accorto.
Nel medesimo tempo io vibravo come una foglia in un turbine di vento; sentivo che ero prigioniero del campo magnetico di un superiore destino, e di conseguenza stavo in attesa di ulteriori segnali. Dopotutto c’era stato un salto di qualità fra il primo e il secondo messaggio. Il primo era avvenuto nelle pieghe di un sogno, ma l’altro mi aveva raggiunto a occhi aperti, nel sacro silenzio di una chiesa. A meno che non abbia ragione il buon Calderon, che tutta la vida es sueno. Insomma, che si voleva da me? Di quale arcano disegno diventavo lo strumento?
In quel preciso istante ho avvertito una sorta di strappo dentro, seguito da un buio improvviso; né saprei dire quanto sia durata quella temporanea perdita di memoria.
Quando ripresi i sensi, mi ritrovai nella cappella del convento, la funzione della sera era finita e un giovanissimo chierichetto stava spegnendo i doppieri sull’altare maggiore. Uscii per ultimo, dopo che i miei compagni si erano già diretti verso il refettorio; poi voltai a destra, lungo il tunnel d’edera che conduceva al giardino. Mi sembrava che una forza invincibile guidasse i miei passi. E difatti, mentre la sera precipitava sugli alberi e le case lontane, una voce mi chiamò dalla panchina di destra, accanto alla fontana. Era ancora lei, la santa che mi aveva sorriso. . .Caterina. Quanto tempo fa?
“Ciao, signore!” mi salutò con la disinvoltura di una pischella di Trastevere: “Vieni qua che dobbiamo parlare”.
Dopo avermi fatto sedere alla sua destra, mi afferrò un polso e bisbigliò:
“Santa Vergine, il tuo cuore va a cento. Di che cosa hai paura?”
“Non è paura” farfugliai: “E’ piuttosto la gran meraviglia. Mi succedono cose che fino a ieri credevo impossibili.”
“Uomo di poca fede, niente è impossibile sotto la volta dei Cieli. Ma io sono qui per una missione difficile e improrogabile; ho il compito di aggiornarti sul deplorevole stato in cui è piombato il Regno dei Cieli.”
“Ma perché venite a raccontarlo proprio a me, santa Caterina? Io sono l’ultimo pedone del gioco, non conto nulla di nulla”.
“Questa è una valutazione che non spetta a te, ma ad altri che più sanno. Non ti ha mai insegnato nessuno che ogni valanga nasce da un minuscolo sasso? Ora, per noi, tu sei il piccolo sasso. Raccogli il lamento che scende dal cielo e presto correrà lungo i sentieri delle umane genti. Le quali devono sapere che il Paradiso, come la neve e l’aria, non è più quello di una volta. Vi dominano il caos, l’ingiustizia e la corruzione. Si direbbe che sia rimasto fermo, o tornato indietro, ai secoli bui del peggior Medioevo. Nell’odierno Paradiso, sogno e meta di tanti poveri cristiani, domina la prepotenza dell’uomo e la donna vi è tenuta in schiavitù.”
“E io potrei cambiare le cose in Paradiso, secondo voi, quando non sono in grado di spostare di una virgola il regolamento del monastero in cui vivo?”
“Non darti pensiero: secondo i nostri piani, dovresti semplicemente diffondere i nostri messaggi, stampare i comunicati che di volta in volta ti faremo recapitare in convento o nella redazione di ‘Ecclesia’. Vedrai, sarà un gioco da ragazzi infilarli nel cervellone del giornale e metterli a stampa”.
“Ma se si accorgeranno che sono stato io, mi cacceranno con infamia. Mi butteranno in mezzo a una strada!”
“Non succederà mai. Ricordati che potrai contare sulla parte migliore del Paradiso: tutte le sante, le beate e perfino le peccatrici del Purgatorio, che hanno votato per la grande rivoluzione. Noi non ti lasceremo mai solo. Ma dipenderà anche da te la diffusione del manifesto del femminismo celeste, che ha mosso guerra all’arroganza dei santoni machi, da San Giorgio a San Pietro a Sant’Antonio. Brutta genia. E’ tempo che in Terra lo si sappia e che lo stesso Papa si schieri senza ipocrisia: o con noi o contro di noi. Non ti sembrerà credibile, forse, ma in Paradiso, specie negli alti ranghi, c'è ancora chi prende il Papa molto sul serio."
Non saprei dire se mi sentissi più impacciato o confuso; ma intanto che “Cathy” perorava la causa della giustizia sociale e della uguaglianza fra i sessi nel Regno celeste, io osservavo il suo curioso abbigliamento, da modella degna di un défilé parigino. Sembrava sbocciata dalla copertina di una rivista patinata, tipo ‘Harper’s Bazaar”: conturbanti mi parvero le scarpe, di pelle rosso sangue e con alti tacchi a spillo; la gonna era del medesimo colore e la camicetta d’un rosa tenue, di merletto trasparente.
“Ma in Paradiso” provai ad indagare, “tutte le sante vanno in giro vestite come lei, Cathy?”
“Ti ho già pregato di darmi del tu. Quanto alla moda, è fra le nostre rivendicazioni più elementari. Siamo arcistufe di mostrarci come nelle sacre icone, sottanoni lunghi e accollati, niente rossetto e guai se fai un salto dal parrucchiere. Questi straccetti che mi vedi addosso, li tengo di nascosto in un appartamentino che ho preso in affitto a Trastevere; almeno quando sono qui sulla Terra, in vacanza o licenza-premio, mi addobbo come mi pare e piace.”
“Scusami, Cathy, ma non posso nasconderti il mio imbarazzo: che cosa ve ne importa, a voi che vivete nell’immortalità, di quello che si può dire o scrivere sulla nostra miserabile Terra? Fra l’altro, non vedi com’è ridotta, cloaca massima di vizi e di veleni?”
“Ma caro il mio ragazzo, non hai idea delle fatuità e delle bassezze di cui sono capaci i più autorevoli e venerati santi del calendario. Seguono i varietà e lo sport in televisione, giocano al Lotto e fanno un uso smodato di creme e profumi; c’è persino qualche vanitoso che si è abbonato all’Eco della Stampa. Il più fanatico è senz’altro San Luigi Gonzaga, che va matto per gli abiti di foggia inglese, cuciti a Savile Row, e le scarpe di Bond Street. Sant’Antonio fa invece lo jogging con le scarpe da ginnastica e i blue-jeans, facendosi largo con quel suo cipiglio aggressivo, da manager dell’Antica Ditta Miracoli. Ha messo su un giornale nel suo ‘sito’ Internet, tradotto in quattro lingue, e pretende che ciascuno di noi sottoscriva un abbonamento. Pur di vendere copie, non si fa scrupolo di invitare gli scrittori più debosciati, dal marchese De Sade all’Aretino a Gabriele d’Annunzio.”
“E San Pietro, cosa fa: zitto e mosca? Non sarebbe suo compito mettere ordine? Un tempo si diceva che era l’inflessibile guardiano del Paradiso!”
“Povero Pietro, lasciamo perdere: ormai irriconoscibile, sembra uno di quei barboni che dormono sotto i ponti. Senza contare che è praticamente sordo, afflitto da dolori artritici e acciacchi vari; non risponde neppure al telefono, la sera si ubriaca con un vinaccio che fa lui e c’è gente che l’ha sentito parlar male di tutti, perfino di Gesù. Dice che Gesù l’ha diffamato nei Vangeli, con la storia che avrebbe rinnegato per ben tre volte il Figlio di Dio prima che cantasse il gallo. “Ma quale gallo!” andava gridando l’altro giorno: “Quale gallo, se ce lo siamo mangiato con le patate al forno per l'ultima cena?"
Suonò la campanellina che ci convocava in refettorio.
“Mi spiace molto, Cathy, ma debbo proprio andare. Ci chiamano per cena, e vi prego di non invidiarmi: è previsto il solito pollo di batteria, con cicoria e qualche formica dell’orto.”
“E che t’importa della cena? Dai retta a me, salta quella sbobba, almeno per una volta. E se te la senti di farmi compagnia, ti voglio portare in una trattoria rustica ma assai coccola, sta in un vecchio casale sull’Appia Antica ed è condotta da certe suore francesi. Non hai idea di come si mangia, e che vinello si beve. Modestia a parte, da vera toscanaccia, di vino un po’ me ne intendo. Allora, ci stai?”
“Non vorrei che il rettore si accorgesse della mia assenza.”
“Lasciati servire, non oserà torcerti un capello. E se poi dovesse alzare la voce, tu rispondi con le parole di quel rompiscatole dell’Alighieri: “Vuolsi così colà – con quel che segue”.
Uscimmo dal cancelletto della servitù. Mi pareva di camminare sulle uova. Non ero mai uscito a cena con una santa.
Ma una santa che aveva abbandonato la regola della castigatezza per la filosofia degli epicurei. Bisognava vederla con quale competenza sceglieva i cibi nel menù e le marche nella lista dei vini. La cena si chiuse in bellezza, con un piatto di profiteroles e una bottiglia di champagne rosé.
“E adesso?” domandò Cathy alla fine, pagando il conto con la sua carta di credito azzurrina: “Vuoi fare un salto nel mio piccolo attico a Via delle Cinque Lune? Dalla mia camera da letto si vedono le mura vaticane e il Cupolone. Quando l’aria è fina, ti sembra di poterlo toccare”.
Era un invito al di sopra di ogni sospetto. Non potevo dire di no alla santa che aveva convinto papa Gregorio XI ad abbandonare la corte di Avignone per ritornare a Roma. E così, mentre si rifaceva le labbra con uno ‘stick’ di rossetto, ordinai al cameriere di chiamare un taxi.
Ah, San Pietro di notte, visto dal terrazzino di santa Cathy in via delle Cinque Lune: sotto il cielo color mosto, la cupola della basilica pareva lo zucchetto di un cardinale. Appoggiati alla ringhiera, Cathy ed io guardavamo il formicolio delle automobili sulle strade e il lungotevere. Ma per qualche ragione che non capivo, Cathy mi pareva inquieta: ora accendeva una sigaretta, ora la spegneva.
“Bevi qualcosa?” domandò alla fine, rientrando in salotto.
“No” dissi, “credo di aver bevuto abbastanza”.
Lei invece si versò un po’ di cognac in un grande bicchiere, e dopo aver scalciato in aria le scarpine rosse con il tacco a spillo, sedette su un lungo divano bianco, tutta raggomitolata come una morbida gattona siamese.
“Vieni, siediti vicino a me” bisbigliò con gli occhi stretti di chi ha messo troppo alcol nel serbatoio: “aiutami a fare queste parole incrociate.”
Tutto quello che accadde dopo mi fa pensare a un vortice d’acqua azzurra, luminosa e calda; come un’estasi innocente, ma così diversa dai piaceri che avevo fino ad ora esplorato. Era piuttosto un concerto che coinvolgeva tutti i sensi: un profumo di fiori mi stordiva (erano i capelli di Cathy?); un vino denso e soave bagnava le mie labbra (o erano le sue labbra?), mentre una musica di pianoforte vibrava nell’aria. Sarà questo, pensavo, l’amore sublime di cui parla Platone?
Ho la sensazione di avere urlato mentre mi destavo; e poco prima di destarmi, d’aver cercato strenuamente di rimanere dentro i vaghi recinti del sogno.
“Ma Cathy, Cathy, dove stai scappando?” provavo a fermarla. Purtroppo le mie grida non bastarono a trattenerla, e sparì nella nebbia.
Fortuna che Pierre, il mio compagno di stanza, aveva un sonno di piombo e non registrò i miei deliri. Né gli venne in mente di farmi delle domande imbarazzanti quando mi sorprese, al suono della sveglia, seduto presso la finestra con il viso tra le mani.


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Capitolo Secondo

Il fatto che più mi preme rilevare, Eminenza, è l’intensità delle emozioni che provavo durante il sogno. La vita sognata era molto più vera ed entusiasmante di quella vissuta alla luce del giorno. Ma c’è dell’altro. Io non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte, il sole dall'ombra, perché mi accadeva di sognare ad occhi aperti, come chi fosse caduto in una sorta di incantesimo.
L’impegno più duro, naturalmente, era districarsi, come dice Garcia Lorca, tra il falso e il vero verde. Faticoso era cominciare una giornata qualunque: lavarsi, vestirsi, prepararsi ai doveri e agli appuntamenti dell’università e del giornale con un minimo di impegno e di metodo. Purtroppo io vagavo spesso come un automa, seguendo passivamente la scia dei miei confratelli, ma non riuscivo a pensare ad altro che ai miei sogni proibiti, ai bordi dell’eresia. Durante le lezioni all’università, i docenti mi colsero più volte impreparato, distratto e disperato insieme. Padre Mariano mi domandò se per caso avessi dei problemi di salute; al che risposi balbettando che sì, m’ero alzato con la testa indolenzita e forse avevo qualche linea di febbre.
La cosa più naturale, di cui sentivo un assoluto bisogno, sarebbe stato un libero sfogo con qualche amico fidato, una completa confessione di ciò che mi stava accadendo nelle situazioni più inaspettate. Che cosa potevano significare quelle strane visite di Santa Caterina, quei suoi sediziosi messaggi d’oltretomba? Forse avrei dovuto parlarne al mio padre spirituale (don Ildefonso), o a un qualche psichiatra, pensavo. Ma mi tratteneva il timore di essere messo al bando dalla comunità religiosa come un elemento infetto, un pericoloso focolaio di perdizione.
Una sera mi infilai nel letto con la più ferma determinazione di contrastare ogni trasgressione onirica. Fin da quando era suonato il vespro, avevo pregato a lungo, in ginocchio, sul freddo pavimento di cotto; a un certo punto, sia pure con qualche disagio, m’ero rivolto direttamente a Santa Caterina:
“Dico a voi, veneratissima patrona di Siena, protettrice delle vergini: se volgete gli occhi alla mia misera stanza, tenete lontani gli spiritelli di Eros e le insidie di certi profumi narcotizzanti. Certo non potete sentirvi responsabile di ciò che accade nel regno dei miei sogni, ma voi intendete il senso della mia supplica. Se è possibile, vorrei evitare di perdere il senno o, peggio ancora, di invaghirmi di voi: lo spirito è onesto, ma la carne è debole”.
Il sonno mi placò dopo una lunga attesa, ma ancora una volta caddi nella rete dei messaggeri che dicevano di scendere dal Paradiso. Non era però la voce di Cathy, questa volta, né il suo acuto profumo di mughetto, che venivano a turbarmi. Con un tono gentile, ma pur tuttavia fermo, una donna dai lineamenti minuti e dagli oblunghi occhi verdi sedette ai piedi del mio letto e disse:
“Sono Chiara da Assisi. Sono qui per conto della mia amica Caterina, che si scusa di non poter venire: è impegnata in assemblea, ne avrà per un paio di giorni. Ma ti prega di non tradire la sua fiducia e di tenerti pronto: al più presto ti faremo avere il Manifesto Femminista d’Oltretomba. E tu farai in modo di pubblicarlo su ‘Ecclesia’.”
“Mi scusi se le chiedo di essere più precisa” dissi: “lei è proprio Santa Chiara di Assisi, la fondatrice dell’Ordine delle Clarisse? La medesima giovinetta nobile, dei conti di Coccorano, che abbandonò le ricchezze e gli agi per seguire l’esempio di Frate Francesco?”
“Sono davvero colei, non lo posso negare!”
“Ma allora mi spieghi il busillis, beatissima Chiara: come è spiegabile che una santa illuminata come Caterina si rivolga proprio a me, per la sua campagna di informazione, proprio a me che conto come il due di briscola?”
“Sono i puri di cuore che cambiano il mondo” esclamò. “Anche Gesù, quando volle diffondere il suo Verbo, si rivolse a dei poveri pescatori ignoranti, e non ai principi e ai re del suo tempo”.
“Continuo a non capire. Voi che venite dai cieli del Signore Onnipotente avete bisogno di una piccola rivista come “Ecclesia”, che quando va bene ha una diffusione di diecimila copie?”
“Non peccare di superbia, ragazzo mio, e non mostrare di saperne più del diavolo. Gutta cavat lapidem. La goccia d’acqua scava la dura pietra. Anche il deserto è fatto di tanti granelli di sabbia. Ciò che conta, è credere. E chi crede agisce. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.”
“Non che voglia fare il don Abbondio” dissi. “Ma vede, santa Chiara, ho qualche motivo di sentirmi un poco dubbioso. Santa Caterina mi ha tracciato un così fosco ritratto del Paradiso, dei santi e di San Pietro, che ha cominciato a vacillare la mia stessa vocazione di prete. Che ci faccio, della mia tonaca e del mio crocefisso, se il cattivo esempio viene dall’alto dei Cieli?”
“Ma non capisci che siamo qui per portare la buona novella? Ogni cosa declina e si corrompe, figlio mio. Anche i santi si guastano nel corso del tempo. Ed è per questo che ogni tanto insorgono gli spiriti positivi, le anime ribelli. E’ urgente instaurare un ordine nuovo, spazzando via le ingiustizie e le ipocrisie. Ma questo non ce lo possiamo aspettare dai vecchi barbogi, quei santi vanitosi e maschilisti che da sempre fanno il buono e il cattivo tempo. E poi è venuta l’ora di infrangere i vecchi tabù, distruggere le regole innaturali e bigotte. A cominciare dal piacere del corpo. Noi sante e beate del Femminismo Celeste abbiamo posto in cima al nostro decalogo il diritto ai liberi desideri. Non si capisce perché la povera Caterina si dovesse contentare delle estasi mistiche, e rinunciare a quelle del suo bellissimo corpo. Dove sta scritto che il piacere della gola è lecito, e quello delle labbra è scandaloso?”
Sorpreso è dir poco; ero scosso in ogni centimetro della mia pelle. Quel ragionamento rovesciava tutto ciò che avevo appreso fin dai remoti giorni del catechismo.
“Santa Chiara” obiettai, “non vorrei fare il bastian contrario da quattro soldi. Ma lei sembra ripudiare una delle virtù massime onorate dalla Chiesa: la castità. Per difenderla, migliaia di martiri hanno sacrificato la vita. Ricorda i versetti del Nuovo Testamento? “Siano benedette le pure di cuore: perché esse vedranno la luce del Signore.”
“Ma quale luce, figliolo! Hai mai pensato a quello che significa restare ingessati per l’eternità? Per i miei gusti personali, un secolo basta e avanza.”
“Dunque, la vostra non è propriamente una rivoluzione dello spirito, ma piuttosto una rivendicazione degli istinti.”
“Chiamala come preferisci, ma il fatto è che le donne del Paradiso stanno uscendo dal torpore dell’obbedienza e rivendicano un ruolo autonomo rispetto all’altro sesso. Anche Lucifero ha abbandonato il ghetto in cui gli angeli bigotti lo avevano cacciato. Dalla sua stessa bocca abbiamo appreso una inconfutabile verità: “La castità è una truffa. E’ un trucco inventano dagli uomini gelosi per tenere soggiogate le donne.” Non è escluso che sia proprio lui, Lucifero, l’Angelo caduto, l’ispiratore del nostro movimento. Ci ha dettato l’incipit del manifesto: “Donne di tutti i cieli, unitevi: non avete altro da perdere che i vostri sensi di colpa.”
“Ma questo è un plagio, Chiara: Lucifero ha parafrasato le parole di Carlo Marx.”
“Lo so bene, lo sappiamo tutti. Quel Marx dalla bella barba grigia è venuto a un paio delle nostre riunioni notturne, sia pure di soppiatto; a suo rischio e pericolo ha scavalcato le mura del Purgatorio”.
Ero come inebetito; me ne stavo in silenzio, gli occhi bassi, in un turbinio di pensieri. Allora santa Chiara mi prese dolcemente per il mento e sollevò il capo:
“Ehi, bimbo, cosa fai, dormi?”
“Ma no, che non dormo. Sto soltanto riflettendo. Ammettiamo che io riesca a stampare sulla mia rivista queste notizie della rivoluzione femminista in Paradiso. Delle due, l’una: o mi internano in qualche clinica psichiatrica, oppure si spegne sul nascere la vostra folle speranza in un mondo migliore, un Eden ultraterreno, meraviglioso e felice. La repressione sarà violenta e immediata.”
“Ma allora tu preferisci la menzogna, la circonvenzione degli umili e degli ingenui.”
“No, non è questo: è piuttosto il timore che noi poveri cristi dovremo scegliere cpme sempre tra la padella e la brace.”
“La colpa è dei cattivi maestri, del clero cinico e ipocrita: troppe menzogne ha inculcato nella mente delle plebi, troppa ammirazione per santi e beati. E poi, che male c’è se i santi e i beati hanno qualche difetto? Gli uomini li ssntiranno più vicini. Del resto, anche gli dei dell’antica Grecia commettevano stupri e delitti e nefandezze d’ogni sorta. Così va il mondo, ragazzo mio, in cielo e in terra. E finiamola con la favola delle anime belle per sempre.”
“Provo a immaginare lo sgomento nelle alte sfere di fronte a un simile ammutinamento. Che diranno San Tommaso e Sant’Agostino, i filosofi di Santa Madre Chiesa? E Gesù, non ha avuto ancora delle reazioni?”
“Hai immaginato giusto: sono sbalorditi, ma anche divisi. Non sanno che pesci pigliare. Sant’Agostino predica prudenza, sostiene che il tempo medica ogni cosa. Ma Gesù è invece allarmato dal fatto che sua madre, la Santissima vergine, ci ha promesso il suo sostegno incondizionato e ha lasciato capire di voler combattere senza tregua l’ormai insopportabile regime dei padri-padroni.”
“Dove tenete le vostre riunioni? Non avete timore di essere spiate, controllate o addirittura punite?”
“Abbiamo resuscitato le catacombe dei primi cristiani. Sono delle grotte profonde, ricavate da nembi o cirri di colore scuro, e lì ci rifugiamo la sera. Abbiamo creato delle orchestrine di musica rock e pop, quella che fa storcere il naso al Gran Patrigno della beata Maria. Come, non sai chi abbiamo soprannominato il Gran Patrigno? Che razza di domande: è il Padreterno, no?”
“Mi fai cadere le braccia, santa Chiara: da quel che capisco, non fate che scopiazzare le nostre abitudini peggiori. Il rock! Il pop! Ma non potevate almeno invitare dei musicisti di rango, i grandi maestri del Settecento come Bach, Mozart, Haydn?
“Stai zitto, che te ne racconto una buona: lo sai che Mozart, il ‘divino Amadé’, ha messo su con John Lennon un complessino pop e va in giro per le balere celesti?”
“Ma allora hai ragione tu, Chiara: si vede che a lungo andare la fantasia stanca, e il fango ha il suo fascino.”
“Non ti ho raccontato i pettegolezzi più divertenti, caro il mio ragazzo: lo sai che i santi più rispettati, da San Giorgio a San Marco, hanno ciascuno la loro elegante garconniere sulle pendici dell’Olimpo? E lo sai che Gesù è stato visto in compagnia della Maddalena, in un club molto esclusivo, mentre cenavano tète-à-tète, a lume di candela?”
“Basta, Chiara, abbi pietà di me: lasciami tirare il fiato. E non dirmi che ricevete pure ‘Playboy’ in abbonamento; o che nelle biblioteche dell’Aldilà circolano le Memorie di Casanova e il Decamerone di messer Giovanni Boccaccio.
“Bravo. Come hai fatto a indovinarlo?”
“Ho seguito la tua pista.”
“E allora continua a seguirmi, se non hai niente di meglio. A casa mia posso farti due spaghetti alla santarellina.”
“Mi sembra la risposta giusta al mio languore, ho un buco nello stomaco. Dov’è che abiti?”
“Divido un appartamentino con la mia amica Cathy. In Trastevere. So che ci sei già stato.”
“Già, è vero, dalla camera da letto si vede San Pietro.”
“Io e Cathy dividiamo tutto quello che abbiamo. Ciò che è mio è suo, e suo quel che è mio.”
“Non litigate mai? Non siete gelose?”
“La gelosia è un sub-sentimento per esseri inferiori; o piuttosto una tara tipicamente maschile.”
Ah, com’era limpida la sera, dal terrazzino dell’attico in Trastevere; e quant’era leggero e gustoso il sugo degli spaghetti alla santarellina.
Ma ciò che meglio ricordo di quella notte e di quel sogno, è la morbida spalla di santa Chiara, sulla quale mi sono riaddormentato (se questo è possibile per uno che già dorme): aveva un profumo fresco di vainiglia.

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