NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Le idee che non muoiono di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni (Ponte alle Grazie, Firenze 2000)
in costruzione


Benedetto Vecchi: Appunti per un pensiero critico (il manifesto, 21.09.2000)

Assistere alla presentazione di un libro è cosa assai diversa dalla sua lettura. Spesso, però, l'incontro tra persone che lo hanno assunto come oggetto di riflessione rende il confronto tra le diverse ricezione del libro un fatto in se stesso. E così è stato per la presentazione del volume Le idee che non muoiono scritto a quattro mani da Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni, ed edito dalla casa editrice Ponte delle Grazie, avvenuta martedì sera a Roma nella Festa nazionale di Liberazione a Castel Sant'Angelo. Oltre ai due dirigenti di Rifondazione comunista hanno partecipato come relatori Giuseppe Chiarante, Rossana Rossanda e Paolo Virno. La particolarità di questa presentazione sta proprio nell'aver chiamato a discutere persone con storie e culture politiche molto diverse tra loro, ma comunque interessate dall'ordine dei temi che Bertinotti e Gianni pongono nel volume. In primo luogo, la necessità di una ripresa "forte" del pensiero critico e della riflessione marxiana su una forma storicamente determinata di rapporti di produzione, quella capitalistica. Ma anche, l'insieme di problemi che una "politica della trasformazione" deve affrontare in un panorama sociale, politico e culturale che molti denunciano, molto frettolosamente, come irriconoscibile e indecifrabile. Infine, quel nodo irrisolto tra "libertà e comunismo", avuto in eredità dagli errori e dagli orrori del socialsmo reale.
La discussione è stata aperta da Giuseppe Chiarante. Lo storico dirigente del Pci prima, nonché esponente della sinistra Ds dopo è proprio partito da quest'ultimo punto, domandandosi e domandando a Bertinotti e Gianni il perché un'esperienza importante come quella del movimento operaio e comunista che muoveva dalla ricerca della libertà abbia poi conosciuto la deriva autoritaria del socialismo reale. Una domanda cruciale per Chiarante per offrire quelle risposte politiche necessaria a contrastare il "pensiero unico" della globalizzazione economica, visto che spesso i movimenti sociali di "resistenza" a questo capitalismo parlano il linguaggio del fondamentalismo sia nella versione islamica che in quella cristiana. Anche Rossana Rossanda è partita da qui, per affermare che nel libro Bertinotti e Gianni su questo punto sono "timidi", quasi che bastasse evocare la deriva "militare" dei partiti comunisti al potere nell'est per spiegare cioè che è accaduto in Urss o in Cina. Una spiegazione che non tiene conto di una particolarità di quei gruppi dirigenti, formatosi sui migliori testi della tradizione filosofica "alta". "Lenin e gli altri bolscevici, come anche Mao, erano persone colte, raffinate: come mai le società postrivoluzionarie non sono riuscite a garantire la libertà? E' solo la necessità di difendere la rivoluzione che ha fatto imboccare la strada che tutti abbiamo dolorosamente conosciuto?", ha affermato Rossanda, per poi aggiungere provocatoriamente: "Walter Veltroni che afferma l'inconciliabilità tra libertà e comunismo non mi piace, ma bisogna fare i conti con quel grumo di verità storica che quell'affermazione contiene".
Questò però è solo un aspetto del libro. Ci sono le parti che parlano del presente. Un presente che, come viene descritto, non convince molto Rossanda. Non perché non apprezzi il tentativo di Bertinotti e Gianni di fare i conti con quel che è cambiato con il mondo del lavoro, ma perché le loro analisi spesso relegano sullo sfondo il fatto che il capitalismo è un rapporto sociale di produzione per privilegiare la dimensione empirica di questo o quel fenomeno. Ma sono proprio questi "affanni", questa difficoltà di offrire una lettura "forte" del moderno capitalismo che invece apprezza Paolo Virno, perché è da salutare positivamente che un dirigente politico si misuri con la necessità di fare "teoria". "Un partito e un militante politico che non si misurano con la teoria e con la produzione di teoria sono miopi o irresponsabili - sostiene Paolo Virno -. Inoltre, il volume di Bertinotti e Gianni ha un ulteriore pregio: è in discontinuità con la cultura politica del Pci. Sceglie come punto di partenza della riflessione l'ultimo tentativo di rivoluzione in occidente, quello che va dal 1969 al 1973 e che ha un protagonista, l'operaio massa e il suo rifiuto dell'etica del lavoro. Rivoluzione sconfitta, certo, ma che lascia in eredità qualcosa che consente di capire quello che viene chiamato postfordismo".
Le conclusioni di Alfonso Gianni e Fausto Bertinotti hanno avuto il pregio che è del libro di presentarsi come tassello di quel work in progress di cui il libro è un altro tassello. Il lavoro quindi continua. "Compito difficile", anche a causa di una attualità politica sempre in agguato e a cui un partito, ogni partito, deve rispondere in maniera adeguata. "Ma chi vuol far la rivoluzione ha sempre un problema in più. Deve rispondere adeguatamente alla contingenza e non può ritirarsi, magari spaventato, di fronte la necessità di produrre teoria".

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Le condizioni della libertà (Liberazione, 12.01.2001)

Il libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni, “Le idee che non muoiono” ruota attorno al tema della liberazione. Un concetto centrale nel pensiero marxiano

Intorno al tema della libertà si articola l’intensa riflessione sviluppata nel primo capitolo del libro “Le idee che non muoiono” che Fausto Bertinotti ha scritto in collaborazione con Alfonso Gianni. Tema centrale e dirimente nel e per il progetto che abbiamo come Rifondazione comunista. Per questo credo che occorra tornarci su e insisterci, scavando su molti piani, come gli autori del libro hanno scelto di fare. La liberazione e la libertà non possono riguardare solo la dimensione politica ma devono investire l’intera condizione umana. E’, questo della libertà, uno dei punti più radicali e significativi del pensiero marxiano, ricordano Bertinotti e Gianni, chiave di volta per quello smascheramento del carattere di parte e della parzialità di intenti che connotano le libertà e la libertà borghese. C’è infatti in Marx un’idea altra, radicale, di libertà e di eguaglianza come contenuto e segno di una società diversa.

Una libertà positiva
Idea di straordinaria attualità in un’epoca come l’attuale, dove si straparla di libertà mentre contemporaneamente si moltiplicano i luoghi, le pratiche, le culture del suo annientamento. L’ormai piccola e risibile narrazione della libertà di cui è imbevuta l’ideologia dominante gira ancora e soltanto, per altro con un sempre più marcato carattere di falsità, intorno alla libertà “negativa”: libertà “da”, cioè l’assenza di costrizioni sull’azione dell’individuo. Ma, appunto, anche questa libertà diventa oggi evanescente e ininfluente, imprigionata com’è nelle mani dei gruppi di potere e delle élites intellettuali che decidono loro quale siano le libertà adatte a un popolo sempre meno sovrano, sempre più deprivato dei meccanismi della rappresentanza democratica e dell’autorganizzazione. Mai come oggi la libertà dalle costrizioni si risolve in un’illusione se non si accompagna alla lotta per una rinnovata libertà positiva: la libertà come espressione di sé, come capacità soggettiva, come autogoverno. Quella libertà di essere e di fare che, prima ancora che nella norma, sta nella pratica sociale, nella intersoggettività, nello scambio simbolico. Quella libertà che, nel secolo che abbiamo alle spalle, ha fatto grande il movimento operaio e ha fatto grande la lotta delle donne - ma su questo secondo versante il libro non scava. Perché in quelle lotte, degli operai e delle donne, prima ancora che l’urgenza di un sacrosanto bisogno materiale, si esprimeva un processo forte di soggettivazione critica, un punto di vista sul mondo, una rottura epistemologica rispetto all’interpretazione della realtà storico-sociale, una rivoluzione copernicana. O simbolica, come una parte del femminismo ha insistito a sottolineare. La lotta contro l’ingiustizia e per il cambiamento coinvolge necessariamente e insieme - non un prima e un dopo - sia le condizioni economiche e sociali sia l’universo di pensiero, la rappresentazione del mondo che le rende possibili, legittime, accettabili. In una parola “naturali”. La libertà di prendere le distanze da ciò che appare “dato”, “prescritto”, “naturale” appunto, di svelarne e decostruirne i meccanismi storico-sociali e simbolici, di pensare “l’impensato”: affonda in questo scarto radicale dall’ordine di cose esistente la lotta per il cambiamento. Se non cambiamo noi, nel nostro rapporto col mondo, non cambiamo il mondo. Al più rosicchiamo le briciole della tavola dei potenti o compiamo gesti insensati. Per questo affrontare come in un incipit ideale e pratico il tema della libertà, in un libro che vuole essere un contributo al rilancio del dibattito teorico e politico sulla rifondazione comunista, non è certo una scelta casuale.

Una rivoluzione attuale
Ma c’è dell’altro di non casuale da sottolineare ne “Le idee che non muoiono”. Nel pieno di quella polemica sulla inconciliabilità tra comunismo e libertà, che ha portato nei mesi scorsi altra torbida acqua alla deriva revisionista, la scelta di questo ritorno a Marx su un tema così spinoso e “scomodo” è con tutta evidenza controcorrente. Ma non ancora scontata. Perché “socialismi reali” e teorizzazioni aberranti elaborate nel Novecento in nome del “sol dell’avvenire” non sono stati affatto un “a latere” della complessiva vicenda comunista e stanno là, col loro peso, a ricordare drammaticamente che il cupio dissolvi di tanta parte di ex comunisti si nutre non solo degli orrori e degli errori di quella storia ma anche dell’incapacità di troppi che, pur avendo fatto del comunismo uno straordinario strumento di emancipazione e liberazione umana, non vollero o non seppero guadagnare la strada di uno “spirito di scissione” rispetto alle esperienze dei “socialismi reali”; e lasciarono così che si sedimentasse storicamente un meccanismo di omologazione e riduzione del comunismo a vicende che, al di là degli ossificati apparati di propaganda ideologica, col comunismo non avevano in realtà niente da spartire. Per questo oggi sottrarsi rigorosamente a ogni sorta di meccanicismo e automatismo della vicenda storica, separare radicalmente il nucleo teorico del marxismo dalle interpretazioni e applicazioni politiche che ne seguirono - il movimento che abolisce lo stato di cose esistente dal “socialismo reale” che sconfisse la rivoluzione e martirizzò i concretissimi percorsi di emancipazione e liberazione umana - è una condizione indispensabile per sostenere e rintuzzare la deriva revisionista; per difendere liberamente la nostra scelta comunista. Che a che vedere Karl Marx con Giuseppe Stalin? Niente. Questo “Le idee che non muoiono” dice con estrema chiarezza. Ma il partire dalla libertà non costituisce soltanto una scelta politica controcorrente rispetto ai processi in atto di omologazione culturale e di equiparazione tra il comunismo e il fascismo. Né soltanto una critica, pure necessaria, a impostazioni economicistiche, produttivistiche, politicistiche della tradizione comunista. Quella scelta è anche altro, è metafora di una più generale scelta di posizionamento critico, di una più generale e più di fondo soluzione di continuità. Per gli autori del libro si tratta di una direzione di marcia riconosciuta come ineluttabile, che li porta a una vera e propria rottura rispetto all’impianto tradizionale di larghissima parte dell’esperienza politica e dell’elaborazione teorica che ereditiamo dalla storia del comunismo occidentale e di quello italiano in maniera particolare. Basti considerare, per fare solo un esempio, la centralità che il biennio ’68/’69 assume nella riflessione di Fausto Bertinotti: tentativo, quel biennio, secondo il segretario del Prc, di una moderna rivoluzione anticapitalistica in occidente - o comunque stringente attualità politica di “quella” rivoluzione - e sua radicale, drammatica sconfitta. E’ questa l’eredità che legittima storicamente e politicamente l’esistenza di Rifondazione comunista, l’antefatto di riferimento: l’attualità appunto di “quella” rivoluzione, tentata nella qualità e nel significato della straordinaria lotta operaia di quegli anni, nell’impatto che essa ebbe sull’intera società, nello stringente concatenarsi dei movimenti - la rivoluzione delle donne conobbe proprio in quel tornante storico un soprassalto di soggettività politica e di combinazione tra disagio materiale, riflessione critica, pratica sociale che ha lasciato il segno. E sconfitta, quella rivoluzione, forse perché nessuno l’aveva veramente intravista, nessuno veramente l’aspettava. Niente di più lontano, infatti, dalla tradizione di pensiero e di pratica del Pci, che proprio di quella idea fu fiero avversario. O chi ci pensò non sapeva proprio che cosa fare.

Un’indifferenza da superare
Discontinuità, ne “Le idee che non muoiono”, c’è anche nella riflessione di Fausto Bertinotti circa il fatto che l’indifferenza del movimento operaio verso il problema del genere, cioè dei rapporti pubblici e privati tra le donne e gli uomini, non fu innocente ma colpevole, fonte di ritardi e di contraddizioni che Rifondazione comunista ha in pieno ereditato. Entra, e come, questo versante dei problemi nel conflitto di cui parla Karl Marx, si chiedono gli autori del libro; cioè nel conflitto di classe? Entra, mai come in questa epoca storica. Perché se indubbiamente il rapporto di lavoro non è ordinatore del rapporto tra i sessi - tale per ben altri motivi - come d’altra parte il rapporto tra i sessi non è ordinatore del modo di produzione - radicato in ben altre origini - non c’è dubbio tuttavia che l’esistenza di un rapporto del genere - in ragione del quale si considera, per esempio, “naturale” il lavoro di riproduzione sociale delle donne e un ingombro per l’impresa la maternità - ha incidenza e non piccola nella differente materialità della condizione operaia femminile e maschile. Tale asimmetrico rapporto orienta infatti a tutti i livelli le forme concrete dello sfruttamento capitalistico; determina differentemente la condizione del senso di sé e della coscienza per sé; entra a fare intrinsecamente parte della stessa alienazione del lavoro. Uomini e donne al lavoro: non è la stessa cosa. Ed è anche questa una questione di classe - grande perché il lavoro dipendente è sempre più femminilizzato - ed anche una questione di libertà, su cui vanno sviluppate inchiesta e riflessione. Perché lo stare al mondo - e pensare un mondo di per sé e per i propri cari - da operaie, lavoratrici dipendenti, autonome di seconda generazione, precarie, disoccupate, inoccupate non è proprio la stessa cosa che se si fosse dell’altro sesso.

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