NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Gramsci
in costruzione


Enrico Melchionda: Gramsci dopo il Pci (in "Finesecolo", n. 1, 1997)

Le celebrazioni a cadenza decennale della morte di Gramsci sono sempre state l’occasione per fare un bilancio sull’influenza del suo pensiero. Influenza nell’ambito della riflessione scientifica ma anche in quello della prassi politica. Infatti, com’è noto, il destino dell’autore dei Quaderni del carcere è stato tale da farlo trascendere dal suo specifico contesto politico e culturale. Vale a dire che il suo pensiero è sempre stato usato, e non poteva essere altrimenti per un autore così politico, così poco accademico, così informato dallo “spirito di scissione”. Da questo punto di vista, lasciano il tempo che trovano le consuete sollecitazioni a tornare al “vero” Gramsci. Piuttosto, il problema che abbiamo di fronte è di capire quale attualità possa avere il suo pensiero oggi, in un’epoca post-ideologica, in cui sembrano venir meno non solo le grandi narrazioni e i grandi soggetti, ma anche le grandi idealità. Non si tratta, quindi, di fare un’opera di archeologia politico-culturale — per quanto le serie ricostruzioni storiche e filologiche saranno sempre le benvenute — bensì di verificare come possa essere letto e utilizzato il pensiero gramsciano per interpretare la prassi qui e ora.
Certo, sarebbe una forzatura da altri tempi pretendere di trovare in Gramsci le risposte ai nostri problemi di oggi, facendogli dire quel che non ha detto e non poteva dire. E’ curioso che, nonostante la crisi delle ideologie, approcci del genere continuino ad essere riproposti non solo e non tanto dai soliti nostalgici del vecchio comunismo ma perfino da qualche teorico del post-comunismo (es., Vacca 1991).1 Detto questo, però, non credo che l’unico modo per evitare grossolani e strumentali stravolgimenti del pensiero di Gramsci sia quello di decretarne l’inattualità, come ha proposto recentemente L. Paggi dalle pagine del quotidiano il manifesto (1997).2 In pratica, Paggi, che è stato in passato uno dei più seri studiosi di Gramsci — ma anche uno dei principali responsabili dell’uso ideologico del suo pensiero (vedi Paggi 1984 e le critiche in Baratta 1987) —, è arrivato alla coerente conclusione che ormai il pensiero del grande comunista rivoluzionario non possa essere più compatibile (se non al prezzo di gravi fraintendimenti) con una forza politica come il Pds, una volta che ha accolto i valori “liberaldemocratici”. Da un tale punto di vista, è ovvio che vada messo in soffitta, in quanto datato, non solo il pensiero politico ma anche il materiale analitico lasciatoci da Gramsci. L’unico ruolo che si può ancora concedere al pensiero gramsciano sarebbe quello di “un termine di confronto insostituibile nel dialogo che non possiamo non svolgere con il nostro passato”. Detto in altre parole, dovremmo rassegnarci a considerare Gramsci come un classico.
In realtà, sollecitazioni del genere non sono affatto una novità: sono almeno dieci anni che Gramsci viene presentato essenzialmente nella veste di “classico”, nello sforzo di fare del suo pensiero una cosa inattuale e inoffensiva. Il che, per chi come me rimane convinto che il pensiero di Gramsci sia ben vivo, è inaccettabile. Con questo non intendo negare, naturalmente, che il suo contributo scientifico — proprio in quanto scientifico — oltrepassi di gran lunga l’ideologia di un partito e perfino di una classe. Anzi, bisogna ammettere che la classicizzazione di Gramsci ha avuto, in fin dei conti, un merito: ha avuto cioè la saggezza di evitargli di essere trascinato anch’esso dal destino del Pci e del comunismo novecentesco, consentendo invece quella ripresa e quel progresso degli studi gramsciani a cui si assiste da qualche tempo a questa parte (non tanto in Italia quanto all’estero). Malgrado tutto, però, continuo a pensare che quest’operazione di classicizzazione sia sbagliata. Innanzitutto, perché essa separa artificiosamente il Gramsci “scienziato” dal Gramsci “politico”.3 Il che è paradossale: forse in nessun altro autore come in Gramsci la teoria è legata così organicamente — per usare le espressioni a lui care — alla prassi. Per lui la teoria, la scienza, la filosofia sono politica, come si deduce dalla stessa definizione della sua “filosofia della praxis”, e nello stesso tempo vengono dopo la politica, nel senso che sono finalizzate alla missione prioritaria di trasformare il mondo.

Una lettura politica
Dunque, per rinvenire un’attualità di Gramsci bisogna leggerlo politicamente. Ma che cosa vuol dire leggerlo politicamente? Prima di tutto, restituirgli l’identità politica originale, che è quella di comunista ed eretico, a cui è rimasto fedele fino alla morte e senza compromessi (Rossanda 1991). Comunista, nel senso che è stato un critico radicale del capitalismo e della divisione governanti-governati, ed eretico, nel senso che ha sentito il dovere e avuto il coraggio di dissentire quando era difficile farlo. Due caratteri che — certamente — vanno collocati nel quadro dell’ideologia comunista del tempo, in piena espansione grazie all’Ottobre (il leninismo), e del regime nato da quell’ideologia, che era in piena fase di edificazione e di degenerazione (lo stalinismo). E due caratteri che — evidentemente — non possono non apparire anacronistici, dopo il crollo di ambedue i riferimenti: l’ideologia comunista e il regime sovietico. Ma due caratteri che nello stesso tempo possono mantenere tutta la loro validità, se considerati nel loro autentico significato generale. Il che, in parole povere, vuol dire che forse si può essere comunisti ed eretici — cioè contro il sistema capitalistico e contro le degenerazioni oligarchiche del movimento — in modo nuovo.
Leggere politicamente Gramsci significa anche verificare la validità e l’applicabilità della sua elaborazione teorico-analitica (e strategica). Ovviamente, questa non può essere data per superata soltanto in base alla sua datazione. Certo, se l’oggetto dell’elaborazione di Gramsci viene circoscritto alla congiuntura in cui venne svolta o riferito a un contesto storico-sociale qualitativamente diverso da quello attuale è giocoforza che tale riflessione risulti inservibile, tranne forse da un punto di vista puramente metodologico. Ma così non è. Gramsci non è stato un teorico della congiuntura, anche se il suo punto di partenza era senz’altro il crinale degli anni venti-trenta. Intanto, gli approdi della sua analisi sono stati — per un verso — i secoli precedenti, in cui si è inoltrato al fine di ricostruire il processo di formazione dello stato nazionale, e — per l’altro verso — i decenni successivi, in cui ha previsto l’affermazione del modello di regolazione fordista-statalista. Inoltre, non si può ignorare che Gramsci, da marxista, si occupa prima che di ogni altra cosa di un sistema storico — il capitalismo — che in quanto tale va esaminato “nella sua storia complessiva e nella sua concreta realtà unitaria” (Wallerstein 1985, p. VII). Dunque, solo un modo di ragionare — oggi molto alla moda — che espunge gli elementi di persistenza del capitalismo, per enfatizzarne unicamente le discontinuità “epocali”, può reputare datate le analisi gramsciane.
C’è infine un terzo elemento da considerare: è lo stesso passaggio storico da cui prendeva le mosse la riflessione dei Quaderni che ha una sua singolare emblematicità. Il fatto è che negli anni venti-trenta si verifica la più importante modernizzazione politica nell’ambito delle società capitaliste europee: l’avvento della politica di massa. Come dimostrano tutte le sue analisi socio-politologiche (la teoria degli intellettuali, la teoria degli apparati egemonici, la teoria del partito), Gramsci avverte assai intensamente quest’evento e ne dà una spiegazione originale e sistematica. Dunque, non è vero che la “scienza della politica” di Gramsci — come lui stesso la definiva, mostrando già in questo l’innovazione — sia datata. Piuttosto, il problema è che essa non ha potuto essere valorizzata a sufficienza, essendo offuscata dalle predominanti letture ideologiche (o addirittura idealistiche) e dai conseguenti pregiudizi nei confronti delle scoperte politologiche gramsciane. L’unico autore che ha fatto un lavoro paragonabile — peraltro, con notevoli punti di contatto (che non c’è lo spazio per evidenziare in questa sede) — è stato M. Weber, che non a caso è un contemporaneo di Gramsci e rimane anch’esso — senza che però nessuno si sogni di metterlo in dubbio — un punto di riferimento attualissimo per lo studio della politica dei giorni nostri.
Ma — quel che mi interessa di più in questa sede — la congiuntura storica da cui prende le mosse la riflessione di Gramsci è emblematica anche da un punto di vista politico-strategico. L’orientamento antieconomicista, la categoria di rivoluzione passiva, la strategia dell’egemonia e della guerra di posizione e altri contributi gramsciani sono ancora strumenti preziosi per qualsiasi forza politica del movimento operaio — e non solo — che prenda parte alla competizione per il potere. Tant’è vero che — come vedremo — mediante le categorie gramsciane il passaggio a cui oggi ci troviamo di fronte può essere analizzato in maniera sorprendentemente efficace. Anzi, possiamo dire che, da questo punto di vista, Gramsci rimanga a tutt’oggi il punto più alto di elaborazione politica della storia del movimento operaio: “Dopo di lui, in ogni caso, nessun altro teorico marxista europeo seppe più scrivere nulla di paragonabile” (Anderson 1977, p. 61). E — precisa giustamente Anderson — l’eccezionalità di Gramsci e il segno della sua grandezza stavano tutti nella sua capacità di incarnare l’unità di teoria e prassi.

Gramsci e il togliattismo
Il dato essenziale di questa celebrazione della morte di Gramsci è che essa è la prima senza il Pci, cioè senza che ci sia quella collettività politica e intellettuale che, se non ne è stata la creatura, certamente è diventata per molto tempo inseparabile da Gramsci. In una prospettiva di lettura politica, qual è quella che abbiamo scelto qui, questa circostanza ha evidentemente una portata enorme. Infatti, gran parte della fortuna di Gramsci in Italia è legata all’uso e alla valorizzazione che ne sono stati fatti per l’edificazione della cultura politica del Pci. Ma il problema è che — a differenza di quel che si è pensato per molto tempo — questa cultura politica, pur appoggiandosi in larga misura (nella forma e nella sostanza) sul pensiero gramsciano, non coincide affatto con esso, distinguendosene ancor più di quanto abbia fatto il marxismo nei confronti del pensiero di Marx. Tant’è vero che l’artefice di questa cultura politica non è stato (e non poteva essere) Gramsci, ma Togliatti. Si tratta, allora, di capire che cosa sia stato il togliattismo e che rapporto ci fosse tra esso e il pensiero di Gramsci.
Un po’ come lo stalinismo nei confronti di Lenin, il togliattismo ha utilizzato massicciamente il pensiero gramsciano, non facendone solo un mito politico ma anche prendendone teoricamente le mosse.4 Non è un caso che la parabola di questa cultura politica — nascita, sviluppo, apogeo, crisi e dissoluzione — coincida fedelmente con i destini dell’opera gramsciana. Lo dimostra benissimo la ricostruzione proposta recentemente da G. Liguori (1996).5 Infatti, la piena valorizzazione dell’attualità e dell’originalità teorico-politica del pensiero di Gramsci avviene a partire dal 1956, dopo i traumi del XX Congresso del Pcus e dei fatti di Ungheria, offrendo materia e presupposti all’elaborazione togliattiana della “via italiana al socialismo”. Da questo momento per il Pci Gramsci non sarà più soltanto il fondatore del partito, l’eroe antifascista e il grande intellettuale nazional-popolare, ma specialmente il teorico di riferimento — più di Marx e di Lenin — del partito e del movimento operaio italiano. E più tardi il Pci del compromesso storico cercherà di appoggiare ancora su Gramsci il “primato della politica” e la propria appartenenza a una tradizione democratica e diversa nei confronti del leninismo e del regime sovietico.
Certo, l’uso togliattiano di Gramsci non è stato privo di contrasti e di sfide, anzi per decenni è diventato l’obiettivo simbolico prediletto delle dispute politico-culturali all’interno del movimento operaio italiano. La prima di queste sfide venne da sinistra, negli anni sessanta, nel clima di radicalizzazione che avrebbe avuto il suo sbocco nel Sessantotto. Allora, la “nuova sinistra” italiana, considerando ormai inservibile per una critica al sistema l’immagine convenzionale di Gramsci fornita dal Pci, o lo rifiutò, preferendo ad esso altri apporti teorici, o cercò di rintracciare un “altro” Gramsci, diverso da quello ufficiale, e lo trovò nel Gramsci dell’Ordine nuovo, nel Gramsci consiliare.6 Ma se questa prima sfida rimase minoritaria, quella successiva, venuta dal versante opposto alla fine degli anni settanta, ottenne maggiore successo. Sull’onda dell’ambizione craxiana di conquistare l’egemonia a sinistra, la sfida degli intellettuali socialisti (N. Bobbio, L. Colletti, M. Salvadori), che denunciavano proprio nella matrice gramsciana la natura non “pluralista” e in fin dei conti stalinista del Pci, non diede i suoi frutti subito, ma riuscì a sfondare nel clima plumbeo degli anni ottanta, che segnarono la fine del togliattismo e l’oblio di Gramsci.
Nonostante questo destino comune, dovrebbe essere ormai chiaro che il pensiero gramsciano non si identifica nel togliattismo. Quest’ultimo ne ha proposto un’interpretazione, in quanto tale legittima ma non esclusiva. Lo ripeto: di questa circostanza bisogna prendere atto, senza scandalizzarsi come se si fosse intaccata o corrotta una purezza originaria, e senza attardarsi nella ricerca di un impossibile ritorno al “vero” Gramsci. Fra l’altro, nell’interpretazione data dal togliattismo non ci sono veri e propri stravolgimenti del pensiero gramsciano, anche grazie al fatto che quest’ultimo — come si sa — è tutt’altro che un corpus unitario e sistematico. Ma delle forzature ci sono, eccome. Come ho cercato di argomentare in altra sede (Melchionda 1991), il togliattismo è stato una cultura politica dalla fisionomia complessa, per certi aspetti ambigua, che si compone di diversi elementi interconnessi — formazione ideologica, strategia politica, programma fondamentale, sistema di valori — e che, grazie alla lezione di Gramsci, ha avuto il merito di superare, in una sorta di sintesi più avanzata, le due anime tradizionali in cui precedentemente si era sempre divisa la sinistra italiana: il riformismo e il massimalismo.
La formazione ideologica togliattiana era basata in gran parte sul paradigma storicista, anche se ne ha ritoccato alcuni elementi — l’unità soggetto-oggetto, la concezione lineare e finalistica della storia, la tradizione De Sanctis-Labriola-Gramsci — né è mai riuscito a liberarsi dell’altra faccia economicista, tipica del terzinternazionalismo, molto più confacente a Togliatti che a Gramsci. Il suo programma fondamentale si ricollegava alle impostazioni gramsciane della centralità della questione meridionale e dell’idea del blocco storico, sebbene anche qui non senza l’interposizione di elementi alquanto estranei alle convinzioni di Gramsci: da una parte il paradigma crollista e dall’altra l’impianto riformista, che metteva l’accento sulla “funzione nazionale” della classe operaia. Il sistema di valori di cui è stato artefice il togliattismo — in un grande ruolo di integrazione e socializzazione di massa — si ispirava indubbiamente al modello di partito “totalitario” (partito-società e partito-stato, al tempo stesso) teorizzato dall’autore delle Note sul Machiavelli e assegnava un ruolo chiave alla figura gramsciana dell’intellettuale organico, anche se poi tutto ciò è stato spesso piegato in un meccanismo di legittimazione di un ceto politico.

Ripartire dalla sconfitta
Più che altro, però, è nella strategia politica che l’uso di Gramsci fatto dal togliattismo ha avuto le conseguenze politiche più evidenti e cospicue. Non c’è neppure bisogno di ricordare quanto sia debitrice della strategia dell’egemonia e del corrispondente abbandono dell’insurrezionalismo leninista la progressiva espansione del Pci nel dopoguerra, che l’ha portato a diventare non solo il più grande partito comunista occidentale ma anche un partito anomalo, dalle caratteristiche difficilmente decifrabili in base ai consueti schemi ideologici. Né mi sembra il caso di rispondere qui alle ricorrenti critiche di “doppiezza” rivolte al Pci togliattiano e alla sua strategia di matrice gramsciana, che a mio avviso rappresentò la ricerca tutt’altro che tattica di una via originale al socialismo e l’accettazione tutt’altro che strumentale del terreno democratico. Vale la pena osservare, invece, che questa strategia politica è stata la ragione sia della fortuna incontrata a suo tempo dal togliattismo che del suo insuccesso e della sua dissoluzione finale.
Il fallimento del togliattismo è stato sancito da due eventi non contemporanei ma collegati tra loro: la sconfitta della “via italiana al socialismo” e la morte del Pci. La sconfitta della strategia politica togliattiana si è consumata negli anni settanta, quando il Pci non seppe dare uno sbocco in direzione del socialismo all’avanzata della sinistra e ai nuovi rapporti di forza instauratisi nel paese. Oltre ai classici requisiti di una situazione “pre-rivoluzionaria” (crisi economica, crisi dello stato, intensa mobilitazione popolare), si erano allora create tutte le condizioni “di lunga lena” necessarie — secondo la strategia delineata da Gramsci in carcere — per uno sbocco del genere: grande accumulo di forze preliminare, opera di conquista ideale e morale degli intellettuali e dei “gruppi affini e alleati”, diffusione capillare della propria presenza in tutti i pori della società civile, capacità di direzione complessiva della società. Invece lo sbocco socialista non c’è stato. Perché?
Mi rendo conto, ovviamente, che per rispondere a questa domanda (ammesso che la si consideri corretta) bisognerebbe contemplare una molteplicità di fattori e di circostanze, e che forse nonostante ciò non avremmo comunque una spiegazione definitiva ed esaustiva. Tuttavia, credo che una possibile chiave stia nel rapporto fra le idee gramsciane e la strategia che il Pci aveva impostato in base a (e in nome di) esse. In parole povere, direi che, pur prendendone le mosse, la strategia del togliattismo si differenziava in maniera sostanziale dalla strategia elaborata da Gramsci. La sua era, in effetti, una traduzione gradualistica della teoria dell’egemonia, in cui veniva accantonato il momento della rottura sistemica, veniva ipostatizzato il metodo della guerra di posizione e assorbito il problema del socialismo in quello della democrazia. Il che la faceva diventare una “strategia dell’obesità” (com’è stata definita), incapace di comprendere che prima o poi la guerra di posizione e l’egemonia devono trasformarsi in guerra di movimento, dar luogo a una rottura e a uno sbocco più avanzato. Tutto ciò a Gramsci era invece ben chiaro, tant’è vero che per lui la guerra di posizione non era altro che “un accerchiamento dello Stato-roccaforte”, cioè un assedio a cui avrebbe dovuto pur sempre far seguito — secondo il modello dell’Ottobre — la rottura per mezzo della guerra di movimento (Poulantzas 1979).7
Non aver compreso questo fatto è costato molto caro al Pci e al movimento operaio italiano. L’arretramento degli anni ottanta, a seguito della controffensiva padronale e della ridefinizione dei rapporti di classe, si è accompagnato a quel che Gramsci definiva una rivoluzione passiva, cioè a un grande processo di modernizzazione e di ristrutturazione capitalistica, che la cultura della sinistra — e in primo luogo quella del Pci — non è stata in grado né di orientare né di interpretare criticamente (Ingrao e Rossanda 1995). Insomma, ci siamo ritrovati di fronte a una situazione simile a quella che — con “costante assillo” (Spriano 1967) — Gramsci osservava lucidamente dalla sua cella. Ancora una volta ci si è posto il problema di ripartire da una grande sconfitta, individuarne le cause e le conseguenze, per cercare eventualmente di ricostituire una nuova teoria e strategia di trasformazione. Il che significa anzitutto fare i conti con la precedente cultura politica. E, da questo punto di vista, se il togliattismo non ha certamente più nulla da dirci, il pensiero di Gramsci forse può ancora esserci utile.
Non intendo sostenere, beninteso, un puro e semplice ritorno a Gramsci o, peggio, l’improbabile costruzione di un “gramscismo”, che non è mai esistito e non so proprio cosa potrebbe essere (Tortorella 1977). Piuttosto l’autore dei Quaderni può servire a comprendere meglio e ad affrontare più consapevolmente la sconfitta che abbiamo alle spalle. Al di là delle suggestive analogie tra l’oggetto della riflessione gramsciana e la situazione attuale, non c’è dubbio che oggi le nuove forme che vanno assumendo il dominio e l’egemonia capitalistica seguono la medesima logica svelata nelle analisi dell’americanismo e del fascismo e richiedono di essere affrontate con strumenti non molto dissimili da quelli che utilizzava Gramsci. Logica che sarebbe incomprensibile e strumenti che sarebbero inutilizzabili se non ci si ponesse dal punto di vista dell’emancipazione delle masse subalterne. In ciò sta il riconoscimento — per chi lo voglia riconoscere — della scientificità del contributo di Gramsci.

Contro le due sinistre
E’ facilmente comprensibile, a questo punto, perché il contributo di Gramsci sia stato archiviato da gran parte della sinistra italiana. E’ dalla seconda metà degli anni ottanta, da quando cioè, disfattosi il togliattismo, si sono drammaticamente ristretti gli spazi per una cultura critica e per un progetto di trasformazione, che Gramsci non serve più. Dopo l’estrema ricerca berlingueriana di una “terza via” — e a parte qualche tentativo commovente di farne il precursore del gorbachevismo, della “sinistra europea” o di quant’altro (Vacca 1989) — nel Pci post-togliattiano Gramsci è stato messo in soffitta, e a quest’abbandono ha corrisposto una profonda mutazione politico-culturale. Una mutazione che, anche grazie all’occasione offerta dagli eventi dell’89, ha avuto la sua sanzione definitiva nel dissolvimento stesso del partito, da cui sono scaturite due formazioni politiche contrapposte: il Pds e Rifondazione comunista. Che utilità può avere a questo punto il pensiero gramsciano?
Spaccata in due schegge dell’ex Pci, l’impressione è che la sinistra italiana non abbia alcun interesse reale a strappare Gramsci dal suo destino di classico, ma anzi ne favorisca la neutralizzazione. Non mi pare che la contesa tra eredi, con l’uno che rivendica un Gramsci post-comunista ante litteram e l’altro che ne ostenta una sterile nostalgia, possa in alcun modo cogliere l’attualità e le potenzialità innovative del pensiero gramsciano. E’ significativo, a questo proposito, che le due sinistre non abbiano più nessun rapporto con la cultura del togliattismo. Il che in linea generale rappresenta sicuramente un fatto positivo, se si è convinti — come io sono — che quella cultura sia qualcosa di irripetibile e di irriproponibile. Ma rischia di tradursi in un regresso nella misura in cui finisce per riprodurre la situazione endemica della sinistra italiana che il togliattismo, con tutti i suoi limiti, era riuscito a superare: la spaccatura tra un’anima moderata e una massimalista. Sarà pure un’osservazione schematica, ma mi sembra vi siano pochi dubbi sul fatto che di questo si tratti.8 In un caso abbiamo la rinuncia alla critica e al superamento del capitalismo come sistema, nell’altro abbiamo invece un atteggiamento ideologico, protestatario e intransigente, incapace o timoroso di “fare politica”, di perseguire obiettivi tattici e di “utilizzare ogni alleato possibile, sia pure incerto, oscillante e provvisorio” (Gramsci 1925).
Non è difficile comprendere perché nessuna di queste due culture possa proporsi seriamente di ripartire gramscianamente dalla sconfitta per ripensare la teoria e la strategia della trasformazione. Il moderatismo perché elide il problema alla radice; il massimalismo perché concepisce la fase attuale come un semplice ripiegamento, in cui non si può far altro che resistere in attesa che la “situazione oggettiva” crei le condizioni per una nuova avanzata. Ne deriva un’ulteriore accentuazione della divaricazione tra le due sinistre: l’una esprime una cultura essenzialmente politicista, in cui cioè la funzione della sinistra si esaurisce nella competizione per il potere e nel governo dello sviluppo capitalistico, e l’altra adotta una cultura economicista, per cui la trasformazione sociale è in fin dei conti il prodotto automatico delle tendenze economiche, della crisi, dell’impoverimento o dell’esasperazione di massa.
E’ proprio contro questa divisione che Gramsci ha combattuto accanitamente. Egli ha combattuto entrambe le tendenze, che ai suoi occhi rappresentavano due facce della stessa medaglia. E lo ha fatto prima all’interno del vecchio contenitore socialista e poi, dopo Livorno, contrastando sia l’“opportunismo” riformista che il massimalismo che vedeva riemergere nello stesso partito comunista di Bordiga o di Togliatti. Beninteso, Gramsci non si è mai illuso né ha mai pensato che bastasse riunire le due anime per far progredire la sinistra. Eppure, per lui questa divisione del movimento operaio rappresentava pur sempre “il più grande trionfo della reazione”. Il fatto è che Gramsci fu l’unico a capire che la condizione per superare questa situazione non stava in uno sforzo di buona volontà, né intercedendo per un’impossibile riunificazione né adoperandosi per un inutile dialogo, bensì nella capacità di rispondere alla crisi strategica di cui soffrivano entrambe le sinistre. Anche oggi le due sinistre sono in una profonda crisi strategica, spiazzate da una rivoluzione passiva altrettanto intensa di quella degli anni venti-trenta, la quale toglie il terreno sotto i piedi tanto al riformismo quanto al massimalismo. Perciò le due sinistre non riescono a far altro che navigare a vista e perciò rischiano di portarci alla rovina. Allora ripartire da Gramsci, senza dogmatismi di sorta, potrebbe essere più utile di quanto normalmente si pensi.

NOTE
1) Mi pare, dai resoconti apparsi sui giornali, che vada più o meno in questo stesso senso il recenteconvegno di Cagliari su “Gramsci e il Novecento”.
2) A dire il vero, ho trovato assai sorprendente la scelta di affidare a questa lettura la commemorazione del sessantennale fatta da il manifesto, che pure in passato si era caratterizzato più e meglio di chiunque altro nella rivalutazione e nell’attualizzazione di Gramsci (battendosi inoltre contro la canonizzazione fattane dal Pci).
3) Come si ricorderà, un’analoga operazione è stata compiuta su Marx (“filosofo” versus “scienziato”) da C. Napoleoni e altri, con il risultato di farne un mero continuatore degli economisti classici (per una critica molto calzante, vedi Turchetto 1979).
4) A parte tutte le altre differenze, bisogna considerare che prima dello stalinismo un leninismo c’era già, mentre un gramscismo non c’è mai stato.
5) La bella ricostruzione di Liguori — dedicata alle letture italiane della teoria politica gramsciana — ha cercato di tenere insieme e mettere in collegamento le interpretazioni degli studiosi con il contesto politico-culturale di riferimento, riuscendo anche a dar conto del rapporto intercorrente tra il pensiero di Gramsci e la cultura politica del Pci. Purtroppo, però, in questo modo Liguori non ha potuto approfondire sufficientemente le implicazioni che il pensiero gramsciano e le sue interpretazioni hanno avuto su quella stessa cultura politica (che è il tema che interessa di più al sottoscritto). E’ significativo, a questo proposito, che nel libro non venga mai citato E. Berlinguer, il quale non sarà stato né uno studioso di Gramsci né un ideologo in generale ma certamente è stato il più importante segretario del Pci dopo Togliatti.
6) Non solo: anche all’interno del Pci la componente di sinistra ingraiana, sfortunata protagonista dello scontro all’XI Congresso (gennaio 1966), cercò di proporre un’interpretazione alternativa (meno conformista) di Gramsci. E a questo clima si collegava, sul versante più propriamente teorico, la critica dello storicismo, che trovò in G. della Volpe, L. Althusser, C. Luporini e R. Rossanda i principali esponenti.
7) Per Poulantzas qui, però, c’è anche il vero limite di Gramsci, che consiste nel rimanere all’interno della strategia leninista classica del doppio potere, dove lo scontro è concepito come un testa a testa tra uno stato-roccaforte e un movimento che si costituisce all’esterno come anti-stato. E’ bene chiarire, però, che la critica (assai acuta e pertinente) di Poulantzas a Gramsci non è di aver mantenuto l’idea di una rottura rivoluzionaria, ma di non essere riuscito ancora — nonostante i suoi indubbi progressi nei confronti del terzinternazionalismo — a contemplare la possibilità (anzi, la necessità, in società capitalistiche avanzate) che questa rottura avvenga all’interno stessodell’apparato statale (per un maggiore approfondimento, vedi Poulantzas 1977).
8) E’ chiaro che qui mi riferisco a predisposizioni e tendenze di fondo, ben sapendo che il Pds e il Prc sono realtà complesse e in evoluzione, non riducibili in definizioni così sommarie. A questo proposito, trovo assai strane alcune recenti affermazioni del solito L. Paggi, che in un’intervista a l’Unità (13 apr. 1997) ha sostenuto — con chiaro intento provocatorio — che i comportamenti di Rifondazione comunista sarebbero interpretabili secondo la logica del “calcolo politico”, di “imprenditoria politica”, di “partito-azienda”, piuttosto che in base alla tradizionale cultura del massimalismo, e spiega poi che quest’ultima non ha mai interessato il Pci, nato proprio contro il massimalismo socialista e afflitto poi (con il togliattismo) dalla divaricazione tra il moderatismo tattico e il deficit di analisi del capitalismo. Ora, non potendomici soffermare in questa sede, dirò che sono d’accordo con G. Procacci che in un’intervista successiva (l’Unità, 18 apr. 1997) ha fatto notare come le affermazioni di Paggi, pur essendo di sicuro stimolo, siano sbagliate sia storicamente (il massimalismo è ricomparso presto nel Pci, prima con il determinismo-settarismo di Bordiga e poi con il “terzo periodo” interpretato da Togliatti, tant’è vero che Gramsci l’ha combattuto esplicitamente in entrambi i casi) sia politologicamente (l’uso che Paggi fa delle categorie di partito-azienda e affini è vago e impreciso, tant’è vero che esse secondo lui si applicherebbero sia al Prc che a Forza Italia) sia politicamente (non mi pare proprio che i comportamenti di Rifondazione siano dettati principalmente dal calcolo politico e dall’istinto di conservazione, anzi!). Molto più proficuo mi sembra invece il giudizio sul Pci togliattiano, che però Paggi continuapurtroppo a vedere (come nei suoi vecchi lavori) in piena continuità con quello precedente.

Riferimenti bibliografici
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