NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Il libro nero del comunismo (Mondadori, Milano 1999)
in costruzione


Dario Fertilio: Quel «libro nero» che divide la sinistra. Fare autocritica o chiuderlo nel cassetto? (Corriere della Sera, 9.01.1998)

Chissà che cosa penserà del comunismo di questo secolo, chi avrà vent'anni nel 2050. Gli verranno in mente le grandi utopie, o piuttosto quei cento milioni di morti denunciati nel «Libro nero del comunismo» pubblicato in Francia dall'editore Laffont?
E soprattutto: a quali fonti attingerà per conoscere le opinioni del Pds sull'argomento? Secondo i critici del partito nato dalle ceneri del Pci, l'immaginario ricercatore del prossimo millennio potrebbe essere colpito soprattutto da un «assordante silenzio». Perché i «mea culpa» sono ancora rari, esitanti, e affidati per lo più a coloro che meno dovrebbero sentirsi responsabili, cioè ai «miglioristi». Come dire: all'ex opposizione interna, già in odore di socialdemocrazia.
Anche l'articolo di fondo di Biagio De Giovanni, pubblicato sull'«Unità» di ieri, rientra in questo schema: è un invito ampio e coraggioso all'autocritica, un appello alla sinistra perché riveda «sia la propria storia sia la propria cultura politica» alla luce della tragedia chiamata «socialismo reale». Non fu solo «schizofrenia», secondo De Giovanni, quella che indusse tanti militanti del Partito comunista italiano a battersi per la democrazia in Italia e contemporaneamente ad appoggiare Stalin e i suoi successori. Fu un difetto culturale più profondo, invece: adesione acritica a un'ideologia, interpretazione unilaterale della storia.
Ed ecco che, proprio mentre De Giovanni lancia il suo messaggio, il segretario pidiessino D'Alema dichiara in televisione a Enzo Biagi: «Noi quei milioni di morti li abbiamo additati come un crimine orrendo tanti anni fa». Perché dunque parlarne di nuovo? Il comunismo «buono», quello italiano, rappresenta secondo Massimo D'Alema la vera eredità della Quercia. Dell'altro, cioè «di quella dittatura che ha oppresso Paesi e popoli nell'Est d'Europa», nel suo partito non si troverebbe traccia.
Ecco servito dunque chi, come Ernesto Galli della Loggia, denunciava sul «Corriere della Sera» silenzi e connivenze della sinistra, e in più una precisa strategia politica: delegittimare l'anticomunismo della Prima Repubblica per garantire al Pds l'egemonia sulla Seconda.
Ma Galli della Loggia non demorde e rinvia la critica al mittente: «Quante cose diverse può significare - chiede - la parola "comunismo"? Se l'affermazione di D'Alema ha un valore, essa apre un grande campo d'indagine: quanti tipi di fascismo vi furono, e quanti di nazismo? Anche di questi ve ne sono alcuni da salvare? O il comunismo è l'unica ideologia cattiva di cui esistono versioni buone?».
Quanto ai legami fra Pci e totalitarismi sovietici, Galli della Loggia non ha dubbi: «Fino agli anni Settanta la biografia politica di tutti i dirigenti comunisti italiani, salvo pochi come Enrico Berlinguer, comportava viaggi e vacanze in Urss. Chissà perché se ne andavano in vacanza in Crimea: soltanto perché i soggiorni erano a buon prezzo?».
Eppure quella distinzione dalemiana non è così campata in aria, secondo lo storico Gian Enrico Rusconi. «Mi viene in mente Calamandrei - dice - che fu un anticomunista intransigente fino al '39, ma quando entrò in contatto con i militanti italiani, combattendo al fianco di Pajetta, cambiò atteggiamento e venne accusato d'essere diventato troppo tenero. Questo prova che concettualmente la distinzione esisteva già allora: il nostro comunismo "casalingo" sarà stato magari aggressivo, ma non è imputabile di alcun crimine». Perché allora, avendo le carte in regola con la democrazia, il Pci non ruppe subito con Stalin? «Perché l'ossessione di leggere le ideologie in senso degenerativo e criminale è di oggi, mentre un tempo una simile sensibilità non esisteva».
Ma sarà poi vero che, fra tanti, Enrico Berlinguer sia il comunista da assolvere? Lo storico Giuseppe Bedeschi punta l'indice proprio contro «il gruppo dirigente berlingueriano, formato e portato al vertice del partito dal segretario».
D'Alema, che ne è ovviamente l'esponente più noto, «prende le distanze dal passato solo quando le polemiche lo incalzano, mentre ci vorrebbe un pubblico atto di contrizione, a meno che non si voglia scavare un fossato tra politica e morale.
«E poi - ricorda ancora Bedeschi - il famoso "strappo" berlingueriano non mise mai in discussione la struttura comunista dello Stato sovietico, si limitò a prendere atto dell'esaurirsi della sua "fase propulsiva". Un punto sul quale, paradossalmente, anche Trotzkij sarebbe stato d'accordo».

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Vittorio Strada: Stalin: Mamma mia, non ti ho abbandonata (Corriere della Sera, 9.01.1998)

MOSCA
Una surreale domenica d'inverno sulla Piazza Rossa, a Mosca. La Piazza è cintata e la polizia controlla l'unico accesso dalla parte del Maneggio: perquisisce le borse di chi vuole entrare, cercando, chissà perché, non solo armi, ma macchine fotografiche, e chi ne risulta in possesso è respinto. I pochi visitatori, superato l'esame, attraversano una Piazza Rossa spettralmente vuota e si avviano verso il Mausoleo di Lenin, forse prossimo alla chiusura.
Più animato è lo spettacolo nella parte antistante la Piazza, dove si svolge un comizio comunista davanti a una folla sparuta che agita bandiere rosse, tra le quali una di Rifondazione comunista: Anpilov, il più acceso tra i fedeli del vecchio Partito-guida, esalta il fronte internazionale dei rivoluzionari, nominando anche l'Italia, lì rappresentata da quel vessillo.
Accanto, un mercatino di pubblicazioni marxiste-leniniste. Tra la mercanzia risalta un libro fiammante nella sua rilegatura cremisina: il quattordicesimo volume delle Opere di Stalin. Non è un libro usato, ma una novità di quest'anno. Chi resisterebbe alla tentazione di acquistare per trentamila rubli una copia di quel libro che, come dice il sottotitolo, raccoglie ciò che il «Padre dei popoli» ha scritto nel periodo marzo 1934-1940?
La prefazione, firmata da Richard Kosolapov, noto per un libro in difesa dell'erede di Lenin contro le «denigrazioni» di Trotzkij, Krusciov e altri traditori, ricorda che la pubblicazione delle Opere di Stalin, iniziata nel 1946 a cura dell'Istituto Marx-Engels-Lenin, era arrivata al tredicesimo volume, uscito nel 1951, e non aveva poi avuto seguito, poiché, morto l'autore, era cominciata quella sua damnatio memoriae che rese una rarità bibliografica, a dire il vero da pochi ambita, quei tredici volumi pubblicati. Kosolapov ricorda lealmente che l'edizione fu portata a termine dai «nemici di classe» del comunismo, cioè in America, proprio quando Krusciov lanciava una clamorosa invettiva contro il suo ex Padrone e Maestro: allora la Hoover Institution pubblicò in russo i tre volumi mancanti, fino al sedicesimo. Non si può dar torto a Kosolapov quando dichiara di aver ritenuto necessario ripetere quell'operazione editoriale anche in Russia, sia pure per motivi più ideologici che filologici. Né si può trascurare il suo riconoscimento verso il lavoro svolto dai curatori dell'edizione americana di Stalin, sulla quale egli si basa.
Che cosa colpisce in questa edizione russa del XIV volume delle Opere di Stalin, al quale seguiranno presto altri due? Il contenuto, prima di tutto, naturalmente, dato che questa lettura inaspettata di un grande protagonista della storia del nostro secolo è davvero interessante, indipendentemente da ogni valutazione del suo operato. Ma colpisce anche, già nel frontespizio, l'epigrafe: «Russia! Alzati ed ergiti!», appello patriottico che porta la firma di Aleksandr PuÃskin. Ma le sorprese continuano, visto che nella prefazione, in luogo di citazioni di Marx, si trovano massime evangeliche, come questa pronunciata da Gesù (nel vangelo di Matteo): «Un profeta non è privo di onore se non nella sua patria e nella sua casa», amara riflessione citata a commento del fatto che, come s'è detto, l'edizione delle opere di Stalin è stata por tata a compimento dagli americani, manchevolezza cui solo ora si è posto rimedio nella patria del Profeta.
Se poi si passa ai testi staliniani, si nota che, come Kosolapov avverte nella prefazione, dai suoi discorsi sono stati eliminati tutti gli incisi segnalanti le interruzioni degli «applausi» e di altre forme di entusiasmo degli ascoltatori in quanto, osserva con giudiziosa mestizia il curatore, «hanno perso ogni senso ai nostri giorni».
Una novità, rispetto all'edizione americana, sono le lettere di Stalin alla madre, lettere che, inframmezzate agli aspri scritti politici, si distinguono per il formale sentimento filiale del dittatore. Come quella del 19 febbraio 1935: «Alla mia mamma un saluto! Come va la vita, coma va la tua salute, mamma mia! Stai poco bene o ti senti meglio? Da tempo non ho tue notizie. Non sarai mica arrabbiata con me, mamma mia? Io per ora mi sento bene. Non preoccuparti per me. Ti auguro molti anni di vita. Un bacio! tuo figlio Sosò» (Sosò è il diminutivo georgiano di Iosif). O come questa dell'11 giugno dello stesso anno: «Salve, mamma mia! So che stai poco bene... Non si deve temere la malattia, fatti forte, tutto passa. Ti mando i miei figli. Accoglili e coprili di baci. Sono bravi ragazzi. Se potrò, un giorno verrò anch'io».
Gentile con la mamma, Stalin è spiritoso con gli avversari, come in questa risposta (qui pubblicata per la prima volta) del 26 ottobre 1936, a un dirigente dell'Associated Press che aveva chiesto informazioni circa le voci sulla presunta malattia e persino morte di Stalin: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime e mi sono trasferito all'altro mondo. Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell'aldilà. Con stima I. Stalin».
Sottilmente spiritosa, ed esemplarmente modesta, è anche questa lettera inviata da Stalin il 16 febbraio 1938 alla Casa editrice per l'infanzia: «Sono decisamente contrario alla pubblicazione dei Racconti sull'infanzia di Stalin. Il libro è zeppo di inesattezze, di deformazioni, di esagerazioni, di immeritati elogi (...) Ma non è questa la cosa principale. La cosa principale è che il libro tende a radicare nella coscienza dei bambini sovietici il culto delle personalità, dei capi, degli eroi impeccabili. Il che è pericoloso, nocivo».
Paternamente attento all'educazione dei bambini, nonché degli adulti sovietici, Stalin è marxisticamente preoccupato anche per le falsità che i giornalisti (borghesi, ovviamente) possono diffondere per screditare quella benefica associazione che fu il Komintern (Internazionale comunista). In una lunga intervista a un giornalista americano nel 1936 egli definisce «comica, se non addirittura tragicomica» l'«impressione», diffusa nel mondo, che l'URSS sia intenzionata a favorire la rivoluzione in altri Paesi, idea, egli assicura, che «mai noi abbiamo predicato».
Parallelamente al completamento delle Opere di Stalin, nella stampa sovietica si è riacceso il dibattito e la pubblicazione di materiali circa la presunta collaborazione del giovane Stalin con la polizia segreta zarista.
Ed è uscita l'edizione russa del libro di uno studioso americano di psicoanalisi, Daniel Rancour-Laferriere (La psiche di Stalin), secondo cui il dittatore comunista, che adorava la tenera madre e odiava il padre violento, dimostrerebbe di avere latenti tendenze omosessuali. Il che spiegherebbe anche la sua fiducia in Hitler. Sarà... Ma meglio è leggere i volumi che Richard Kosolapov offre devotamente ai tardivi lettori e cultori russi di Iosif Giugashvili, universalmente noto col soprannome rivoluzionario di Stalin.

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Antonio Moscato: Le colpe della rimozione (il manifesto, 15.02.1998)

La campagna sui "crimini del comunismo" riaffiora periodicamente ed è molto sgradevole; ma bisogna essere consapevoli che è l'esistenza di una mentalità "negazionista" in consistenti settori della sinistra a renderla possibile. Probabilmente per reazione spontanea alla volgarità degli attacchi a tutta la storia del movimento comunista, c'è chi ha finito per negare ogni fondamento alle denunce per la provenienza da pulpiti discutibili. Ad esempio, di fronte alla tendenza a mettere sistematicamente in conto a Lenin tutto quel che avvenne nell'epoca di Stalin (Barbara Spinelli è arrivata a scrivere su La Stampa che Lenin aveva concepito i campi di concentramento per chiudervi i... reduci dalla guerra di Spagna), si reagisce accettando la stessa metodologia. Anche a sinistra c'è chi ha ricominciato a identificare Lenin e Stalin, confondendo i primi anni di una rivoluzione di cui erano protagoniste masse enormi - e che per la sua carica libertaria affascinava anarchici come Victor Serge e anarcosindacalisti come Andreu Nin - con gli anni di piombo (in tutti i sensi) del "grande terrore", e della riduzione del "marxismo-leninismo" a un catechismo di cui erano maestri i Lisenko, gli Zdanov, i Suslov. Così ricompaiono, anche nelle manifestazioni per il Chiapas o per il Che, le magliette di Stalin.
In realtà, dopo il "crollo", la maggior parte dei militanti della sinistra ha rimosso quel che non capiva e l'imbarazzava. Il Pds ha spesso fatto suoi gli argomenti dell'avversario. Il Prc ha a lungo rinviato il compito di aprire una discussione sulle ragioni della crisi, con il risultato che all'interno del partito esistono senza confrontarsi le più svariate posizioni, e con il tempo è sempre più difficile avviare il dibattito (che naturalmente non dovrebbe definire un atteggiamento univoco e "ufficiale"). Testi e documenti da mettere in circolazione non dovrebbero essere cercati chissà dove; basterebbe rilanciare, ad esempio, i lavori quasi dimenticati di Roy Medvedev, che pur essendo stato l'unico dei 17 milioni di iscritti al Pcus a difendere il partito al momento del suo scioglimento (glielo riconobbe perfino Ligaciov), è stato rimosso da chi si sta arroccando nella nostalgia del passato, e che per reazione a chi ha gettato il bambino con l'acqua sporca, sta recuperando soprattutto quest'ultima.
Si sta diffondendo un atteggiamento manicheo: o si condanna tutta la storia del movimento operaio, o si difende tutto. C'è chi ha fatto propria l'identificazione tra nazismo e "comunismo" (basata su innegabili affinità esteriori, ma che non si regge se si considerano le finalità dei due regimi), ma anche chi tenta di negare perfino l'esistenza del sistema concentrazionario, insinuando che i crimini di Stalin non sarebbero stati documentati se non dai "nemici del socialismo".
Il primo problema con cui dobbiamo fare i conti, non certo perché ce lo chiedono Barbara Spinelli o Sandro Viola, sono le conseguenze dello stalinismo sul presente e sul futuro dei paesi che furono definiti "socialisti" e sull'intero movimento operaio, e non soltanto i "crimini di Stalin" in termini di sinistra contabilità dei morti. Non voglio sminuire il significato dello sterminio dei dirigenti bolscevichi (8 su 10 membri del Politbjuro e 17 su 23 membri del Comitato centrale del 1917 furono vittime di Stalin) e dei comunisti europei rifugiati in Urss, ma credo ad esempio sia ancor più grave quel segno indelebile lasciato in Polonia dalla spartizione del 1939, e dalla deportazione e sterminio dell'intelligencija polacca nel biennio successivo, tanto più pesanti in quanto colpivano un paese in cui il partito comunista era stato sciolto da Mosca. Per attenuare la responsabilità di Togliatti, che lo scioglimento avallò, si è detto che era un atto di scarsa rilevanza, perché nel 1938 già i dirigenti polacchi erano stati uccisi a Mosca. Ma quella decisione tra l'altro impedì che i comunisti rimasti nel paese potessero agire in modo organizzato contro gli occupanti nazisti (con cui i sovietici, nei protocolli segreti allegati al Patto Ribbentrop-Molotov, avevano stabilito un accordo di cooperazione per stroncare ogni resistenza polacca). La resistenza fu organizzata da altri, poi esclusi dal potere. C'è da stupirsi dell'anticomunismo polacco?
La tragedia polacca è una delle tante. Avviene nel quadro di una spartizione cinica dell'Europa con Hitler che prefigura quella del 1944 con Churchill, con in più una tragedia che viene abitualmente rimossa: la consegna di 2000 comunisti tedeschi a Hitler. Solo Spriano, nel suo ultimo libro su I comunisti europei e Stalin, ha affrontato il tema senza reticenze. Eppure è fondamentale (insieme alle fosse di Katyn) per capire che Stalin si preparava non alla guerra, ma a una lunga alleanza con Hitler, a cui fornì fino alla vigilia dell'invasione petrolio, grano e materiali strategici, oltre a una preziosa collaborazione militare. Che esempio ha dato ai popoli quella spartizione sulla pelle dei polacchi, dei baltici, dei moldavi, dei finlandesi? Alcuni si ostinano a negarla, adducendo dubbi sulla veridicità dei "protocolli segreti", come se i fatti (i confini che delimitavano le due aree di influenza) non coincidessero con i documenti, e come se le annessioni concordate con Hitler non fossero state poi ricontrattate con Churchill, che ne ha lasciato minuziosa documentazione (senza scandalizzarsi, ovviamente, per lui era logico spartire il mondo). Ma anche le spartizioni "di Yalta" sono state per decenni messe in dubbio, perché non figuravano nei verbali di quella conferenza (infatti sappiamo dallo scrupoloso archivio di Churchill che erano state decise a Mosca nell'ottobre 1944).
I revisionisti alla Nolte giustificavano i crimini nazisti presentandoli come risposta a quelli "del comunismo" (non "dello stalinismo", altrimenti i loro ragionamenti salterebbe). E' assurdo, dato che lo stalinismo fu possibile proprio nell'isolamento di una Russia arretrata, dovuto al soffocamento della rivoluzione tedesca, ungherese, ecc. con la "controrivoluzione preventiva". Ma lo stesso metodo di giustificare i crimini della propria parte con quelli degli altri è usato da chi, a ogni discussione sull'Urss, sfugge trincerandosi dietro l'immensità dei crimini nazisti, o ricordando le bombe di Hiroshima e Nagasaki o la distruzione di Dresda. E' assurdo. Di crimini il capitalismo ne ha commessi infiniti, ma questo non giustifica nulla: perché il movimento comunista, nato per opporsi a quella barbarie, ha finito per adattarvisi e riprodurre i metodi e, per giunta, soprattutto contro il movimento operaio? Solo rispondendo a questo si potrebbe tappare la bocca ai petulanti fustigatori dei "crimini comunisti".
Lo stalinismo non si può ridurre al "grande terrore" del '35-'38, che ben pochi hanno il coraggio di rivendicare: è cominciato ben prima, alla metà degli anni '20, con la distruzione del partito come organismo vivo e con diverse posizioni politiche (tra il 1917 e il 1921, anni tragici per la rivoluzione russa assediata, c'era perfino il diritto di frazione). La lettera del 1926 di Gramsci, preziosa testimonianza, dovrebbe essere meditata, e non liquidata dicendo che Gramsci non era diventato trotskista (vero) per non ricordare cosa temeva per il futuro di un partito che allontanava Trotskij, Zinoviev, ecc. Da quella censura (che impedì alla lettera di entrare nel dibattito di un Comintern in cui Stalin non era ancora il padrone assoluto) iniziò una progressiva rimozione di gran parte del patrimonio marxista, ridotto a un catechismo aggiornabile ai fini di ogni necessità contingente. E cominciò quel fideismo cieco che abbiamo tutti conosciuto (e che non è affatto scomparso nei due tronconi in cui si è diviso il Pci), che non escludeva una generosa dedizione alla "causa", e anche vero eroismo, ma non ha impedito che quella dedizione e quell'eroismo, subordinati alle esigenze della burocrazia sovietica, finissero per aprire la porta a Franco in Spagna e alla Dc in Italia.

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Benedetto Vecchi: La parata romana di Courtois (il manifesto, 06.03.1998)

La visita romana di Stephane Courtois, meglio noto come uno dei curatori del Libro nero del comunismo, è iniziata presto, alle 11, con un incontro con studenti delle scuole superiori e universitari. A Roma su invito della deputata europea di Alleanza Nazionale Roberta Angelilli, Courtois ha presentato al pubblico italiano il Libro nero, che da quando è uscito nelle librerie è diventato rapidamente un bestseller - come era prevedibile visto l'ampio battage che ne ha preceduto la pubblicazione. Non solo perché Silvio Berlusconi, cioè uno dei maggiori azionisti della Mondadori che ha editato il volume, si preoccupa di promuoverlo, diffondendolo nelle assisi di Forza Italia e Alleanza nazionale, ma perché soddisfa uno "spirito del tempo" che fa della storia un frullato misto in cui tutto è uguale. Ma su questo non c'è nessun destino cinico e baro da maledire. Piuttosto basta mantenere saldi i nervi e guardare con spirito critico a quanto avviene intorno a noi.
Ma ieri, a Roma, durante la conferenza stampa di Courtois di spirito critico ne circolava ben poco, visto che i luoghi comuni dell'anticomunismo sono stati sciorinati senza pudore al solo scopo di dimostrare una tesi: dopo aver svelato gli orrori del nazismo, bisogna stabilire la verità sull'orrore comunista. Il primo luogo comune inanellato è stata la riproposizione del tema che la dittatura comunista nella cultura francese ha impedito uno studio puntuale del socialismo reale fino a quando non è crollata l'Unione sovietica. Una dittatura non dissimile, ha aggiunto prontamente un giornalista italiano, da quella imperante in Italia. Inoltre, tiene a precisare il relatore francese, la colpa è dell'opportunismo degli intellettuali, che in molti hanno preferito non affrontare argomenti scottanti per paura di non fare carriera nelle università. Insomma, gli intellettuali o sono banderuole o codardi.
Va detto che Courtois ha un momento di incertezza quando gli viene chiesto un commento sull'abbandono degli altri due curatori che non hanno riconosciuto il libro nella sua stesura definitiva. Incertezza prontamente colmata a colpi di citazioni su date e numero delle riunioni del gruppo di storici che hanno lavorato al progetto. Insomma: Courtois non riesce a capire i motivi della dissociazione di Nicolas Werth e Jean Louis Margolin. Ma è solo un momento, poi passa con sicurezza a un altro dei suoi argomenti preferiti: Stalin edifica il totalitarismo comunista, ma è Lenin che ne pone le basi, specialmente quando ha inmposto con la violenza l'utopia messianica di Marx. Certo, è assurdo considerare Marx come il responsabile dei crimini del comunismo, ma dopo questo libro - è sempre Courtois a parlare - si leggono con ben altro spirito le pagine del "Manifesto del partito comunista".
Il tempo incalza, perché c'è un'eterogenea folla che attende l'inizio dell'altro appuntamento di Courtois (davvero instancabile), che illustrerà il libro assieme al senatore Domenico Fisichella con controrno di due giornalisti. Così il finale riservato ai soli giornalisti è incalzante. C'è un qualche rapporto tra fascismo e comunismo, domanda un giornalista, citando la biografia di Musssolini svolta da Ernst Nolte, in cui lo storico tedesco indica nell'origine socialista del duce l'origine dell'avventura fascista. Ma certo, risponde con sicurezza Courtois, entrambi avevano come obiettivo la distruzione dello stato democratico e la guerra civile per edificare la nuova società. Poi Stephane Courtois lascia il tavolo dei relatori per riposarsi. Un po' di pausa e poi c'è da affrontare il pubblico che è venuto a rendergli omaggio. Giovani di destra e navigati conservatori sono impazienti di sentire il suo verbo.
Chissà se la Mondadori è contenta di questo uso strumentale del libro. In fondo, la casa editrice di Segrate aveva lanciato il libro usando una delle sue ammiraglie - "Panorama" - con un pezzo di Enzo Bettiza, che certamente comunista non è, ma è certo più cauto e meno apodittico di Stephane Courtois nel giudicare la storia controversa del Novecento. E del socialismo reale.

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Giuseppe Chiarante: Nel regno della necessità (il manifesto, 6.03.1998)

Ha fatto certamente bene Rossana Rossanda a non eludere ed anzi a porre al centro della sua recensione del Libro nero del comunismo, pubblicata da il manifesto del 25 febbraio, un interrogativo con il quale chi ha militato in un partito comunista, o comunque ne ha sostenuto la politica, è chiamato a misurarsi non tanto dal discusso e discutibile "Libro nero", ma dal complesso della vicenda storica di questo secolo. Ossia l'interrogativo su come e perché sia potuto accadere che un movimento sorto - come ricorda Rossanda - dall'idea di "liberare la persona umana dalle costrizioni esterne" (e in effetti per questa idea di libertà e di liberazione sono scesi in campo e hanno combattuto milioni di individui di tutte le razze e di tutti i continenti) abbia invece finito col realizzare, ovunque è giunto al potere, un "monopolio statale della violenza - sono sempre parole di Rossanda - più alto e durevole che in qualsiasi democrazia".
E' bene dire subito che anche a mio avviso gli scritti - per altro di valore assai diversificato - riuniti nel "Libro nero" non sono di grande aiuto, né sul piano delle analisi né su quello delle interpretazioni, per dare o per cercare una risposta a questo interrogativo. Certo, i dati raccolti nei vari saggi - anche se troppo spesso sommano insieme situazioni molto differenti, dalla violenza poliziesca alla morte in guerra o per carestia - sono nel complesso impressionanti. Ma tali dati non modificano in modo sostanziale la conoscenza dei meccanismi di repressione che erano tra gli strumenti di governo del regime staliniano e degli altri regimi a guida comunista costituitisi sul suo esempio.
Si tratta, del resto, di meccanismi che erano già noti o comunque facilmente conoscibili ormai da moltissimi anni, anche prima del famoso "rapporto Krusciov". Ricordo a questo proposito - per quel che può valere un'esperienza personale - che io fui tra coloro che subito dopo il secondo conflitto mondiale si accostarono da giovanissimi allo studio della rivoluzione bolscevica e della successiva esperienza sovietica principalmente leggendo i libri di Trotzky, di Isaac Deutscher, di altri autori dell'opposizione a Stalin. Da quei libri si deduceva facilmente quale fosse la natura e di quali mezzi si servisse il potere staliniano. Se dunque, in quegli anni e in quelli successivi, molti come me che avevano fatto quelle o analoghe letture decisero - nel caso specifico in Italia - di aderire al Partito comunista (per me si trattò, non a caso, di un'adesione a lungo meditata e abbastanza tardiva, avvenuta nel '58, quando avevo quasi 30 anni) ciò non fu certo per ignoranza di quel che accadeva in Urss o per acritica opzione ideologica. Fu una scelta fondata, al contrario, su due precise considerazioni. La prima riguardava il carattere autonomo e democratico della politica dei comunisti italiani, il ruolo essenziale di questo partito per la difesa e lo sviluppo della democrazia in Italia. La seconda considerazione aveva invece per oggetto il ruolo che, nonostante le contraddizioni della politica staliniana e poststaliniana, l'Unione sovietica svolgeva sul piano internazionale. Così come durante la guerra l'Urss era stata un baluardo decisivo contro il dilagare del nazismo, anche negli anni della guerra fredda la sua presenza continuava infatti ad essere un punto di riferimento essenziale per lo sviluppo delle lotte d'indipendenza dei popoli coloniali: e ciò in certa misura è stato vero sino alla fine della guerra del Vietnam, nel '75.
Richiamare questi dati di fatto (e come essi influirono sull'orientamento di più di una generazione) è a mio avviso indispensabile perché se non si fa riferimento al contesto storico in cui si svilupparono le drammatiche vicende di questo secolo oppure si d imenticano le stragi immani delle due guerre mondiali - e, su un arco di tempo anche più lungo, l'immensa montagna di sofferenze, di repressione, di mercificazione della persona umana, di lacrime e di sangue che dall'inizio dell'età moderna sono stati il cemento dell'edificazione capitalistica - è impossibile capire che cosa ha rappresentato il movimento comunista nel '900 e perché esso abbia tratto forza e alimento proprio dalle speranze di giustizia, di libertà, di liberazione.
Ma, detto questo, l'interrogativo sul fallimento della speranza comunista là dove questo movimento è giunto al potere, e dunque sul suo rovesciamento da movimento di liberazione a sistema di governo dispotico e oppressivo, rimane fondamentale e, come ho detto, non può essere elusa. Rossanda richiama problematicamente alcune delle spiegazioni che più sono state adoperate. In particolare la spiegazione sulla "immaturità" della rivoluzione nelle condizioni della Russia del '17; sulla difficoltà e anzi sull'impossibilità, in quella situazione, di costruire un moderno apparato produttivo e assicurare la difesa del nuovo Stato affidandosi a forme libertarie di autogestione statale e senza utilizzare gli strumenti anche repressivi di direzione dall'alto; sulle immani difficoltà del processo rivoluzionario in condizioni di arretratezza come quelle dell'Europa orientale o della Cina. Di qui - come nota giustamente Rossanda - il dramma dello "scollamento tra il blocco delle forze sociali che hanno partecipato alla rivoluzione e il blocco delle forze sociali di una edificazione socialista". Sono d'accordo con queste riflessioni sono persuaso, anche, che occorre dare maggior peso alle specifiche tradizioni sociali e culturali di paesi come la Russia o la Cina. Per esempio, oggi va di moda piangere sulla sorte dello zar Nicola II e dei suo familiari giustiziati dai bolscevichi: ma non per questo si può dimenticare che la Russia degli Zar non era esattamente la patria di Cesare Beccaria, tanto meno era uno Stato di diritto garantista e tollerante. Era, invece, un paese dove era del tutto legittimo - come ci ha raccontato nel suo romanzo più celebre uno dei maggiori scrittori russi di sentimenti sicuramente antisocialisti - che un signore della gleba facesse sbranare dai suoi cani, sotto gli occhi della madre, un ragazzo colpevole soltanto di aver fatto involontariamente uno sgarbo a uno di quegli animali. E violenza - è noto - chiama violenza: come ci ha ricordato, a un livello storico ben più impegnativo, Luciano Canfora, parlando su il manifesto del 28 febbraio della fucilazione di massa dei 30.000 operai rivoluzionari della Comune di Parigi e del monito che quell'esempio rappresentò, dopo l'Ottobre, per i dirigenti bolscevichi.
E tuttavia - per quanto fattori assai rilevanti - né l'"immaturità storica" dello strappo rivoluzionario del '17 né l'arretratezza culturale e sociale della vecchia Russia e neppure il richiamo alla contrapposta violenza delle classi conservatrici possono considerarsi una risposta esauriente alla questione di fondo riproposta da Rossanda. Anche per questo resta mia convinzione che la radice fondamentale delle degenerazioni avvenute nel movimento comunista nello sviluppo concreto dell'esperienza realizzatasi in Urss e negli altri paesi che hanno seguito il suo modello, vada ricercata più indietro, in una contraddizione che è nelle idee prima che nei fatti e che risale già al periodo del dopo-Marx, agli anni della II internazionale.
In un saggio pubblicato su Critica Marxista nel 1988, cioè prima del crollo del muro di Berlino nell'89 e della dissoluzione dell'Urss nel '91, ho avuto occasione di sostenere che le cause delle contraddizioni esplose nel movimento comunista e del suo ormai prossimo esito fallimentare avevano fondamento in una scelta che risaliva a prima del '17 e che non riguardava solo una corrente del partito socialdemocratico russo. Ossia la scelta - teorica ancor prima che pratica - che fu compiuta negli anni della II Internazionale (certamente sotto l'impressione della tragica conclusione della Comune di Parigi e poi della repressione della rivoluzione russa nel 1905) e che portò ad intendere la marxiana "società comunista" non come la "società dei liberi e degli eguali", quasi un ideale punto di arrivo del processo storico nel quale lo Stato e il suo potere coercitivo via via si dissolvono e "la libertà di ognuno diventa la misura della libertà di tutti". Al contrario la società comunista veniva piuttosto concepita come l'estrimizzazione di quella che era stata teorizzata (sempre dopo la Comune) come una necessaria fase transitoria: ossia la dittatura del proletariato per imporre dall'alto, se necessario con metodi coercitivi, la trasformazione delle strutture sociali e dei rapporti di produzione e per instaurare in quel modo il regime socialista (e non "comunista") sintetizzato nella formula "a ciascuno secondo il suo lavoro". Certo, l'idea dell'estinzione dello Stato e di una società compiutamente liberata non era del tutto messa da parte: ma, con un esercizio di cat tiva dialettica, veniva presentata come il rovesciamento finale - e fu questa la radice teorica anche degli errori e dei crimini dello stalinismo - del massimo di uso coercitivo del potere statale per superare le disuguaglianze di classe.

Ceramente occorrerebbe analizzare più a fondo quanto abbiano inciso, in questo rovesciamento dell'originaria idea marxiana di società comunista, sia le condizioni di immaturità storica di uno sviluppo rivoluzionario sia la diffusa opinione, di forte impronta positivistica, secondo la quale la classe operaia, non disponendo a differenza della borghesia di posizioni di forza nell'economia e nei rapporti sociali, poteva riscattarsi e affermarsi solo attraverso la conquista del potere politico. Ciò che è certo - almeno così a me pare - è che questo sostanziale svuotamento della ricchezza e della complessità dell'idea marxiana di società comunista, privata proprio dei suoi connotati più qualificanti, portò a una torsione del movimento non solo e non tanto nella direzione "militare" - come ha scritto Pietro Ingrao su il manifesto del 1 marzo - ma più in generale nel senso di una sempre più marcata accentuazione statalista ed economicista: ponendo invece da parte - nonostante la presenza di condizioni favorevoli nella cultura dell'epoca, caratterizzata in tutti i campi da un'esplosione antiborghese quale quella dell'"avanguardia" - la complessiva questione non solo politica, ma culturale e ideale della costruzione di quell'egemonia che fu poi al centro della ricerca di Gramsci.
Si tratta di temi sui quali - ne sono convinto - occorre impegnarsi ad approfondire la riflessione: non solo per comprendere meglio le luci e le ombre della secolare parabola comunista, ma perché solo a partire da problemi come quelli qui appena accennati è possibile ricostruire una critica più compiuta dello sviluppo storico del capitalismo ed affrontare con una visione più egemonica le vecchie e nuove contraddizioni che esso oggi ci propone.

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Aldo Tortorella: L'esempio imperfetto (il manifesto, 13.03.1998)

Ho condiviso e condivido il parere di Rossana Rossanda (il manifesto del 25 febbraio) sul fatto che è doveroso - almeno per chi sia stato dirigente comunista - non eludere la questione riproposta dal Libro nero del comunismo. In realtà le domande - cui anch'io ho già cercato di dare qualche risposta in altra sede - sono due. Una di esse riguarda i motivi per i quali i comunisti sovietici per primi e poi tutti gli altri che presero il potere per via rivoluzionaria o per effetto della divisione dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale instaurarono sistemi fondati sulla negazione delle libertà politiche e sulla repressione. La seconda domanda, più propriamente italiana, riguarda il troppo lungo processo di distacco dalla solidarietà verso il sistema sovietico da parte del Pci che pure aveva coerentemente seguito, anche attraverso duri scontri interni, un'altra strada.
Com'è ovvio, non sono domande nuove e la prima di esse non ha, in Italia, il medesimo rilievo che ha avuto in Francia, per evidenti motivi. Il Partito comunista francese (che fu più filosovieticlocare la vicenda del movimento comunista e del potere comunista nel suo contesto storico e nelle sue diversità profondissime. Certo, è un'operazione grottesca e inaccettabile quella di mettere ogni cosa nello stesso sacco sotto l'etichetta "comunismo" - Gramsci e Pol Pot, le vittime e i carnefici - e buttare tutto a mare. Ed è assolutamente vero che la tragedia del secolo che sta per chiudersi non incomincia con Lenin, ma con il macello spaventoso della prima guerra mondiale, cui diede l'avallo il più grande ed esemplare partito socialdemocratico dell'epoca con il motto: prima tedeschi, poi socialisti. Dunque, è giusto che si affermi la esigenza di periodizzare, di storicizzare, di distinguere. E' stata richiamata in questa discussione la memoria storica - ancora presente all'inizio del secolo - del massacro dei comunardi a Parigi, l'assenza di qualsiasi esperienza democratica in Russia, il costume della brutale repressione come sistema contro i dissenzienti nel regime semifeudale zaristico, la guerra civile sostenuta dall'esterno contro il nuovo regime sovietico.
Tutto questo aiuta a capire, ma non toglie di mezzo il quesito: c'è o no nell'idea stessa del"comunismo" il germe della negazione della libertà, nel momento stesso in cui essa rivendica la liberazione e la libertà più piena? Ho già avuto modo di ricordare che a me sembra sbagliato dire che solo il pensiero comunista della liberazione ha finito per trasformarsi nel suo contrario. Ogni idea, per quanto vitale, si può trasformare e si è trasformata in strumento di morte quando ha preteso di rappresentare una verità assoluta. Il Papa, andando verso Cuba, ha detto, in polemica con le rivoluzioni comuniste, di essere il portatore della rivoluzione dell'amore. Ma il Papa stesso sa che le cose non sono state sempre così e infatti egli si è distinto dai suoi predecessori per avere nobilmente chiesto scusa, come si sa, per la persecuzione degli ebrei durata due millenni, per il genocidio degli Indi nel Centro America o per le stragi dei protestanti. E i puritani, perseguitati in patria e alla ricerca della loro libertà, si trasformarono negli sterminatori degli indiani dell'America settentrionale. La interpretazione paolina del cristianesimo come proclamazione della eguaglianza di tutti gli uomini in un unico Dio significò una svolta radicale, ma si accompagnò sin dall'inizio a lotte terribili tra le diverse sette e confessioni e non impedì che per millenni e fino a questo secolo ci si scannasse con suprema ferocia sotto il medesimo segno di croce.
Come tutti sanno, non solo il cristianesimo, ma ogni religione può trasformarsi in fanatismo assassino. Ciò riguarda - però - anche il pensiero laico occidentale: la pur giusta valutazione dei progressi conoscitivi e dell'incivilimento che esso ha portato quando oltrepassa un certo limite può diventare, è diventata e diventa tuttora forma di esaltazione di una supposta superiorità bianca e trasformarsi in colonialismo e razzismo assassino. Oppure, l'autoriconoscimento, pur corretto, dei valori di una cultura nazionale e la legittima difesa degli interessi di un popolo può trasformarsi nella negazione delle altrui culture e degli altrui interessi e trasformarsi in imperialismo predatorio e sterminatore su piccola o grande scala.

La spiegazione economica e sociale marxiana del dramma della storia sta dentro la vicenda del pensiero critico, e dunque non detta dogmi, ma può essere letta in modi diversi e opposti. Quando scoppiò la rivoluzione russa, una rivoluzione socialista in un paese a debolissima struttura capitalistica, Gramsci ne parlò come di una rivoluzione contro il Capitale, quello di Marx. Vale a dire chel'elemento di forzatura soggettiva non era certamente ignoto. Ma era proprio questo volontarismo - entusiasmante per una parte del movimento socialista - che sarebbe stato destinato a rivolgersi contro se stesso. Con esso si veniva affermando l'idea della costruzione socialista come imposizione di un modello economico sociale, la cui validità sembrava essere nella sua asserita scientificità. La polemica di Lenin contro la Luxembourg e contro Troztkj ha questa idea sullo sfondo: l'idea del partito come portatore della coscienza e della scienza e, dunque, al limite estremo, come portatore della verità.

La scoperta marxiana della storicità dell'economia come costruzione di un sistema di relazioni umane e non come pura e semplice naturalità, si trasformava così nella idea di una possibile trasformazione economica senz'altro vincolo diverso da quello della immaginata razionalità del progetto. Qui sta il germe della trasformazione di un pensiero critico in dogma, con le conseguenze inevitabili. L'avvertenza di Lenin, tenuta occulta, contro i tratti autoritari della persona di Stalin non poteva bastare, così come il monito di Gramsci nel '26 contro il metodo intollerante che si andava affermando nel partito russo coglieva l'origine del dramma, ma non poteva giungere ai rimedi. Tuttavia, il riconoscimento della origine della trasformazione della idea socialista e comunista come conquista della libertà (il "libero sviluppo di ciascuno nel libero sviluppo di tutti") nella opposta idea della imposizione di un modello alla società - attraverso l'uso della supposizione di scientificità - non deve impedire l'analisi dello stato di fatto in cui questo processo si svolgeva, l'analisi che può far capire perché al massimo della repressione staliniana si unisse il massimo del consenso nel mondo.
Fa velo a questo comprensione del processo reale la identità che si tende a stabilire e che temo stia passando nel senso comune (anche per responsabilità della sinistra detta "di governo") tra fascismo e comunismo (su cui anche il prefatore del "libro nero" si intrattiene, tuttavia criticato da alcuni dei suo autori). Questa assimilazione è raccapricciante non solo perché l'idea comunista non coincide con la sua trasformazione in dogma (questione che è aperta alla discussione) ma perché è uno stravolgimento totale della vicenda storica stabilire una assimilazione tra sistema sovietico e sistema nazista.
E' stato il nazismo, non l'Unione Sovietica, a scatenare la seconda guerra mondiale, e a macchiarsi del crimine supremo dell'Olocausto. Ed è stata la Unione Sovietica a partecipare in modo determinante alla sconfitta del nazismo. Non si può conteggiare le vittime senza ricordare che lo spaventoso massacro della guerra è da mettere intieramente, compresi i milioni di morti della Germania, oltre che quelli della Russia, dell'Europa e del mondo, sulle spalle del nazismo e del fascismo. E non si può dimenticare che il nazismo fu un regime in se medesimo coerente e perciò potette scomparire solo con la guerra guerreggiata. Il sistema sovietico crollò, com'è stato scritto, come un castello di carta non solo per la inefficienza economica dimostrata nella contesa della guerra fredda, ma perché esso era totalmente incoerente con le sue proprie premesse.
Il nazismo e il fascismo nacquero nella lotta contro ogni forma di democrazia sulla base della teoria del rapporto tra capo e masse, tra il gruppo degli eletti e l'umanità gregaria: essi erano una tirannia teorizzata. Il sistema sovietico aveva in sé, al contrario, la contraddizione tra l'originaria esaltazione della democrazia diretta (i soviet) e il dominio di partito, tra la idea di eguaglianza assoluta e la realtà del privilegio burocratico, tra la promessa di libertà e il permanere della repressione, tra la sfida agli Stati uniti e una realtà di sottosviluppo.

Ma proprio perché esistevano queste contraddizioni non si può rimuovere l'interrogativo sul Pci. La vera questione, a me pre, riguarda soprattutto il tempo dal '56 in poi, quando, pur nel cammino di un progressivo distacco, permase la idea di una riformabilità del modello sovietico. Io non credo che sia vero come ha scritto Rossanda, che Berlinguer fece meno di Togliatti. Berlinguer ruppe, non appena segretario, ogni rapporto economico con i comunisti sovietici, andò a Mosca a proclamare la democrazia come valore universale, concluse non solo dicendo che la rivoluzione d'ottobre aveva esaurito la sua "forza propulsiva", ma che non poteva essere chiamato socialismo quello che non garantiva né libertà né pane. Tuttavia, l'idea della riformabilità rimase, e sembrò confermata da Gorbaciov.
La giovane generazione dell'ultimo Pci, quella che ora partecipa al governo, ha iniziato a conoscere i comunisti italiani dalla protesta per i carri armati di Praga in poi e io capisco benissimo (anche se non condivisi né il modo né i contenuti politici) che abbia avvertito nell'89 il bisogno di una netta rottura di continuità. Tuttavia questa non si ottiene facendo funzionare una inesistente macchina del tempo e dichiarando quel che si sarebbe fatto se si fosse stati adulti al tempo di Togliatti. La vecchia generazione comunista italiana, che pure era stata con Stalin e ne aveva condiviso le responsabilità - sia, io credo, per convinzione sia per salvare il salvabile - ha assolto al suo dovere verso la democrazia italiana contribuendo a sconfiggere il fascismo, e a radicare un sistema democratico in un Paese che aveva conosciuto nella sua vita unitaria soltanto lo Statuto albertino e la tirannide fascista. Il problema non è quello di recitare il mea culpa, o - per meglio dire - il mea culpa per conto degli altri, ma di capire.
A me pare che all'origine della convinzione sulla riformabilità del sistema sovietico sia stata non solo una speranza dura e morire, ma una analisi sbagliata della natura di quel sistema e, più in generale, del ruolo del potere politico nella sua possibilità di intervento sulla società, questione attuale tutt'ora. Quel sistema, come aveva giustamente visto anche l'ala trotzkista del movimento comunista, avendo assunto la forma del capitalismo di stato non era destinato a trasformarsi in una società più eguale e più aperta. Soprattutto, però, pesò il convincimento dettato dalla convinzione (ma ciò fu comune anche alla parte più avanzata della socialdemocrazia europea) che il potere politico potesse più di quello che esso può nella opera interna ai meccanismi sociali dati, i quali hanno, invece, un loro proprio livello di autonomia. (Nel caso sovietico la spinta del ceto divenuto dominante e dei nuovi ceti emergenti a rompere la crosta divenuta intollerabile di un comando di partito fatto, oramai, in nome del nulla).
Queste osservazioni - però - rinviano ad un altro dato che riguarda una questione di formazione culturale che a me pare anch'essa del tutto attuale. Nella cultura egemone nel vecchio Pci - che non fu certo quella della sinistra del partito - la discussione teorica non ebbe buona stampa essendo senz'altro assimilata alla chiacchiera ideologica. L'Urss fu usata - al di là di un legame che era stato di ferro - come dato di realtà per evitare la disputa sul socialismo: nella Unione sovietica vi era la prova storica della "realtà" di una società nuova, seppure imperfetta e segnata da gravi tragedie. Una discussione vera sul socialismo non vi fu dopo quella generata dal trauma ungherese e dal XX Congresso sovietico.

Questa idea dell'Urss come prova storica apparteneva ad una versione della cultura della realtà che rappresenta, invece, il suo opposto: e, cioè, la confusione tra un dato di fatto e la sua accettabilità. C'era, in questo, l'eco di un cattivo storicismo, che pure aveva avuto gran peso per evitare le peggiori forme di ideologismo e di dogmatismo, ma ne creava di nuove e recava con sé un relativismo etico al di fuori di ogni misura. Prevale oggi una versione del tutto falsa degli errori del vecchio partito, come se fosse stata inventata oggi la esigenza del "realismo" della cultura di governo e del dovere dell'amministrare. Ma questa fu la ossessione del vecchio partito, perciò sbeffeggiato dalla critica - che per alcuni versi sarebbe stato necessario interpretare assai meglio - di quel '68 di cui ora si parla. Il vecchio Pci e il Psi non morirono di alternativismo, ma - piuttosto - per la sua assenza e cioè per forme - sia pure diverse tra loro - di mancata interpretazione critica della realtà.
Questo rischio sta sempre sospeso in ogni momento della azione di chi, in qualsiasi forma, dichiari di volere una qualche opera di cambio del Pci) non è stato oggetto di metamorfosi e partecipa ora al governo della sinistra. Il "libro nero" ha costituito l'occasione di un attacco politico al governo. Contro quell'attacco Jospin dovette intervenire difendendo i comunisti francesi, ricordando le vergogne della destra storica, suscitando un duro scontro parlamentare. A sua volta il Pcf ha dovuto marcare con più energia il proprio distacco, fin qui non particolarmente sensibile, dal passato. Da noi, invece, il nome del Pci è scomparso anche dal simbolo della Quercia e il Partito della Rifondazione comunista propone se stesso in radicale discontinuità con il vecchio partito.

E' per tutto ciò che la pensata di Berlusconi al congresso di Fini (la riproposizione dell'anticomunismo come asse dell'alleanza e la distribuzione del libro nero) è sembrata una goffaggine e ha avuto l'accoglienza che si conosce anche da destra. A sinistra, chi si interessi ancora in sede politica delle antiche vicende comuniste appare piuttosto intento, come si dice con sprezzo, alla inconcludente elaborazione di un lutto, piuttosto che impegnato sul presente e sull'avvenire. Come ha detto Fini, così si dice in gran parte della sinistra: il comunismo non c'è più, mettiamoci una pietra sopra, non perdiamo altro tempo.
Il difetto di questa constatazione, che appare di buon senso, è che essa comporta per le forze di sinistra una rimozione totale del passato, su cui pure in larga misura si continua a trarre vantaggio almeno elettoralmente. E questa rimozione non è pericolosa perché essa appare sentimentalmente sgradevole, o perché seppellisce quel che eventualmente potette esserci di positivo e di utile insieme con ciò che vi fu di sbagliato e dannoso. Quella rimozione è pericolosa perché non consente di capire in che cosa consistettero gli errori di fondo, se essi siano realmente superati o non possano ripresentarsi in forma più o meno mutata.
Per questi motivi anche a me - come a Pietro Ingrao (il manifesto del 1 marzo) - non pare conclusivo lo sforzo, pur necessario, di colamento. Se sfugge il dato di fatto si rischia la farneticazione. Ma se si confonde il dato di fatto per la sua accettabilità si precipita in un vuoto di significato. Ma ciò non appartiene più alla discussione sulla storia, ma a quella sulla cronaca politica quotidiana.

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Marcello Flores: La storiografia dei vincitori (il manifesto, 19.03.1998)

Partecipare a un dibattito già iniziato può costituire un vantaggio; ma vi è anche il rischio di voler interloquire con chi è già intervenuto e perdere di vista l'argomento che è oggetto della discussione. Nel mio caso si aggiunge l'aver già scritto una recensione al Libro nero del comunismo (sull'ultimo numero dell'Indice) e avere appena pubblicato un libro sull'oggetto del contendere, e cioè la natura del comunismo (In terra non c'è il paradiso. Il racconto del comunismo, Baldini&Castoldi).

Non vorrei diffondermi sui precedenti interventi ma alcune precisazioni mi paiono necessarie. Domenico Losurdo (il manifesto del 3 marzo) utilizza, rovesciandone i giudizi, lo stesso paradigma storico-genetico di Ernst Nolte, rintracciando nel capitalismo e nel colonialismo il precedente e quindi la causa e la spiegazione delle violenze successive, anche comuniste. Luciano Canfora (il manifesto 28 febbraio e 3 marzo) spiega l'ottobre, giustamente, con la guerra del 1914; ma evita di interrogarsi sui suoi esiti e sui suoi tratti "criminali" rispondendo con determinismo acritico che "tutto ciò che è venuto dopo non è che un ineluttabile teorema" (e anch'egli riprende il metodo di Nolte quando ammonisce a non dimenticare "da dove è cominciata la violenza, che genera altra violenza"). Quella di Pietro Ingrao (il manifesto del 1 marzo) è una memoria certamente sofferta, ma a me piacerebbe capire come mai considerazioni tanto giuste quanto ovvie ("su quella strada insanguinata il comunismo è fatalmente sconfitto") non abbiano trovato spazio nei lunghi anni della sua dirigenza del movimento comunista.
L'interrogativo posto da Rossana Rossanda - il manifesto del 25 febbario - (perché tanta repressione? più alta e durevole che in qualsiasi democrazia?) è tutt'altro che nuovo, avendo accompagnato la discussione sul comunismo almeno dalla rivolta di Kronstadt alla dissoluzione dell'Urss. Perché mai, mi chiedo, quella domanda non è stata posta con altrettanto nettezza non già nel '56 o nel '68, ma neppure nell'89, quando il manifesto ha voluto orgogliosamente rivendicare e sottolineare di essere un quotidiano comunista invece di aprire, come chiedeva la maggioranza dei suoi collaboratori esterni e parte dei suoi stessi giiornalisti, un vero dibattito su cosa era stato e aveva rappresentato storicamente il comunismo? La spiegazione del fascino che il Libro nero esercita su tanti comunisti (ancora tali o ex) è indirettamente spiegata da Rossanda quando sostiene che bisogna leggerlo perché "i comunisti non hanno fatto alcun bilancio dei socialismo reali... né prima né dopo l'89". Dopo è probabile, essendo di fatto scomparsi; quanto al prima basterebbe scorrere la lunga biblioteca dei comunisti critici o eretici per trovare già espressi tutti i giudizi possibili; del resto non si capisce perché mai i comunisti non potevano riconoscere prima la verità e validità di tante analisi offerte da ex-comunisti, non comunisti, anticomunisti dagli anni '30 agli anni '80 e abbiano dovuto attendere Courtois e il suo piazzista Berlusconi per poterlo fare.

La passione per i numeri, evidentemente, è uno dei motivi di questo entusiasmo. La discussione sulla quantità di morti, che è faccenda importante ma tra le più noiose e complicate in sede storiografica (chi volesse informarsi bene consulti The Gulag at War: Stalin's Forced Labour System in the Light of the Archives di Edwin Bacon, New York University Press), ha focalizzato l'attenzione suscitando controrepliche o proposte al ribasso davvero poco interessanti. Per tornare a Rossanda, mi pare che la risposta alla domanda da lei stessa formulata non riesca ad affrontare un'analisi spregiudicata del leninismo. Se è vero che "lo scollamento fra il blocco delle forze sociali che hanno partecipato alla rivoluzione" e quelle coinvolte nell'edificazione socialista è un passaggio cruciale, non si può ignorare che tutto ciò avviene grazie e in virtù del sistema di potere che si costruisce dopo l'ottobre. La repressione non è "agevolata dal monopolio dei poteri nel partito", ne è la figlia legittima e necessaria.
La questione della rivoluzione, della sua legittimità oltre che del suo successo e dei risultati che essa stessa precostituisce con le forme di potere che adotta (che solo in parte sono una risposta agli eventi, per il resto sono figlie di un'ideologia che aveva trapiantato il marxismo occidentale nel volontarismo populista facendo del partito lo strumento principe non solo della rivoluzione ma della costruzione socialista) - questione su cui mi pare di registrare in Rossanda una reticenza eccessiva - è anche il centro della furba e provocatoria introduzione di Courtois. L'assunzione del carattere "criminale" come centrale e naturale dell'esperienza comunista, trova la sua spiegazione nel modo in cui è affrontato il tema di Lenin e dell'ottobre. Non già in chiave di giudizio storico (su cui, per un approccio profondamente critico ma attento ai fatti già si erano espressi negli anni '20 Russell, Emma Goldmann, Keynes) ma di rifiuto dell'evento rivoluzionario in quanto tale. Il carattere "criminale" del regime comunista delegittimerebbe la sua origine, cercando di esorcizzare in questo modo, e dichiarare sconfitta e impossibile (per il passato e per il futuro) l'idea stessa di rivoluzione, di soffocarla sotto il discredito morale prima ancora che politico. La novità non è nelle parole o nei concetti che usa Courtois, ma nel tono da "storiografia dei vincitori" che adotta.
L'aspetto inaccettabile della operazione storiografica di Courtois è la riduzione di un fenomeno lungo, complesso, articolato e diversificato a un unico denominatore, quello terroristico-criminale. Così facendo anche quest'ultimo non riesce a essere compreso, e diventa non più oggetto di ricerca storica ma strumento di battaglia ideologica. Per anni la storiografia di sinistra è stata accusata, in parte a ragione, di dare del fascismo un'immagine vera ma parziale perchè viziata dal paradigma antifascista e dall'opzione morale che lo sosteneva: e che evitava di affrontare temi "scomodi" (il consenso, i risultati sociali ed economici, l'isolamento dell'opposizione, la partecipazione della cultura al regime) riducendo tutta la sua storia alla "sostanza" che si identificava nell'organizzazione repressiva e autoritaria del potere. Perché mai, preoprio quando gli studi sul fascismo e il nazismo hanno fatto passi da gigante, per quelli sul comunismo si dovrebbe tornare a schematismi da guerra fredda invece di approfondire le diverse e spesso antagoniste ipotesi di ricerca che emergono da storici di differenti paesi e orientamento? E perché proprio ora che l'apertura degli archivi e il contributo decisivo degli storici russi rende possibile un salto di qualità storiografico accettare come pietra miliare un'opera che, al di là del valore assai diseguale dei singoli contributi, si presenta nell'insieme con il carattere di un riduzionismo storiografico?

Individuando nell'ideologia - meglio ancora nell'adesione all'ideologia - il marchio della corresponsabilità oggettiva ai crimini del comunismo (sui quali le indicazioni di Werth e Paczkowski e in parte di Margolin mi sembrano sostanzialmente corrette), tutto assume lo stesso valore: il comunismo al potere e all'opposizione, quello che è carnefice e quello che è vittima. Se si riduce tutto a un solo aspetto, del resto, non si può pensare di riuscire a comprendere la natura e la forza del mito - il suo carattere di religione come ha osservato Davide Bidussa (il manifesto del 10 marzo) -, la sua capacità di attrazione durata ben oltre la fase eroica della rivoluzione, gli entusiasmi suscitati non solo tra gli adepti e simpatizzanti ma anche fra gli avversari in modo più duraturo e ampio del fascino esercitato per un certo tempo dai fascismi sull'opinione pubblica liberale (tema su cui continua a esistere un ritardo degli studi).
Se la natura del comunismo è unica e la sua natura è quella terroristico-criminale non si comprende perché nessuno, né Courtois né Werth, si sia occupato del dopo Stalin. Chruscev e Breznev non furono criminali e totalitari? E lo furono nella stessa misura di Stalin e Lenin? Sono domande tutt'altro che banali, cui cerca di dare indirettamente risposta l'analisi di Paczkowski sulla nascita della democrazia popolare in Polonia e sull'impoverimento e diminuzione, tra il '54 e il '56, proprio dei caratteri totalitari che erano stati importati e imposti nel paese tra il '46 e il '52. Ma l'obiettivo, come si è visto, non è la comprensione nel suo insieme del fenomeno comunista ma la messa sotto accusa di Lenin e della legittimità politica e morale della scelta rivoluzionaria da lui compiuta (e imposta, tra l'altro, a un partito riluttante).
Guardare all'Ottobre come a un evento intrinsecamente criminale porta ovviamente come conseguenza quella di considerare pericolose e deleterie tutte le utopie, per lo meno quelle moderne, che inducono a "sperare" in un superamento del capitalismo: è un tema, questo, che meriterebbe ben altro dibattito, come quello del tasso di violenza insito, oltre che nell'idea comunista (dove indubitabilmente c'è) in qualsiasi ideologia a carattere totalizzante. La nozione stessa di dimensione criminale, tra l'altro, è generica e informe, inadatta a comprendere quello che del comunismo è invece l'aspetto più rilevante: la coesistenza in esso di aspetti, esperienze e valori opposti e antagonisti.

La scelta di un linguaggio giuridico-poliziesco, oltre a favorire la polemica e lo strillo giornalistico, portando con sé un effetto vendita che non si può sottovalutare, è l'espressione più esplicita di un uso pubblico della storia che Berlusconi ha ingenuamente denudato nella sua reale intenzione e di cui ha mostrato anche, purtroppo, la capacità di presa. Il messaggio dell'anticomunismo più becero - Courtois ha parlato alla radio, letteralmente, di comunisti cinesi che mangiavano i bambini, anche se per fame - ha trovato legittimazione attraverso l'annullamento delle differenze non solo all'interno dei comunismi ma tra questi e i fascismi. Posizione speculare a quella di chi si ostina a non voler porre in comparazione le esperienze storiche dei diversi totalitarismi e si rifiuta addirittura di considerare possibile l'uso del termine a fini di analisi e ricerca. Il messaggio del Libro nero non è certo nei saggi di Werth o Paczkowski, che quasi nessuno leggerà, ma nell'introduzione di Courtois e nella fascetta di copertina.
Quello che non si capisce è perchè mai la sinistra debba approfittare proprio di questa occasione per affrontare un dibattito che ha rifiutato in passato, in occasioni più adatte, di svolgere apertamente e in profondità. La risposta, oltre che nel senso di colpa che essa ha sempre provato nei confronti degli avversari più sguaiati, risiede probabilmente nel contesto storico in cui cade la provocazione di Courtois: che è quella della sconfitta del comunismo e che permette a lui come ad altri di decontestualizzare quell'esperienza e parlare quindi dell'aspetto che lo caratterizzerebbe e contraddistingurebbe più di altri, anzi unicamente.

E' solo nel contesto del comunismo finito, infatti, che la sinistra sembra trovare, nel suo insieme, la forza per dire qualcosa di un passato che spesso ha difeso e la cui comprensione ha contribuito ad annebbiare. Se è così, il valore politico di questa riflessione post-mortem può forse avere un senso, se non altro come legittimazione definitiva o risposta tardiva a chi ha parlato di "assordante silenzio" senza aver mai consultato una bibliografia.
Dal punto di vista della verità e della comprensione questa riflessione è però praticamente nulla: meglio allora, sembrerebbe, lasciare la parola agli storici che con i tempi e le forme che sono proprie della ricerca potranno contribuire a illustrare, come accade anche nel Libro nero, momenti di verità che ognuno potrà ricollocare come crede nella ricostruzione complessiva della storia di questo secolo. Purtroppo anche gli storici, o alcuni di loro, sono tra i protagonisti di un uso politico della storia che non giova né alla storia né alla politica.

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IL LIBRO NERO DEL COMUNISMO. CRIMINI, TERRORE, REPRESSIONI (dal sito di Forza Italia)


(S. Courtois, N. Werth, J.L. Panné, A. Paczkowski, K. Bartosek, J.L. Margolin, "Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressioni", Mondadori, Milano 1998)

La seconda parte del titolo di questo libro riassume con esemplare chiarezza il modo con cui il comunismo ha ottenuto e conservato il potere: una storia che ha flagellato il nostro secolo causando almeno 85 milioni di morti (altre macabre contabilità raddoppiano questa cifra). L'opera tradotta da Mondadori è un utile antidoto contro ogni "dimenticanza", smemoratezza o rimozione e mette a nudo - oltre al fallimento economico-sociale - in modo inequivocabile la dimensione profondamente antiumana del comunismo.

La lettura delle pagine del libro lascia inorriditi e sgomenti di fronte al male che i comunisti sono riusciti a fare contro altri esseri umani. Cose del passato? Senza dubbio (speriamo)... ma se nel nostro Paese le deportazioni e le stragi di massa sembrano cose lontane, il metodo di lotta politica tipico dei comunisti no: la demonizzazione dell'avversario, l'uso scientifico della disinformazione e della menzogna, il giustizialismo e l'uso di certe procure e di certi processi per eliminare gli avversari politici sono azioni che appartengono al nostro presente e alla cronaca di questi anni.

Per questo motivo vale la pena di leggere questo libro, il primo che offre una panoramica completa dei crimini commessi dai regimi comunisti in tutto il mondo, con un occhio al passato ed uno al presente: per evitare che la storia abbia a ripetersi.

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