NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Berlinguer
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Aldo Tortorella: L'eredità contesa di Enrico Berlinguer (il manifesto, 11.06.2004)

Si è riaccesa la discussione a sinistra su Enrico Berlinguer a vent'anni dalla morte. Dopo tutto questo tempo si è risvegliata repentina la memoria dei dirigenti Ds. Un fenomeno simile si manifestò nel partito dei Comunisti italiani, il cui congresso fu segnato dalle immagini di Berlinguer accoppiata a quella di Togliatti. Per tanti anni la maggioranza del partito Ds, con qualche eccezione, aveva preferito rimuovere il ricordo di tutto il passato del Pci e dunque anche di Enrico Berlinguer, considerato come oggetto scomodo e ingombrante. Le ragioni furono esposte in un agile volumetto di una dirigente politica e nota giornalista (Miriam Maffai) dal titolo imperativo: «Dimenticare Berlinguer». Bisognava dimenticarlo come simbolo di un tempo morto e sepolto, come portatore di una visione chiusa alla comprensione del nuovo, come ostacolo per una politicità aggiornata e moderna.
Al desiderio di oblio si vennero accompagnando molte polemiche postume, talora assai aspre, come quella ultima dell'attuale segretario dei Ds, Fassino, che in un suo recente libro paragonò Berlinguer ad un giocatore il quale per non subire scacco matto dall'avversario (nel caso, Craxi) si alza e va a morire. Craxi era, in questa interpretazione, l'emblema della innovazione, Berlinguer della conservazione.
E' accaduto, però, in tutti questi anni che il desiderato oblio non ci sia stato e che la memoria di Berlinguer sia rimasta radicata in moltissimi dentro e fuori i partiti della sinistra. Nel corso del tempo iniziative di ricordo si sono venute organizzando costantemente da parte dei gruppi di base più diversi. E quanto alle critiche postume talune delle più recenti sono apparse così poco rispettose della realtà da generare anche la ripulsa di molti che comunisti non sono mai stati, oltreché l'insofferenza della base. Per tutti questi motivi la memoria di Enrico Berlinguer è ridivenuta un patrimonio prezioso e dunque conteso. E perciò vengono adesso i ravvedimenti, le grate rimembranze, gli encomi solenni.
Ora, il segretario Ds, in un apposito convegno aperto da Giorgio Napolitano, illustra Berlinguer come il protagonista di «una straordinaria innovazione». Ed è ormai un coro di riconoscimenti e di elogi quello che si leva da parte dei dirigenti della maggioranza Ds, che sono anche i fautori del nuovo partito riformista. E poiché a questo coro si unisce, sia pure in aspro contrasto, quello che viene dai Comunisti italiani, coloro, tra cui sono anch'io, che hanno cercato in tutti questi anni di tener viva la memoria di Berlinguer, dovrebbero ritenersi finalmente appagati.
Sennonché c'è un pessimo e acuto sentore di strumentalità. I Ds ne accusano i Comunisti italiani poiché il loro presidente contestò Berlinguer. Ma sebbene il dissenso di Cossutta fosse imparagonabile con quello di altri, perché avvenne su un punto decisivo come quello dello strappo dall'Urss, egli non ne fu l'unico oppositore. Quella che venne chiamata la «destra comunista» con Napolitano e altri (cui, peraltro, Cossutta non era estraneo) dissentì dalla rottura del governo di solidarietà nazionale dopo l'uccisione di Moro e da tutta l'ultima politica della segreteria di Berlinguer quella che va sotto il nome dell'alternativa democratica. Fu proprio allora che venne rivolta a Berlinguer la critica - o l'accusa - di avere rinserrato il Pci nel culto di una propria presunta diversità. Se si dovesse dunque imputare di strumentalità coloro che dissentirono, entrambe le parti non ne sarebbero immuni. Ma non è questo il vero motivo che fa avvertire uno spiacevole immeschinimento della memoria per fini di parte.
Berlinguer non può essere ridotto alla nostalgia del comunismo di una volta e meno che mai può essere usato, come si va facendo, come antesignano e precursore del corso assunto dalla politica Ds e del partito che va nascendo tra Ds e Margherita (come ovvio un compromesso tra forze diverse per il governo ma non ha niente a che fare con la costruzione di un partito unico). Berlinguer fu un grande innovatore, ma per la sinistra e per l'idea comunista democraticamente praticata, come egli fece, per tutta la vita.
Naturalmente, sarebbe offensivo per la sua memoria - e per come egli era - ogni lettura acritica e ogni forma di agiografia così come sono offensivi i camuffamenti e le denigrazioni. E' evidente che Berlinguer sta dentro una vicenda storica determinata, che è quella del movimento comunista italiano e mondiale del ventesimo secolo. Ma il posto che gli spetta non è soltanto quello da aver reintersecato la linea togliattiana della unità nazionale con il «compromesso storico» tradotto poi, per cause di forza maggiore, nella solidarietà nazionale, di aver portato ili suo partito all'europeismo, e neppure soltanto nella rottura con l'Urss. La sua forza e il suo ingegno si videro, a me sembra, dinanzi alla sconfitta della linea tradizionale del Pci, che egli pure così bene aveva interpretato.
Nel momento stesso in cui veniva rompendo con il sovietismo e con il culto della rivoluzione d'ottobre, e poi di fronte al fallimento della solidarietà nazionale, egli vide che era finito un ciclo storico per i comunisti e per la sinistra, ma non erano finiti i motivi del loro esserci, anzi se ne erano creati di nuovi che andavano letti dentro la realtà. Egli non lottò solo per la piena autonomia dal modello sovietico, ma per l'autonomia rispetto ai gruppi e ai ceti dominanti dell'Occidente. Egli è esattamente l'opposto di chi derivò dalla sconfitta storica un puro e semplice adeguamento alle cose come stanno e alla società come è. Non è che egli pensò di «coprirsi a sinistra», come si è detto, perché rompeva con l'Urss da una parte e con la tradizionale politica delle alleanze dall'altra, è che sentì il bisogno di riscoprire il mondo, la società, il suo stesso paese.
Molte delle intuizioni, spesso dileggiate hanno retto alla prova del tempo. La proposta della austerità, e cioè di uno sviluppo sobrio e compatibile, corrispondeva all'idea della priorità ,condivisa con Brandt e Palme, della contraddizione tra nord e sud del mondo e tra quella tra espansione senza limiti e ambiente naturale su cui si erano venuti sviluppando i movimenti ecologisti e quelli che si chiamavano allora terzomondisti. Dunque non si trattava più di comprendere unicamente il conflitto di classe: ma il contrasto tra lavoro e capitale non poteva essere rimosso. Esso doveva essere riscoperto nelle sue forme nuove. E reinterpretato dentro una società in cui il patriarcato, e dunque i valori del maschile, precede di gran lunga il capitalismo determinandolo. Ecco la scoperta, non facile, del nuovo femminismo che si era intanto venuto sviluppando.
E' perciò che l'ultimo Berlinguer, che prima era stato così severo contro i «movimenti», si apre alla nuova comprensione particolarmente sul tema determinante della lotta per promuovere la pace rimuovendo le cause che originano le guerre. Si rimprovera Berlinguer l'isolamento del Pci. Non so dove sarebbe finito quel partito e che cosa ne sarebbe rimasto se fosse entrato in quel sistema marcio che andava crollando. Egli poneva con la «questione morale» un problema politico che si è poi creduto di affrontare con le riforme istituzionali e innanzitutto con il maggioritario e la personalizzazione della rappresentanza. Le conseguenze stanno davanti a noi. Temi istituzionali ce ne erano da affrontare, ma non minando la costituzione. E c'era soprattutto il tema del risanamento dei partiti che non poteva e non doveva essere rimosso. E c'era quello di una nuova soggettività per i comunisti e per la sinistra. Berlinguer morì troppo presto per sviluppare le sue nuove idee ma quei temi che egli ha posto trovano eco oggi nelle nuove generazioni.
E a me pare che la sua concezione della politica e del rapporto tra azione e motivazione morale - che lo fa più simile a Granisci che a Togliatti - sia del tutto attuale. Ce n'è anzi, mi pare, un assoluto bisogno.

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