NOSTALGHIA
Modificato: Venerdì, 28 ottobre 2005

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SOMMARIO:

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Pino La Villa: Intervista a Manlio Sgalambro (tratto dal web)

Manlio Sgalambro, filosofo: per destino, con passione. Un pensiero, il suo, che non origina una visione sistematica, non sfugge la contraddizione, ma ottiene una profonda coerenza; un pensiero frammentario, che procede per accensioni,intuizioni, impennate del pensiero e della parola. Filosofia o letteratura, pensiero ipocondriaco, monologo eterno, poco importa: dai suoi scritti, come dalle sue parole emerge il fascino dell'autenticità, merce rarissima. Da "La morte del Sole"a l "Trattato dell'empietà", da "La consolazione" a "Del pensare breve", attingendo alla profondità e agli interessi eterni della speculazione, alla libertà della solitudine Sgalambro ha incontrato, autenticamente, i temi più alti della riflessione filosofica del nostro secolo, in un dialogo, solitario si, ma vivo, con autori come Nietzsche, Heidegger, Jüngher. Così la filosofia diventa qualcosa che "ci riguarda", che riguarda la nostra vita, che ci mette in gioco, ci irretisce. E' la filosofia della fine della modernità, che assume fino in fondo il dramma del "conferimento di senso" alla vita, nel momento in cui tutti i sistemi di riferimento (etica, religione, scienza) vengono meno. Non a caso la dedica contenuta nel suo ultimo libro è una frase dello stesso Sgalambro: "si filosofa per salvare gli amici". Si tratta del "Dialogo sul comunismo", pubblicata dall'attenta casa editrice catanese De Martinis & C. Non tragga in inganno il titolo. Se qualcuno volesse trovarci indicazioni da consumare subito, da spendere nel dibattito politico, resterebbe deluso. A Sgalambro interessa qualcosa di più radicale: "Che il comunismo possa essere dispensato da una critica della vita, si rivela illusorio", troviamo scritto nelle prime pagine del suo libro, "Senza un giudizio sulla vita non c'è filosofia politica. Senza un giudizio negativo sulla vita non c'è comunismo". Ecco quindi che nel momento in cui tutti cercano di far dimenticare il peccato d'origine del comunismo, quando tutti diventano "liberal", il Filosofo ci parla di un comunismo visto in maniera del tutto inedita. Del "Dialogo sul comunismo" abbiamo voluto sapere qualcosa di più e Sgalambro, sgretolando immediatamente il cliché del filosofo schivo, ci ha parlato, in questa lunga intervista, della sua scrittura, della filosofia e del "suo" comunismo.
D.: Dalla forma aforistica de "La morte del Sole" al "Dialogo sul comunismo". E' indifferente la scelta di un nuovo genere?
R.: Via via che si scrive, lei sa, si cerca di incardinare ciò che si pensa, o le proprie emozioni, in un certo tipo di scrittura, o, meglio, in una certa organizzazione di scrittura, organizzazione in questo caso dialogica. Io poi ne ho scritti due di dialoghi, perché pubblicai un "Dialogo teologico" qualche anno fa con l' Adelphi, e dicevo che erano dei falsi dialoghi. In realtà "Augustinus cum Augustinum", come dice Agostino da qualche parte, cioé era Agostino che parlava con Agostino. E quindi in sostanza cho il sospetto che i dialoghi siano in realtà falsi dialoghi. Ma in ogni caso, lei dice perché il dialogo: perché appunto ti permette di stabilire questa specie di sfalsatura fra te che dici e un altro te, che indubbiamente c'è - ormai è pacifico per tutti che i "me" in ciascuno di noi pullulano -, che in qualche modo fa da cassa di risonanza o riprende ciò che dici. Quindi la parola dialogo va presa in senso "losco" direi, non in senso diretto, cioé va presa, bassamente, per dir così , per celare, o manifestare, o celare e manifestare, un certo tipo di operazione, un certo tipo di rete, con cui agganciare. Perché , infine, se noi scriviamo, scriviamo sì per ordinare, per dar peso, gravezza, materia alle idee che altrimenti fluttuerebbero, anzi forse nemmeno, perché sarebbero solo una pasticciatissima nebulosa, ma anche per agganciare il lettore, e questa volta la forma scelta è stata quella del dialogo.
D. La sua filosofia appare come diretta più a discepoli che ad interlocutori...
R. Lei ha perfettamente ragione.
D. E quindi la scelta del dialogo non potrebbe a questo punto apparire come una deviazione, un'apertura verso un altro tipo di approccio?
R. Il dialogo è circolare. In realtà non ci sono interlocutori. L'interlocutore partecipa il minimo indispensabile perché ci sia questa specie di partita a tennis Io scrivevo una volta questo qui, più o meno. Riportavo un esame di docenza che fece Schopenauer in una commissione in cui c'era anche Hegel. Fu proprio Hegel a porgli la domanda: se un cavallo si sdraia sulla strada quali motivi vi sono o cause? e allora nell'incontro tra questi due grandi filosofi, l'uno la cui grandezza la conosce solo lui, (Schopenauer), l'altro la cui grandezza cominciava ad essere abbastanza diffusa (Hegel), si danno ad una specie di dialogo veramente buffo: a stabilire se erano cause, se erano motivi. Cioé mi parve che questa fosse una contraffazione del dialogo, che metteva però in evidenza il dialogo così come effettivamente è , e in ogni caso con questo mi pare che si chiuda l'era del dialogo in filosofia. Nata con Platone essa si chiude con questa buffa faccenda, di due grandi che si incontrano e non sanno parlare altro che di un cavallo...
D:Perché proprio un dialogo sul comunismo?
R. Ecco, e così andiamo all'argomento, perché vorrei che si chiarisse un equivoco. Comunismo, qui, vuole indicare esattamente questo: innanzitutto questo slancio per dir così , che è tipico della nostra civiltà. Ma voglio indicare piuttosto un pericolo che in questo momento vi è . C'è una gerarchia di comunismi, vi sono più comunismi, certamente, non nel senso storico, ma nel senso ideale. E questo comunismo di cui mi preoccupo io è proprio il venir meno e l'individualizzarsi dell'idea di verità, il crollo della comunità scientifica, che comincia ad essere individualizzata anche nella scienza, anche nella fisica. La fisica parla oggi di principi quasi individuali nel suo ambito, ad esempio qualcuno ha potuto parlare di una fisica a misura d'uomo, perché il fine è quello che l'uomo goda, che abbia piacere, una fisica che stabilisca la possibilità di una libertà nell'ambito dell'universo: é una fisica come un'altra, cioé a dire, può essere benissimo una fisica accettabile. Oggi vi è il nuovo principio antropico: anche questo obbedisce a esigenze dell'individuo nell'ambito della fisica, cioé a proiettare le nostre esigenze di finalità, di soddisfazione, nell'ambito di una disciplina come la fisica che era stata altera, si era presentata come un assoluto sdegno dell'umano. E l'idea di verità, espunta dal contesto della filosofia o ridotta a un fatto individuale. Ecco qual è la mia preoccupazione e qual è il comunismo di cui parlo: tentare di destare l'allarme per il venir meno di idee di verità comuni, di un comune senso della scienza, di un comune senso dell'operare all'interno del sapere. Il frammentarsi in principi individuali di tutto quanto l'assetto del sapere, per cui il comunismo in definitiva - in questa gerarchia di comunismi che nel libro è più o meno adombrata, per quello che mi interessa -, è proprio il ristabilirsi di una comune idea di verità, di cui oggi è impossibile parlare, perché una cosa del genere fa ridere. Ma, lo ripeto, soprattutto per quanto riguarda l'ambito del sapere, laddove esso è frammentato in saperi individualizzati - e il principio individuationis frusta a sufficienza non solo le filosofie che sono ormai quasi personalizzate: ciascuno ha la sua, come ognuno ha la sua cravatta, la sua donna -, ma anche in quelle che sono le discipline rettrici della civiltàoccidentale, la matematica, poniamo. Ecco: mentre gli altri si preoccupano del comunismo dei bisogni, de la merde, - come io lo chiamo -, io mi preoccupo di questo, che certamente saràsuperfluo, ma che a me dàl'impressione che sia bisognevole di un occhio attento: perché stiamo perdendo la "comunità" di questi beni intellegibili, di questi beni spirituali, che si frammentano e diventano proprietàdi piccoli o grandi proprietari che ne fanno in qualche modo un fatto personale, a sé .
D. Quindi un interesse per il comunismo da dove meno ce lo si aspettava?
R.Certo, il comunismo per quello che interessava veramente me .
D.Lei ha scritto un libro intitolato "Dell'indifferenza in materia di società". Questo suo interesse per la filosofia come verità, questo comunismo inteso come riverca di verità comuni, ha a che fare invece con un interesse per la società, può servire alla società?
R. Io personalmente ritengo che l'interesse per la società sia un interesse sussidiario e avventizio. Il primo interesse per l'uomo non credo sia la società, la società è un dato: ma è un dato questo pavimento, è un dato che devo apripre la porta se voglio entrare , è un dato che sono in una società perché nasco,sono buttato già, nasco in una società: ma questo non significa che io dirigo le mie intenzioni e i miei sforzi al pavimento in cui cammino, certo, se non ci fosse il pavimento io crollerei, se non ci fosse la società, cioé tutto il complesso, l'organizzazione che forma la struttura di una società, probabilmente non soddisferei i miei bisogni, sarei privo di molte delle cose che formano il mio benessere, ma questo non significa che io debba ritenere primaria la società, la società è come il pavimento, come la porta, strumenti che mi giovano, che mi servono ma non il mio interesse. Io credo che l'interesse primario, è qui bisognerebbe considerarlo all'interno della nostra civiltà, e per me la civiltà è quella occidentale o non è, non sia la società ma l'arte, il produrre, anche il generare può essere interesse primario, ma non sia dia l'interesse primario alla società, soprattutto non si dia a quelli che di questa società si fanno per dir così portatori, i falsi servitori di essa, o quelli che se ne fanno padroni, cioé il politico, la politica, che è diventata nel nostro assetto sociale, europeo, talmente primaria da abbattere qualsiasi interesse o da ridurlo sotto di sé : questa è per me un'oscurante sconfitta delle cose dello spirito.
D.Qual è questa verità comune che lei ravvisa nel comunismo?
R.Io dico l'idea di verità anzitutto, cioé il perseguire l'idea di verità, le cui caratteristiche sono, risibili per l'uomo comune, ovviamente, l'idea di unicità, l'idea di eternità: oggi i filosofi hanno idee più comuni dell'uomo comune , ritengono che l'idea di verità sia un ferrovecchio, noi abbiamo perso i grandi principi che abbiamo, che ci tengono, ma che noi possiamo ammirare e contmplare, così come l'uomo della tecnica ammira le più grandi invenzioni di quest'età tecnologica: anche l'invenzione dell'imperativo categorico, della nozione di legge, in senso fisico come in senso sociale, queste cose sono proprio il grande patrimonio comune che si sta smembrando e sta diventando invece proprietà di singoli, perché ci sono, si, non soltanto i grandi proprietari di ricchezze materiali, ci sono anche i grandi proprietari di ricchezze intellegibili, delle idee, come se in sostanza delle idee ne fosse padrone questo o quel filosofo; ecco, se noi diciamo le automobili della Fiat, ci accorgiamo dell'onta, del disdoro che c'è nell'affermazione, ma se diciamo le idee di questo o quel filosofo non ci accorgiamo quasi di questo senso in cui idee comuni,patrimonio di intellegibilità, almeno dell'elite europea, diventano proprietà di uno, di grandi proprietari del pensiero, i quali ne fanno l'uso e l'abuso che vogliono. Perché , e con ciò vorrei concludere, la ricchezza materiale, solo quella, non è possibile rendere comune, checché se ne dica, perché essa è strettamente individuale, mentre è proprio l'altra, la ricchezza spirituale che è comune in se stessa e che per accidente oggi sta diventando singola, individuale. E' questa che bisogna rendere comune.
D.Ma questa sembra impresa difficile, visto che lei definisce la scuola "una barriera opposta al male del sapere"
R. La scuola è in realtà una grande neutralizzatrice.La scuola pubblica europea nasce con la funzione di formare, di educare, di istruire, ma in maniera tale che tutto ciò che viene impartito sia neutralizzato in partenza: il sapere è il veleno quale può essere in un trattato di tossicologia, cioé innocuo, descritto ben bene ma in cui manca proprio l'elemento primo, la possibilità che se tu tocchi gli occhi o lo ingerisci muori o resti deturpato: ma questo non è il volere o non volere dell'insegnante. E' proprio l'assetto specifico del sapere scolastico: Essenzialmente neutralizzatore esso deve togliere l'elemento non formativo, non educativo che vi è nel sapere: Lei pensi a un Beaudelaire, nelle scuole francesi, preso così per com'è, sarebbe dirompente....o a Leopardi nelle nostre scuole...

Antenati Europa - la storia della letteratura europea online C’è un film da far girare nelle scuole italiane. Subito. Non appena apriranno, tra qualche settimana. Oggi lo vedrà il pubblico della Mostra di Venezia. Parla dei bambini. Non di bambini qualunque, ma dei bambini ceceni, dei bambini russi. Di bambini in guerra. Tra loro. È un film che Putin non voleva venisse girato: tolse gli accrediti alla troupe dopo l’11 settembre. Ed è un film che il produttore americano abbandonò a metà perché pretendeva mano libera in sala montaggio, e la regista finlandese si rifiutò di collaborare. È un film che parla di bambini-soldati (o soldati-bambini?), bambini che si odiano, e un giorno forse si incontreranno. Per ammazzarsi. Come si sono incontrati, forse, un giorno di qualche anno addietro il padre di Popov, undicenne russo cadetto dell’Accademia della Marina militare di Kronstadt, isola-fortezza dirimpetto a san Pietroburgo, e la madre di Milania, ragazza di Grozny.
Si tratta solo di due delle innumerevoli storie che si intrecciano in questo dolente e bel documentario di Pirjo Honkasalo, che si chiama I tre stati della melanconia. Storie che, appunto, si aggrovigliano in un grumo di immensa sofferenza, perché il padre dell’uno è un eroe della Marina militare russa morto laggiù nella guerra caucasica, lasciando in eredità al figlio il privilegio di frequentare la scuola-caserma, e l’altra è una ragazza cecena ricoverata in un campo profughi al confine con l’Inguscezia, lì accanto, ha quattordici anni, a dodici fu violentata dai soldati russi per le strade di Grozny, ora prega assieme agli altri, partecipa al sacrificio rituale dell’agnello. Il sangue dell’animale è stropicciato sulla fronte dei neonati, una danza tradizionale si tramuta in marcetta guerrigliera, mentre i cavalli vibrano al rombo dei bombardamenti.
I tre stati della malinconia sono «nostalgia», «respiro» e «ricordo», e scandiscono altrettanti capitoli, diversi per tono, soggetto, ambientazione e stile, ma accomunati da primissimi piani sugli sguardi. Questo è un film sugli occhi, sugli occhi dei bambini, un film che prova quanto sia letterario e falso il luogo comune che pretenderebbe che gli sguardi dei bimbi in guerra siano più maturi della loro età. Si tratta, invece, di sguardi di bambini, semplicemente occhi che a volte ridono, a volte - più spesso - piangono, in parallelo, bimbi russi e bimbi ceceni, e le linee parallele si sa che non sono destinate a dialogare.
Il primo stato della malinconia è la «nostalgia» di casa (povere case lontanissime dalla scuola di guerra di Kronstadt, popolate da madri alcolizzate e dalle foto di padri spariti per via della guerra o per via dei casi della vita), che i piccoli cadetti raggiungono al telefono per i rari permessi-vacanze, anche se un depliant affisso in cabina ammonisce: «Chi si trattiene troppo al telefono fa il gioco di chi sta spiando».

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