NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Sul PCI
in costruzione


Walter Veltroni: Incompatibili comunismo e libertà (La Stampa, 16.10.1999)

Su "La Stampa" di ieri, Gianni Riotta scrive: "E’ arrivato il momento di riconoscere che la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali". Riotta ci chiede di riconoscerci in questa affermazione. Lo faccio volentieri e sinceramente. Ma l’ho già fatto, nella mozione che ho presentato per il prossimo, primo congresso dei Democratici di sinistra. Il secolo che muore, il Novecento, viene in quel documento definito come "il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. E il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo". Lo stalinismo come il nazismo, i gulag e Auschwitz, il comunismo come tragedia del Novecento. Cosa si può dire di più netto e chiaro?
Né si tratta solo di giudizi retrospettivi. Parlando alla festa nazionale dell’Unità, a Modena, davanti al popolo diessino con le sue bandiere e i suoi striscioni, dicevo che "il secolo che si sta concludendo ci ha insegnato, in modo tragicamente chiaro, che giustizia e libertà sono due valori inscindibili: non può esserci vera libertà dove non c'è giustizia; e non può esserci vera giustizia senza libertà, senza democrazia, senza rispetto rigoroso e integrale dei diritti umani. Lo abbiamo detto più volte in questi mesi, a voce sempre più alta, senza guardare alla lingua, alla religione, o al colore delle bandiere dei nostri interlocutori". E citavo la Birmania e Cuba, la Turchia e la Serbia, Timor Est e la Cina, definendo lo sconosciuto ragazzo di Piazza Tien-An-Men, che ebbe il coraggio di pararsi da solo e inerme davanti ad una colonna di carriarmati, come "il simbolo del migliore Novecento".
Ma Riotta va oltre e ci chiede di "sciogliere il legame con la politica di tutto il Pci". Noi abbiamo fatto di più. Abbiamo sciolto il Pci. Lo abbiamo fatto dieci anni fa, con la svolta di Occhetto. Con uno strappo violento. Non solo con una drammatica scissione politica, ma attraversando un percorso di dolore umano autentico, mettendo in discussione biografie individuali e collettive e allo stesso tempo provando un senso di liberazione. Dicemmo, noi che avevamo poco più di trent’anni, che una storia, grande e tragica, era finita, per sempre. Tra noi c’erano, e ci sono, idee diverse sulla velocità e il senso di marcia di quel cambiamento. Tuttavia quella storia finì.
Il Pci che ho conosciuto era una strana creatura. Principale partito della sinistra, ha raggiunto il trentacinque per cento, senza mai governare. Era un luogo nel quale potevano convivere i comunisti con gli iscritti e gli elettori del Pci. Non erano tutti la stessa cosa. Quanti erano, nel trentacinque per cento di elettori del ’76, quanti anche tra i dirigenti, coloro che credevano alla ideologia comunista, al socialismo realizzato, al partito unico, alla dittatura del proletariato, alle nazionalizzazioni, al patto di Varsavia? Quanti? Non era il Pci di Berlinguer, anche, il luogo nel quale si ritrovava una riserva di energie ideali e morali di una società civile democratica che non amava chi era, da tanti anni, al potere in Italia?
Ci si guardi intorno, ci si guardi all’interno. Quanti di coloro che scrivono sui giornali, che insegnano all’università, che producono, hanno votato il Pci in quegli anni? Errori giovanili? Un abbaglio collettivo?
Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così. Tuttavia era una contraddizione. Perché quel Pci solo allora, dopo la Cecoslovacchia, cominciò a fare i conti con fatica con la realtà del socialismo realizzato. E più da esso si allontanava, più la contraddizione si faceva esplosiva. Noi trentenni "finimmo" la storia del Pci, perché la contraddizione era diventata insostenibile. In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l’Urss come avversario e la democrazia occidentale nel Dna, nel vissuto, nella formazione culturale. Io ero ragazzo, negli anni Settanta, ma pensavo che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell’invasione sovietica. Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura un nemico da abbattere. Ci sembrava che Berlinguer facesse, in quel tempo, cose coraggiose. Tutti i giornali italiani "aprirono" a nove colonne quando Berlinguer disse al congresso del Pcus che "La democrazia è un valore universale". Sembrò a tutti che la dichiarazione della preferenza per la Nato del ’76 fosse uno straordinario atto di coraggio politico. In quei tempi lo era. Come le carte del Kgb contro Berlinguer dimostrano.
Ma il Pci e la sua storia erano stati altro. Erano stati le lacrime per Stalin e l’appoggio alla repressione della rivolta di Ungheria. Era stato il linciaggio politico di Giuseppe Di Vittorio in una Direzione, quella del ’56, la cui lettura degli atti provoca brividi lungo la schiena.
Comunismo e libertà sono stati incompatibili, questa è stata la grande tragedia europea del dopo-Auschwitz.
E se oggi dovessi guardare alle idee che hanno attraversato la storia della sinistra italiana di questo secolo dovrei, in cerca di culture ancora feconde, comporre un mosaico complesso: Gobetti, Rosselli, Gramsci, Spinelli, Colorni, Ernesto Rossi, Lombardi, Parri, Dossetti, don Milani. Esperienze diverse, spesso conflittuali tra loro, certo. Ma sono i filoni di pensiero che hanno mostrato di essere tanto vivi da attraversare il ventre del Novecento e giungere fin qui. Una settimana fa, su queste colonne, Barbara Spinelli ci chiedeva di prendere atto che la sinistra italiana non è nata nell’Ottantanove. Ha ragione. Culturalmente è vero.
Ma politicamente la sinistra italiana di oggi nasce dalla fine del Pci, della sua contraddizione interna. Dal dissolversi di quello che Riotta chiama "lo spettro dell’Urss", che "ha impedito, per un secolo, alla sinistra italiana di crescere libera e maggioritaria". Dal liberarsi di energie che hanno consentito ciò che non era mai successo: che le culture riformiste si incontrassero, contaminassero, unissero.
Concludendo la sua celebre storia del Novecento, "Il secolo breve", Eric Hobsbawm osserva, non senza angoscia, che noi uomini e donne di questa fine secolo "non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e sappiamo anche perché. Una cosa però ci è chiara. Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società cambiata, è il buio".
So bene che l’ombra del comunismo continuerà a pesare a lungo, come un’ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana. Ma so anche che si tratta di un’ombra che nessuna nuova parola, detta o scritta, può dissolvere completamente. Solo il tempo potrà farlo. Un tempo nel quale la politica, anche la politica dei Ds, deve sforzarsi di fare i conti con la propria innovazione culturale e con le grandi sfide del domani: se non vogliamo che l’ombra del passato si tocchi, fino a confondersi, col buio del futuro.

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Sull'articolo di Veltroni

Aldo Tortorella: "Sono sconcertato. Da Veltroni giudizi inaccettabili" (interv. a cura di Gabriele Polo, il manifesto, 17.10.1999)

Forse Ernst Nolte, il padre del revisionismo storico, non avrebbe saputo fare di meglio: Auschwitz come i gulag, nazismo uguale a stalinismo, il comunismo la grande tragedia del '900. Walter Veltroni s'infila nell'imbuto del dossier Mitrokhin, decreta l'incompatibilità tra comunismo e libertà, cancella ogni differenza storica e offre un nuovo dardo all'arco delle destre. Non solo. Con le sue posizioni non fa che rafforzare il cappio con cui Cossiga tiene legata la maggioranza; mettendo anche in difficoltà una parte delle forze che sostengono il governo e suscitando nuovo malessere nel suo stesso partito. Perché non solo di storia si tratta, ma anche di attualità politica.
Abbiamo chiesto un parere ad Aldo Tortorella, esponente della sinistra della Quercia che proprio in questi giorni ha presentato un proprio documento - alternativo a quello della maggioranza diretta da Veltroni - per il prossimo congresso nazionale di Torino.

Non è che, dopo averlo cancellato dal nome del partito, finirete per fare un congresso proprio sul comunismo?
Noi dobbiamo fare un congresso sull'attuale conduzione del governo e del partito per cercare di cambiarne la linea, altrimenti questa sinistra è destinata a correre verso il baratro. In questa linea da cambiare c'è anche il giudizio sul '900, per correggere l'ignoranza che dilaga sulla storia di questo secolo.

L'articolo di Veltroni condizionerà il congresso?
Certamente dopo le posizioni espresse da Veltroni sia nell'articolo sulla Stampa che nel documento congressuale si apre una nuova distinzione dentro il partito: per noi quei giudizi sulla storia della sinistra italiana sono inaccettabili sotto ogni punto di vista. E non solo storicamente, perché il problema principale è quale sinistra si voglia costruire. Una cosa è la sacrosanta condanna dello stalinismo, altra è la rinuncia a ogni tentativo di cambiare la società, perché in quest'ultimo caso si prefigura una sinistra passivamente subalterna al pensiero dominante.

Una delle affermazioni più stupefacenti dell'articolo di Veltroni è l'equazione tra gulag e lager...
E' uno dei sintomi che indicano un completo assoggettamento alla vulgata oggi egemone. E' del tutto evidente che i gulag siano da condannare, ma queste semplificazioni annullano la verità storica, perché questa ha bisogno di distinzioni, di ricerca. Facendo di tutta l'erba un fascio, asserendo l'equazione tra comunismo e nazismo, si dimentica - tra l'altro - che gli ideali comunisti non sono la stessa cosa dello stalinismo e che nel loro nome si sono combattute grandi battaglie proprio contro lo stalinismo. Il nostro passato va analizzato a fondo, senza pietà nemmeno per gli errori contenuti nelle nostre culture costitutive, andando fino alle radici. Ma in questi ultimi dieci anni gli eredi del Partito comunista italiano non hanno fatto alcun sforzo in questo senso; hanno semplicemente scelto la strada delle abiure, una strada di cui non si conosce il fondo.

Veltroni distingue, nella recente storia del Pci, un corpo del partito legato al passato e all'Urss da un elettorato che non nutriva alcuna passione per il partito unico o il patto di Varsavia. C'era davvero questa distinzione?
Quello è un passaggio chiave dell'articolo del segretario Ds. Io non credo che ci fosse quella distinzione così netta, semmai l'avversione al partito unico o al Patto di Varsavia è stata il frutto proprio dell'azione del Pci. Bisognerebbe poi ricordare che la parte del partito più legata all'Urss era proprio quella più moderata, quella che concepiva la politica principalmente come conquista del potere, come compromesso tra gruppi dirigenti. Ed è questa cultura che non è stata sottoposta a ripensamento e ora torna ad emergere appunto con una linea politica moderata.

Il dossier Mitrokhin non imponeva di per sé questo tipo di "risposta": perché D'Alema e Veltroni si sono infilati in questo tunnel?
All'origine c'è un duplice e speculare errore. Quello di Rifondazione che rompe la maggioranza del governo Prodi e quello dei Ds che non hanno fatto nulla per evitare quella rottura, che non hanno voluto discutere i problemi che il Prc poneva. Così Cossiga da una parte e Cossutta dall'altra, sono diventati le componenti fondamentali della nuova maggioranza. E oggi siamo continuamente sotto il tiro dei ricatti di Cossiga. Anche qui c'è un errore - mai elaborato e superato - che deriva dalla cultura e dalla storia del vecchio Pci: la politica è, al fondo, politica di governo, al di fuori di esso non c'è nulla, e il governo va raggiunto, o conservato con qualsiasi mezzo. Un errore che accomuna i sostenitori della presa del potere a qualsiasi costo a quelle posizioni socialdemocratiche che fanno del governo un valore in sé. Ma se il governo diventa un valore in sé la sinistra si condanna allo snaturamento.

In vista del congresso le posizioni di Veltroni potranno determinare nuove fratture nella Quercia, magari anche organizzative?
L'unità può essere frutto solo di una discussione seria. E' importante che, per la prima volta, la sinistra dei Ds abbia presentato un proprio documento. Mi auguro che questa abbia un grande successo proprio per cambiare la linea del partito, cosa utile per tutta la sinistra ma anche e soprattutto per un paese che rischia di essere consegnato a una destra pericolosa e reazionaria.

Enzo Collotti: "Così Veltroni condanna chi vuol cambiare il mondo" (interv. a cura di Gabriele Polo, il manifesto, 19.10.1999)

"Veltroni è alle soglie del libro nero del comunismo. Quel suo semplicistico buttare a mare un'intera storia suona come una condanna per chiunque voglia battersi per cambiare la società". Sono amare le parole che Enzo Collotti usa per giudicare la rivisitazione che il segretario dei Ds fa del passato.

Professore, non le sembra che ancora una volta la storia venga piegata a esigenze politiche di brevissimo respiro?
E' vero, anche in questo caso si nota un'estrema grossolanità nell'affrontare temi di grande rilevanza. L'implicita richiesta di una nuova svolta a tutto tondo serve a giustificare iniziative di corto respiro che hanno come unico scopo l'inseguimento della legittimazione politica. E questo è un metodo proprio dello stalinismo, cioè di ciò che si intende condannare, perché si vuole costringere tanta gente a cambiare idea sulla propria storia, imponendo loro una revisione dall'alto delle identità collettive e personali.

L'equazione gulag-lager non fa rabbrividere la sua formazione storica?
La comparazione tra lager e gulag, tesa a unificare i due sistemi politici che li hanno prodotti, non è una novità. E' uno dei cavalli di battaglia di un certo revisionismo storico che punta a rendere più accettabili i crimini del nazismo attraverso la sottolineatura di quelli dello stalinismo. Tutta l'opera più recente di Nolte si muove in questa direzione e qui arriviamo alle soglie di quella grande operazione di propaganda che è stato il "Libro nero del comunismo". Nell'affrontare questi temi bisognerebbe avere qualche attenzione in più e sapere distinguere le differenze dei fenomeni storici. Questo non significa che non si possano fare delle comparazioni tra due fenomeni diversi, ma comparare non significa equiparare, altrimenti la storia comparativa non avrebbe ragione d'esistere, poiché essa si basa sulla ricerca delle differenze. Ma temo che i nostri politici non leggano molto, né sappiano molto del dibattito storico, perché lo affrontano solo attraverso i suoi terminali giornalistici. Veltroni, con le sue affermazioni, fa un passo indietro persino rispetto al confronto che c'è stato tra storici e politici sul "Libro nero del comunismo". Ma, forse, quelle cose non le ha nemmeno lette.

Il segretario dei Ds sembra sposare la tesi revisionista secondo cui il nazismo fu una reazione al bolscevismo, una lettura che sostiene l'equazione tra i due sistemi. Perché quella tesi è infondata?
Perché erano diversi i punti di partenza, le aspirazioni, le concezioni del mondo e le finalità. Da una parte - bene o male - c'erano princìpi di giustizia sociale e di eguaglianza; dall'altra si voleva un mondo tutto uguale ma solo per i "migliori", cioè un mondo razzista, che escludeva e uccideva i "peggiori". E' vero che, nei fatti, ci sono stati dei fenomeni che hanno avvicinato questi due sistemi, ma questo è un altro discorso. Altrimenti non si capirebbe perché milioni di persone furono attratte dal comunismo anche fuori dai confini dell'Urss. Vorrei aggiungere che il giudizio sulla Rivoluzione d'ottobre non può essere così sbrigativo, che quell'evento non può essere descritto come un fatto criminale e non solo per una ragione di verità storica. Al fondo, questi giudizi servono solo a sostenere una cultura politica che condanna ogni tipo di rivoluzione, cioè ogni aspirazione a cambiare il mondo. Ancora una volta si tratta di polemiche portate sul piano storico per giutificare una cultura politica di stampo conservatore.

Comunismo e libertà sono incompatibili: cosa le suggerisce quest'affermazione alla luce della storia del '900?
Che per milioni di persone il comunismo fu, in realtà, lo strumento per avere più libertà attraverso l'emancipazione sociale e non solo come esercizio dei diritti. La storia del comunismo in Italia non può essere dissociata da quella del movimento operaio internazionale. Nonostante Stalin, nel movimento operaio internazionale ci sono state espressioni plurali, molte specificità nazionali che hanno raccolto grandi consensi. Qui attraverso la condanna dello stalinismo si vuole condannare la storia del Pci e con essa quella di tutta la sinistra in generale. E la strumentalità politica appare evidente. Per quanto riguarda il Pci vorrei solo ricordare come esso, dal fascismo all'89, abbia avuto un ruolo fondamentale per la democratizzazione del paese, per la stessa applicazione dei principi contenuti nella Costituzione repubblicana. Perché si vogliono condannare milioni di persone che hanno lottato contro poteri, governi e alleanze internazionali che volevano affermare un ruolo monopolista - persino autoritario - nella vita politica e sociale? E' possibile che in questo scontro, durante la guerra fredda, quelle lotte siano state gradite all'Urss, ma esse si impegnavano su un terreno di democrazia e libertà. Altrimenti non c'è più oggetto di discussione e dovremmo tutti dirci pentiti di esserci opposti alla Dc.

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Valentino Parlato: Il respiro lungo della memoria. Recensione di A. Reichlin, "Ieri e domani" (il manifesto, 27.04.2002)

Leggere gli scritti di un vecchio amico è stato come riprendere una conversazione interrotta tanti anni fa, per contrasti, certo, ma anche per logorìo di vita, stanchezza, pigrizia.
Leggere questo libro di Alfredo Reichlin, Ieri e domani (Passigli Editori, pp. 140, euro 14,90) - l'oggi, purtroppo quasi ci ammutolisce - è stato appassionante, tanto più che si tratta di un libro appassionato e, a suo modo, anche drammatico. «Mi chiederei cioè - scrive a un certo punto Reichlin - se, nell'insieme, la nostra non è dopotutto una storia di vinti». L'interrogativo c'è, è pesante ed è drammaticamente rafforzato dall'ancora più pesante (e che io condivido) affermazione, quasi un grido: «La verità è che la sinistra non ha più un Pensiero. Non dico un ideale (questo - per fortuna - l'abbiamo ancora) e non dico un programma (questi addirittura si sprecano). Dico un Pensiero, cioè una visione della realtà, qualcosa di paragonabile a quel pensiero con cui la sinistra lesse il Novecento e la società industriale, il conflitto di classe e lo Stato, lo sfruttamento (Reichlin usa ancora questa parola, che molti a sinistra hanno buttato nella spazzatura, ndr) e la politica». E' da qui, dice Alfredo e sono ancora d'accordo, che bisogna partire. La prima causa di questa dissoluzione del pensiero di sinistra è - e mi richiamo sempre al testo - la cancellazione della memoria storica, «una sorta di abiura dei filoni principali di quella che è stata la storia reale della sinistra italiana». Certo il fallimento del «socialismo reale» (ma il gruppastro de il manifesto non lo aveva già dichiarato e sostenuto nel 1969, quando fu respinto e condannato in nome di una supposta realpolitik, che era solo un capolavoro di cecità?) si è abbattuto pesantemente sulla sinistra e sul Pci. Ma le risposte date dal gruppo dirigente (del quale anche Reichlin faceva parte) a cominciare dalla Bolognina, e poi con il Pds e i Ds sono state semplicemente catastrofiche.
Non dico che non ci fossero ragioni per cambiare, ma quei cambiamenti si sono identificati con una distruzione della memoria. Con una rimozione che, anche secondo la psicoanalisi, crea solo disorientamento: e questo disastro risulta anche dalla lettura. Il primo capitolo di questo libro è bello e struggente: come una generazione di giovani italiani è diventata comunista? Francamente Rilke e Montale (ci siamo mai interrogati sul valore di questi nomi?) con Stalin non c'entravano niente e neppure De Sanctis e Labriola avevano qualcosa a che fare con il suddetto Stalin. Certo siamo stati stalinisti, ma a modo nostro: la «Storia del Pc(b» (Partito comunista bolscevico dell'Urss, ndr.) con «le doppie facce bukariniane» e gli «agenti del Mikado», facevano ridere me e il mio amico Mario Mazzarino, allo stesso modo in cui avremmo riso ai corsi di catechismo. La nostra responsabilità (non dico la nostra colpa) è stata la famosa «doppiezza», ma questa «doppiezza» (diciamolo) è stata una delle condizioni per costruire il più grande partito riformista (riformista sul serio) italiano, più di quello pur glorioso e importante di Turati, che in tempi giolittiani scambiò il suffragio universale con la guerra di Libia. La Dc (pessimo l'articolo di Togliatti in morte di de Gasperi) è stato un grande e originale partito, ma senza il Pci, senza le sue lotte, la sua egemonia culturale, in Italia non ci sarebbe stato nulla di quello che ne ha fatto un paese moderno: dalla riforma agraria che la Dc pagò con la perdita di un milione e mezzo di voti, alle pensioni, alla riforma sanitaria, alla scuola, all'industria di stato (l'Iri e l'Eni: Pasquale Saraceno e Enrico Mattei trattavano con i comunisti, ma anche questi due signori li abbiamo rimossi).
Alfredo Reichlin afferma che non c'è un pensiero di sinistra, ma è lui stesso a dire che non ci può essere un pensiero smemorato. La rimozione del passato e l'abuso dell'aggettivo «epocale» (ogni quindici giorni nella pubblicistica corrente c'è qualcosa di «epocale») sono stati disastrosi. Non disturbo Marx, ma faccio qualche richiamo a Braudel e alla sua «lunga durata». Aggiungo: se non ricordo male correva anche sugli autobus uno slogan dell'Enel: «senza un passato non c'è un avvenire». Solo uno slogan, ma, per essere più serio faccio un richiamo a Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli...? Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro». Nei tempi presenti dobbiamo rovesciare la famosa e ottimistica massima di Keynes e dire, al contrario, «Nel breve periodo siamo tutti morti». Siamo arrivati al punto che in questa allucinazione del «breve periodo» il gruppo dirigente del vecchio Pci abbia pensato di poter equiparare la bicamerale con la svolta di Salerno, quella di Togliatti e non quella perdente e senza retroterra di Enrico Berliguer.
Se vogliamo veramente ricostruire un Pensiero di sinistra bisogna innanzitutto ricostruire la memoria, che può essere violentemente critica, ma deve esserci. Non possiamo cavarcela con la rimozione. Il «nuovissimo» nei cui confronti anche Reichlin è critico, è il prodotto invendibile di questa rimozione. Anche le scimmiette non dovrebbero fare a meno della memoria. Tuttavia la memoria per quanto essenziale non basta. Reichlin ha ragione quando dice che gli attuali cambiamenti nell'economia e nella società sono di straordinaria rilevanza. Certamente più rilevanti di quelli che rilevammo intorno al 1955 con il passaggio dall'operaio professionale all'operaio massa e che subimmo con le sconfitte del 1955 nelle elezioni delle commissoni interne della Fiat. Allora Di Vittorio e Trentin capiraono, accettarono la sconfitta e seppero reagire.
Che fare oggi? Da che cosa ricominciare? Voglio essere vetero e dico: dallo sfruttamento. E mi fa piacere che a pagina 109 del suo libro Reichlin scriva: «lo sfruttamento non sparisce affatto, ma il suo terreno si allarga» e tenda a subordinare anche l'intelligenza del capitale umano, essendo questa la principale forza produttiva. Reichlin, polemicamente, sfotte «le vestali della vecchia sinistra», ma lo sfido a citarmi tra gli interventi degli attuali dirigenti dei Ds un qualche minimo riferimento al concetto di «sfruttamento», che i cambiamenti della produzione e dell'economia non hanno cancellato, ma hanno portato fuori dai classici luoghi di lavoro ed esteso a tutta la nostra vita: anche quando si respira qualcuno di noi è sfruttato. Questo dovrebbe essere il fondamento del nuovo riformismo che non può essere - e sarebbe, come è, fallimentare - quello adattivo e subalterno dell'attuale dirigenza Ds: poiché l'Inps rischia di andare in rosso rivediamo le pensioni; poiché il sistema sanitario nazionale crea deficit di bilancio privatizziamo, e via cantando, così da aprire - pur con le migliori intenzioni - la strada alla politica della destra di governo. Tutto il contrario insomma di quella «critica della società moderna», che pure Reichlin sollecita.
Nel libro, a un certo punto, si accusa la vecchia sinistra (e neppure lei sta bene e pensa bene) di voler tornare all'opposizione perché «incapace di capire che il terreno su cui si svolge il conflitto con la destra è l'egemonia, cioè il governo di questo passaggio storico». Tutto giusto, sennonché l'attuale dirigenza Ds ha confuso i concetti di governo ed egemonia con Palazzo Chigi e ha dimenticato che nella storia d'Italia il vecchio Pci dall'opposizione ha anche governato importantissimi passaggi storici.
I saggi che compongono questo libro offrono, sulla base di uno sforzo di verità, molti motivi di discussione sul che fare della sinistra: la costruzione di un Pensiero (per di più con la maiuscola) non è semplice, anche se richiede un grande sforzo di analisi e di semplificazione per uscire dalla bassezza del «doroteismo», che mi sembra oggi la sigla della sinistra istituzionale. Il merito di Alfredo è di aver offerto un terreno serio di discussione. Molti ironizzano sulla sua (elusiva) propensione a «volare alto», ma il guaio è che oggi siamo scesi molto in basso. «Dopotutto, qual è per noi il problema?» mi chiede Alfredo nelle pagine ultime. Proviamo a discutere.

Ps. Un ringraziamento e un'affettuosa smentita. Un ringraziamento per i gentili complimenti che mi fa e una smentita per la frase «in realtà io tenevo la scena, ma era lui che sapeva le cose». Non è vero Alfredo teneva la scena e sapeva più cose di me.

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Enrico Melchionda, Dal Pci al Pds: la cultura politica (chiavi di lettura) (in "Asterischi", n. 0, 1991)

Da alcuni anni a questa parte le ondate di discussione sull'eredità di Togliatti si susseguono con ritmo sempre più incalzante. Le sollecitazioni - così come è stato per altre questioni cruciali che attengono all'identità e alla cultura politica del Pci (il nome, la storia, i legami internazionali, ecc.) - sono venute dall'esterno, con intenti spesso strumentali e tutt'altro che amichevoli, in particolare dall'area socialista. E' ormai chiaro a tutti - dopo l'89 - che tali sollecitazioni non erano prive di una ragion d'essere e anzi evidenziavano l'esigenza improrogabile, la difficoltà e il ritardo dei comunisti italiani a fare i conti di propria iniziativa con la crisi profonda della loro cultura politica.
Nonostante l'anomalia riconosciuta del Pci, questa crisi non era del tutto estranea a quella del comunismo storico preso nel suo complesso. E infatti i fautori della critica hanno voluto stabilire un ferreo parallelismo fra le vicende dei comunisti italiani e del socialismo reale. Così Togliatti è stato assimilato a Stalin, Gramsci a Lenin, in una catena di responsabilità che giungeva fino ad imputare a Marx il peccato originale del totalitarismo [1]. Eppure, nella concreta situazione italiana, la scelta di concentrare il fuoco sul togliattismo è stata determinata, più che dalle affinità con lo stalinismo, dalla sua specificità, dal fatto che ha rappresentato il fulcro politico-culturale dell'incredibile vicenda del Pci. Perciò l'offensiva anti-togliattiana non ha potuto essere confinata a lungo in una dimensione "storiografica", ma anzi ha accompagnato o addirittura scandito le fasi del rinnovamento del Pci, dal varo del "nuovo corso" alla fondazione del Pds. Le stesse divisioni che hanno contrassegnato la discussione fra i comunisti possono essere ricondotte, in ultima analisi, al rapporto che ciascuno stabiliva con la cultura politica togliattiana.
Lo scopo di questo saggio è di fornire alcune chiavi interpretative del travaglio con cui gli eredi del Pci stanno facendo i conti con il togliattismo. Pur nei limiti di una riflessione parziale e non sistematica, cercheremo di definire quelli che a noi sembrano i caratteri costitutivi di questa cultura politica e di individuare i momenti cruciali e le modalità distinte che ne hanno segnato la crisi e il tentativo (ancora oggi incompiuto) di superamento. In particolare, vedremo in quali direzioni di ricerca si sia indirizzata la revisione e quali alternative al togliattismo si siano andate profilando nel passaggio dall'epoca di Berlinguer alla fine del vecchio Pci. Cercheremo inoltre di definire in che misura e in che rapporto con la tradizione queste alternative rispondano all'esigenza di elaborare una cultura politica altrettanto originale del togliattismo. In definitiva, però, è bene avvertire che il valore della presente ricostruzione - che ha un carattere del tutto personale - va commisurato allo scopo di aprire un dibattito fra coloro i quali nel Pds pensano che sia necessario e possibile andare a un superamento da sinistra della tradizione politico-culturale del Pci, il che equivale ed è inseparabile dall'obiettivo più concreto di spostare a sinistra l'asse politico e ideale del nuovo partito.

1. Il paradigma togliattiano.
Al di fuori del Pci ha sempre fatto fatica ad affermarsi la cognizione dell'originalità della cultura politica in cui si è identificata l'esperienza dei comunisti italiani. Si è sempre cercato di negare l'autonomia e la specificità del togliattismo nei confronti delle tradizioni date del movimento operaio. In sostanza, le critiche si sono condensate in due posizioni opposte, una di destra e una di sinistra. Da destra si è considerato il togliattismo una traduzione piùo meno edulcorata dello stalinismo, mentre da sinistra lo si è letto nient'altro che come una manifestazione del revisionismo socialdemocratico [2]. A ben vedere, le due critiche sono in solidarietà antitetico-polare, perché sottovalutano in eguale misura la specificità della cultura politica togliattiana. Non è un caso che le più classiche critiche di sinistra del togliattismo - quella trotskysta e quella bordighista - lo considerassero alla stregua di un ibrido, una sorta di stalinismo riformista o di socialdemocrazia stalinista [3]. In effetti, la scissione fra le due critiche si può far risalire agli anni Settanta, quando diverse forze del movimento operaio - il Psi craxiano e la nuova sinistra - si misero a marcare la loro autonomia politica e culturale dal Pci. Sembrò allora che la critica al togliattismo si ispirasse fondamentalmente alle posizioni della seconda e della terza Internazionale. All'ondata di sinistra (proveniente dagli anni Sessanta), in cui i movimenti di protesta fecero riemergere in chiave anti-togliattiana il filone insurrezionalista del comunismo [4], fece seguito l'ondata di destra (avviata verso gli anni Ottanta), in cui la restaurazione politico-culturale ha legittimato una raffigurazione sempre più paradossale del togliattismo [5].
Bisogna dire che, tra le posizioni che non riconoscono al togliattismo la dignità di una vera cultura politica, ve ne sono diverse degne di attenzione. Ad esempio, c'è l'argomentazione lukacsiana che, nel mentre porta grande rispetto all'esperienza del Pci e di Togliatti ("un politico di prim'ordine, un grande tattico... forse il più grande"), riconduce il suo valore teorico alla categoria della tattica e al "primato della politica" [6]. In questa maniera, però, Lukacs finisce per assimilare teoricamente Togliatti a Stalin, il togliattismo allo stalinismo, considerati incapaci in eguale misura di fondare - come invece avevano saputo fare Lenin e Gramsci - una "politica basata su un disegno strategico". Ora, non c'è dubbio che in questi giudizi vi sia molto di vero, tuttavia non ci pare che essi diano conto della complessa fisionomia del togliattismo, che va ben al di là della persona di Togliatti, si compone di diversi e spesso anche distanti filoni di pensiero, si afferma come un fenomeno politico-culturale dotato di autonomia, in cui si distinguono una sua propria strategia politica, un programma fondamentale, una formazione ideologica e un sistema di valori. Vediamo rapidamente di cosa si è trattato.
A prima vista, il togliattismo come formazione ideologica non si è distaccato dalla sostanza del paradigma tradizionale, comune alla Seconda e alla Terza Internazionale, che era imperniato su quel nesso concettuale economicismo-umanesimo messo in luce a suo tempo da L. Althusser [7]. Né esso metteva in discussione quella concezione del socialismo che lo fondava su una filosofia teleologica e lo identificava praticamente con la statalizzazione più la pianificazione dell'attività economica. D'altra parte, l'eredità gramsciana, per quanto alterata, ha conferito al togliattismo alcune importanti peculiarità. E' infatti dalla linea storicista e dalla filosofia della prassi che prendono le mosse non solo la strategia politica ma anche il revisionismo ideologico di Togliatti. La concezione lineare e finalistica della storia assume nel togliattismo un connotato che non è né positivista né meccanicista, perché è connotata da un soggettivismo teorico che non ha più nulla a che vedere con lo spontaneismo del Gramsci giovane ma si salda a quello maturo del Moderno Principe.
A ben vedere, la stessa formula del "rinnovamento nella continuità" non esprime tanto una forma di dogmatismo e di conservatorismo, quanto un'idea della soggettività politica e sociale che è cumulativa e nello stesso tempo assai aperta al nuovo [8]. Di qui, nel bene e nel male, la prerogativa propria del togliattismo di ricongiungersi alle culture secondo- e terzinternazionalista senza ridursi a nessuna di esse e neppure alla loro somma. Ciò non ne fa comunque una "terza via" ante litteram, perché la combinazione che ne scaturisce rimane pur sempre ancorata nei confini della tradizione. Non riesce a superare quei confini nenche quando Togliatti, assillato dalla sua indole a "fare politica", si misura senza remore con problematiche inesplorate (attirandosi perciò gli strali dell'ortodossia cinese). Così il ripensamento del rapporto democrazia-socialismo, nella misura in cui i concetti in questione non sono problematizzati rispetto al loro storico compimento, evoca ancora un impianto economicista. E l'ispirazione umanista del discorso di Togliatti sul pericolo nucleare, benché anticipatrice delle tematiche del pacifismo e dell'interdipendenza, si appone senza conseguenze all'ideologia della lotta di classe, nel contesto nazionale e internazionale.
E' sul piano della strategia politica che il mix propriamente togliattiano di rinnovamento e continuità rivela un'ambiguità congenita. Non ci si riferisce alla famosa "doppiezza", cioè a quella sorta di "doppia verità" che si è voluta intravedere nella strategia del gruppo dirigente comunista  del dopoguerra [9]. E' certamente vero che in una prima fase il togliattismo non si distaccò sostanzialmente dalla strategia del frontismo, che articolava la rivoluzione nei due tempi democratico-borghese e socialista e non sceglieva fra via democratica e via insurrezionale [10]. E' anche vero però che in seguito divenne esplicita la ricerca tutt'altro che tattica di una via originale al socialismo e l'accettazione tutt'altro che strumentale del terreno democratico.
Dopo lo spartiacque del 1956 non c'è più doppiezza nella strategia politica togliattiana, come ha ribadito di recente M. L. Salvadori [11]. Lo dimostrano i profondi mutamenti intervenuti nel Pci dopo il '56, nella struttura organizzativa, nell'insediamento sociale, negli orientamenti ideologici e politici, nell'inserimento all'interno dello Stato [12]. Forse ha ragione L. Cafagna a collocare nel 1954 - con l'emarginazione di Secchia e il discorso di Togliatti al Comitato centrale di aprile - lo strappo del Pci dal terzinternazionalismo. Ma ha torto a liquidare la ricerca derivatane come una strategia dell'obesità e del temporeggiamento [13]. In realtà, l'apparente contraddizione di questa strategia è il prodotto di una ricerca, quella sulla rivoluzione in Occidente, che la tradizione del movimento operaio aveva lasciato irrisolta. La scelta togliattiana di accumulare risorse politiche anziché cercare lo scontro frontale non era affatto un'elusione del problema del potere. Piuttosto, con essa si scioglieva dall'iconografia leninista della presa del Palazzo d'Inverno e dalla stessa variante gramsciana in cui la guerra di posizione è una strategia di accerchiamento destinata a preparare la rottura. Come ha dimostrato G. Vacca, la "via italiana al socialismo" è una traduzione gradualistica della teoria gramsciana dell'egemonia, in cui il superamento rivoluzionario dello Stato monoclasse è dato già per avvenuto con l'abbattimento del fascismo e la costruzione della democrazia post-resistenziale [14]. E' tutto qui - nell'assolutizzazione della guerra di posizione e nell'assorbimento del socialismo nella democrazia - il limite della strategia togliattiana [15].  La politica di unità nazionale e l'estraneità alla democrazia dell'alternanza ne sono state conseguenze di grande peso [16].
Pur avendo accantonato il problema della rottura, Togliatti non identificò mai l'obiettivo del potere con la conquista del governo. Ciò né per doppiezza né per arrendevolezza, ma perché era consapevole del fatto che lo sbocco al potere del Pci, a meno di cambiare natura, non potesse prescindere da condizionamenti extra sistema politico. Si può affermare con ragionevole certezza che egli continuò sempre a fare assegnamento sullo spostamento dei rapporti di forza mondiali fra sistemi e sull'incapacità del capitalismo di assicurare lo sviluppo delle forze produttive. E' qui il marxismo, più che il realismo, di Togliatti. In fondo, la ragione del suo "legame di ferro" con l'Urss va ricercata nell'esigenza di ancorare l'accettazione del terreno democratico a una prospettiva  anticapitalista che fosse reale, materiale, e non etica o utopistica. Così si spiega quella "separatezza" del Pci, quell'essere "dentro e contro" che lo ha caratterizzato come partito di lotta e di governo, di quadri e di massa, e ne ha fatto qualcosa di irriducibile alla socialdemocrazia [17]. E' qui il bersaglio vero delle critiche che vengono rivolte a Togliatti e la ragione per cui, una volta che gli ancoraggi dell'anticapitalismo togliattiano - l'analisi del capitalismo italiano e la fiducia nel socialismo sovietico - si sono deteriorati, il Pci e la sua cultura politica sono entrati in crisi.
Infatti, il programma fondamentale togliattiano, di chiara impronta riformista, è incomprensibile al di fuori dell'impianto "crollista" su cui si reggeva l'analisi del capitalismo italiano e internazionale. Com'è noto, tale programma si imperniava sulla democrazia progressiva e sulle riforme di struttura, intese allo stesso tempo come realizzazioni del patto costituzionale e come trasformazioni tendenzialmente socialiste, come accettazione a muoversi sul terreno della democrazia rappresentativa e del mercato e come iniezione di elementi (democrazia sostanziale e programmazione economica) travalicanti il sistema [18]. Si sa anche quanto il riformismo togliattiano fosse segnato dal giudizio sul carattere arretrato del capitalismo italiano [19].  La realizzazione del programma riposava sulla funzione nazionale che, rinnegata dalla nostra "borghesia stracciona", ricadeva sulle classi lavoratrici e sul Pci. Ma quella che S. Tarrow ha definito "ideologia dell'arretratezza" non corrispondeva né a una lettura (per quanto aggiornata) della questione meridionale né alla gramsciana alleanza operai-contadini [20].
Nel togliattismo, il ritardo meridionale non era che l'altra faccia del capitalismo monopolistico, il vero avversario del "partito nuovo". I monopoli del Nord e la grande proprietà terriera del Sud erano accomunati, secondo questa impostazione, dal fatto di prosperare sulla rendita e il parassitismo e di ostacolare lo sviluppo delle forze produttive, compresa l'innovazione tecnologica [21]. Ma ciò non era tanto un segno di arretratezza quanto di maturità, o una combinazione di entrambi, giacché proprio questa sarebbe stata la natura del capitalismo dell'era monopolistica, "tendente - secondo l'espressione di Lenin - alla stagnazione e alla putrefazione" [22]. In definitiva, il rifiuto di considerare le "capacità progressive" del capitalismo contemporaneo era proprio ciò che per Togliatti distingueva i comunisti dai socialdemocratici [23] Al livello "sovrastrutturale", mai trascurato da Togliatti, quest'impostazione si traduceva nella convinzione che la stessa democrazia borghese fosse incompatibile con l'"ultimo stadio" del capitalismo, di cui il fascismo sarebbe stato tutt'altro che un episodio accidentale [24]. Alla luce di questa analisi, la democrazia progressiva el'unità nazionale erano pensate da Togliatti come argine alle tendenze autoritarie della borghesia monopolistica e come occorrenza perché la classe operaia ottemperasse alla sua funzione nazionale.
L'idea di una larga alleanza dei "produttori" da contrapporre al dominio dei monopoli ha rappresentato, alla lunga, la fortuna e la debolezza del togliattismo. Da una parte, l'analisi salveminiana del capitalismo italiano e l'assunzione in chiave armonicista della categoria di interesse generale sono all'origine di quello che L. Paggi e M. D'Angelillo definiscono il"riformismo mancato" del Pci [25]. D'altra parte, fra l'evoluzione del Pci e la modernizzazione della società italiana si stabilisce storicamente una stretta correlazione, in cui entrambi i fattori sono causa ed effetto. Nell'Italia uscita dal fascismo e dalla guerra, il Pci esercita "una spinta costante" sui processi di modernizzazione, e la crescita della società premia puntualmente il Pci [26].
Com'è noto, la dilatazione e la flessibilità del messaggio hanno consentito al Pci di conquistare un insediamento sociale senza precedenti per una forza antisistema. La "subcultura" e il senso di appartenenza a base territoriale messi in rilievo dalle ricerche sul comportamento elettorale non danno però pienamente conto delle peculiarità del radicamento del Pci. A differenza della subcultura cattolica, quella comunista ha rappresentato il sistema di valori delle classi subalterne. Verso queste il togliattismo ha svolto una funzione educativa e normativa che bandiva il "sovversivismo" e il "plebeismo" pur senza essere di tipo socialdemocratico classico [27]. Il sistema di valori su cui ha messo le radici il senso di appartenenza del popolo comunista non propendeva a una pura negoziazione dei valori dominanti, ma sviluppava una coscienza di classe (il senso del "noi" e "loro"), una gerarchia della stima basata sulla dignità del lavoro, il senso della sistematicità della diseguaglianza sociale e della necessità dell'azione politica per il proprio riscatto.
Si trattava dunque di un sistema di valori alternativo e nello stesso tempo parte integrante della società così com'è. Alla sua architettura effettuale operavano da una parte la rete organizzativa designata alla redistribuzione dei compensi materiali e sociali e dall'altra la figura dell'intellettuale organico. Ma il soggetto demiurgico era il"partito nuovo", fulcro vero del togliattismo [28]. Il suo carattere di massa marcava la rottura più netta con l'organizzazione terzinternazionalista e, nello stesso tempo, ne faceva una sorta di partito-stato. L'autonomia della classe e la tematica dell'autogoverno, così centrali nel Gramsci ordinovista, erano infatti estranei al togliattismo proprio perché nel partito nuovo veniva superata la classica separazione tra lotta economica e lotta politica. Il Pci costruito da Togliatti era piuttosto vicino al modello "totalitario" teorizzato da Gramsci nei Quaderni, non a caso pensato come un adattamento alle particolarità della storia italiana, segnata dal fascismo e dalla Chiesa. Era cioè un organismo politico e sociale, la personificazione di un'altra classe dirigente e di un altro principio di organizzazione del potere e della società, un ordine nuovo in gestazione dentro il vecchio. Perciò, anche quando si è convertito in qualcosa di più affine al modello neocorporativo dei partiti socialdemocratici nord-europei, al Pci è mancata una vera "cultura di governo" [29]. E' infatti proprio sul problema del governo che il togliattismo è entrato in crisi.

2. Fastigi del togliattismo.
E' il togliattismo come cultura politica, non il centralismo democratico, che ha garantito l'unità del partito comunista del dopoguerra. Infatti, l'unità comincia ad incrinarsi, già prima della morte di Togliatti, quando emergono i limiti di quella cultura politica. Sono limiti palesati, a partire dal 1960, dagli sviluppi sociali e politici dell'Italia reale, che toccavano le corde più sensibili del paradigma togliattiano. La maturazione di una società di massa e di nuovi protagonisti del conflitto di classe, da una parte, e, dall'altra, la costituzione del governo di centro-sinistra reclamavano qualcosa di più di aggiustamenti tattici, o di un ripensamento della sola strategia politica. Se il centro-sinistra faceva intravedere il pericolo di un isolamento e di un logoramento politico del Pci, quello che allora fu chiamato il "neocapitalismo" falsificava l'ideologia storicista, svuotava il programma fondamentale e intaccava lo stesso sistema di valori del togliattismo.
Se in precedenza un merito del togliattismo era stato nella sua capacità di mediare e incorporare approcci assai differenti (da A. Banfi a C. Luporini, da M. Alicata a E. Sereni), adesso gli spazi si facevano più ristretti. Già il 1956 aveva cominciato a scalfire l'egemonia indiscussa esercitata dalla cultura comunista nell'intellettualità italiana del dopoguerra. Ora quel che gli strumenti teorico-analitici del togliattismo non potevano vedere veniva rilevato disinvoltamente da filoni culturali eterodossi. Particolarmente emblematiche furono, nella prima metà degli anni Sessanta, le riflessioni di tre intellettuali assai differenti fra loro, ma accomunati dalla reazione ai cliché togliattiani.
Com'è noto, fu G. Della Volpe - comunista politicamente disciplinato ma filosoficamente eterodosso - a mettere in discussione la concezione cumulativo-lineare del tempo storico, e quindi la continuità della cultura marxista nei confronti di quella borghese e dello stesso socialismo nei confronti del capitalismo, aprendo così la strada al superamento dell'ideologia dell'arretratezza [30]. E fu a partire da questa lezione che il socialista eterodosso di formazione morandiana R. Panzieri - ragionando sulle lotte operaie del '59-'60 e sulla ristrutturazione capitalistica - demolì teoricamente l'idea secondo cui la classe operaia dovesse assolvere a una funzione generale di supplenza nei confronti della borghesia e restituì centralità al rapporto di produzione e al conflitto di fabbrica [31]. Nel far ciò, Panzieri riprese in chiave esplicitamente anti-togliattiana di sinistra non solo il Marx del Capitale ma anche il Gramsci consiliare [32]. La stessa operazione fece F. Onofri, ma da destra [33]. Coniugando l'adozione delle moderne scienze sociali empiriche con un'ideologia libertaria, Onofri ebbe il merito di dedurre dall'osservazione dei fenomeni di massificazione e di secolarizzazione l'incipiente crisi motivazionale delle ideologie globali, fornite nell'Italia postbellica dal comunismo e dal cattolicesimo [34].
La reazione del togliattismo nei confronti di queste riflessioni fu, naturalmente, di rifiuto molto deciso [35]. Il programma teorico di DellaVolpe venne bollato come "teoreticismo", relegato allo specialismo universitario, e la rivista che lo propugnava, Società, venne sbrigativamente chiusa [36]. Il pensiero di Panzieri fu fatto oggetto - come di recente ha ammesso autocriticamente P. Ingrao - di una polemica "chiusa e saccente", e la sua esperienza politica condannata al minoritarismo e all'estremismo [37]. Il lavoro di Onofri, che già era stato costretto con A. Giolitti a lasciare il Pci, venne invece semplicemente ignorato e consegnato al dialogo con il partito socialista. Fatto sta che questi studiosi furono gli ispiratori delle nuove generazioni dell'intellettualità di sinistra del nostro paese. E qualcosa delle loro riflessioni penetrò presto nello stesso dibattito comunista, come dimostrano le famose discussioni culturali del 1962 sulla dialettica e sulle tendenze del capitalismo italiano [38]. Ma la conseguenza più rilevante della crisi del paradigma togliattiano si manifestò nel dibattito politico che iniziò quello stesso anno nel Pci e sfociò nell'XI Congresso del 1966. In questo periodo, morto Togliatti, il togliattismo smise di essere una cultura politica unitaria e si smembrò in due culture politiche distinte. Da allora in poi, la storia del Pci è stata segnata da quella polarizzazione.
L'amendolismo e l'ingraismo - entrambi in qualche modo frutto del disagio iniziato nel 1956 - rappresentavano le risposte opposte ai problemi da cui era attanagliato il togliattismo nella prima metà degli anni Sessanta [39]. Il primo - con la proposta del partito unico dei lavoratori - era essenzialmente una risposta ai problemi politici del togliattismo, il secondo - con l'ipotesi di un nuovo modello di sviluppo - a quelli sociali, e sbaglierebbe chi vi leggesse una mera riproposizione delle due anime del frontismo (dall'alto e dal basso). Si trattava di due risposte endogene al paradigma togliattiano e tuttavia di due culture politiche distinte. Col tempo, esse hanno preso sì le distanze dall'involucro ideologico del togliattismo - la concezione storicista del tempo e la teoria teleologica del socialismo -, ma non dal suo nucleo essenziale che è costituito dal nesso economicismo-umanesimo. In proposito il loro tentativo è stato piuttosto quello di piegarne l'interpretazione nell'uno o nell'altro senso. Mentre l'amendolismo ha accentuato il lato economicista assumendo in chiave riformista la funzione nazionale del movimento operaio e l'alleanza dei produttori, l'ingraismo ha portato alle estreme conseguenze l'istanza umanista richiamandosi all'identità alienata dei soggetti da ricomporre nel processo armonico dell'egemonia e nella comunità solidale delpartito. Se si sommano i rispettivi pregi e difetti, le due correnti sembrano quasi complementari: l'approccio della destra sembra capace di sbloccare la segregazione imposta al Pci dalla strategia gradualista dell'egemonia, ma a costo di smarrirne l'apporto essenziale costituito dal sistema di valori alternativo; l'approccio della sinistra può liberare le istanze di trasformazione dalle catene in cui li costringeva la funzione nazionale di supplenza assegnata al partito, ma al rischio di ricadere nell'ipostatizzazione della guerra di posizione.
I due frammenti del togliattismo non hanno potuto più essere ricomposti e riassorbiti, e anzi - nella loro concorrenza per l'egemonia - hanno dominato il dibattito del Pci, rendendo ardua ed effimera la tradizionale mediazione politica del centro. E' significativo che la segreteria di L. Longo abbia finito per oscillare fra la destra (al XII congresso) e la sinistra (nel '68), senza essere in grado di ristabilire un paradigma unitario [40]. Nonostante ciò, lo sviluppo politico-culturale della destra e della sinistra del Pci non ha smesso di accompagnarsi ai destini del paradigma originario, cosicché solo la vigoria di quest'ultimo ha potuto limitare la loro incompatibilità e anzi esaltarne i reciproci pregi, ristabilendo la supremazia politica di un centro. E' quel che è avvenuto negli anni Settanta, quando il togliattismo ha goduto di una straordinaria ripresa.
Qualcuno ha voluto vedere nella cultura di Berlinguer del periodo 1972-79 l'influenza determinante del pensiero "catto-comunista" di G. Rodano. Ma, a parte il fatto che questo stesso pensiero era tutto interno al paradigma togliattiano, non è difficile dimostrare che la strategia del compromesso storico altro non era che uno sviluppo del togliattismo, una sorta di togliattismo realizzato [41]. Essa ha rappresentato il punto culminante, il "corto circuito fra vittoria e sconfitta" della cultura politica togliattiana e dell'intera storia del Pci, nel senso che allo stesso tempo ne ha sancito la "verità" proveniente da lontano e messo in mostra l'inadeguatezza ormai irrimediabile al cospetto del nuovo [42]. Nel compromesso storico - "seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista" - confluiva tutta la tradizione, comprese le sue componenti terzinternazionaliste, e in particolare mostrava che la costante strategica del Pci del dopoguerra è stata la linea dell'"unità delle forze democratiche e popolari" [43]. Se un apporto inedito vi si vuol rintracciare, questo è certamente costituito dalla "tensione moralistica", dal "forte appello ai valori", dal "senso della diversità", così tipici della personalità di Berlinguer [44].
Non è per caso o per disciplina che - pur con interpretazioni differenti - nella strategia del compromesso storico si riconobbero in sostanza tutte le culture politiche del Pci, eccetto personaggi isolati come U. Terracini. E' sulla gestione tattica che le posizioni si distinsero,con la conseguenza che la destra riuscì a influenzare tutte le scelte fondamentali, dalla linea dei sacrifici all'accettazione della Nato. Ma, per quante distinzioni si vogliano fare tra la politica della solidarietà nazionale e la strategia del compromesso storico, è un fatto che il naufragio della prima ha trascinato con sé anche l'altra, e ha segnato il tramonto definitivo della cultura politica fondata da Togliatti.
In sintesi, si può dire che il togliattismo non ha trovato nel suo bagaglio le risorse politiche e teoriche per far fronte alla brutale reazione (la guerra manovrata) delle classi dirigenti nei confronti delle conquiste ottenute proprio dalla strategia del partito nuovo. In altre parole, esso si è mostrato incapace di dominare analiticamente la dinamica di crisi e modernizzazione del capitalismo [45]. Non ha avuto gli strumenti per "comprendere che in una società avanzata e di massa, per giunta percorsa da fenomeni di rapida trasformazione, di rottura e di ricomposizione di equilibri, la lotta politica non può essere eterna guerra di posizione o rincorsa di una fallace egemonia, bensì deve sapersi trasformare in guerra di movimento, in competizione" [46]. Non essendo questa la sede per analizzare in dettaglio le cause della sconfitta, quel che qui ci preme è esaminare piuttosto quali conseguenze abbia avuto nella cultura politica del Pci il tramonto del togliattismo. Perché da questo evento ha preso le mosse una ricerca che ha già trasformato a fondo l'identità e la cultura del partito di Togliatti e non è ancora conclusa.

3. La "doppiezza" tardo-berlingueriana.
Fu lo stesso Berlinguer a trarre dalla sconfitta del compromesso storico lo sprone per un impegnativo ripensamento dell'eredità togliattiana. Appare molto convincente l'ipotesi - avanzata da M. Tronti - che ravvisa nella sua ricerca sofferta e appassionata degli anni successivi al 1979 il tentativo di superare il togliattismo [47]. Com'è noto, una certa letteratura ha voluto invece accreditare l'idea di un Berlinguer tutto rinchiuso, dopo il fallimento della sua creazione strategica, nel recupero della tradizione e in una battaglia difensiva [48]. Certo, vi sono limiti e impacci indiscutibili nell'innovazione berlingueriana. E' esemplare il caso del rapporto con l'ideologia storicista, che Berlinguer rivendicò fino all'ultimo pur sapendo la sua inadeguatezza, tant'è che nella sua riflessione matura non trovò di meglio che rifugiarsi nella ripresa del teleologismo terzinternazionalista, emblematizzato dall'alternativa epocale socialismo-barbarie [49]. Ed è vero che nella politica dell'alternativa democratica c'era la coscienza di dover rispondere a un'iniziativa avversaria e restauratrice e c'era lo sfoggio del solito metodo del rinnovamento nella continuità. E' in questo senso che - per usare una recente espressione di A. Asor Rosa - la politica dell'alternativa "nasce male" [50]. Tanto più che, in termini strettamente politici, la svolta del novembre '79 non contraddiceva né la ragion d'essere (l'emergenza) né il fine (l'entrata nel governo) della politica di solidarietà nazionale. Se si accettasse questa interpretazione, però, la stessa strategia del compromesso storico verrebbe sminuita a operazione tattica e a formula di governo. E' stato ampiamente dimostrato che non è così [51]. Anzi, l'alternativa democratica ha coinciso, e non poteva non coincidere, con l'abbandono del modello sociale e politico implicato dal compromesso storico e della stessa cultura politica che lo aveva prodotto [52].
Con tutti i loro limiti, le rotture di Berlinguer con il paradigma togliattiano sono state ben sostanziose e non certo contingenti [53]. Lo strappo con l'Urss, la questione morale, l'alternativa democratica e la battaglia sulla scala mobile furono scelte tutt'altro che indolori o prive di conseguenze sulla cultura politica del Pci. Ne mettevano invero radicalmente in discussione ideologia, sistema di valori, programma e strategia. La stessa ambiguità di cui tali scelte erano permeate non le rende affatto meno radicali. Perché fra le due maniere di impugnare la propria discendenza - il rinnegamento e il trascendimento -  quella scelta da Berlinguer, la seconda, è anch'essa una rottura, ma senza rimozione. E' questa una strada più ardua dell'altra, perché l'identità non si definisce per opposizione e il nuovo non è sempre esplicitamente distinto dal vecchio. Così fare i conti con l'ultimo Berlinguer è più difficile che farli con il primo, o con lo stesso Togliatti. Perché significa confrontarsi con il primo tentativo all'interno del Pci di andare oltre il togliattismo, con problemi ed elementi tuttora più che mai vitali per la cultura politica del Pds.
L'innovazione berlingueriana ha il suo vero punto nevralgico, attorno a cui ruota tutto il resto, nel tema della diversità e della riforma della politica. Si può dire che, da un certo momento in poi, la questione del superamento del togliattismo ha finito per coincidere con questo tema. Si tratta di una ricerca che Berlinguer ha lasciato aperta, abbozzata. Anzi, nel rifiuto dell'omologazione politica che contrassegna il concetto di diversità si denota la compresenza di due idee distinte di riforma della politica. In particolare risulta irrisolto il rapporto che nella riflessione dell'ultimo Berlinguer si istituisce tra la riflessione che ha al centro la "questione morale" e quella che vagheggia la prospettiva della "terza via". Nella concreta esperienza storica di Berlinguer è difficile immaginare una scissione netta fra queste riflessioni, ma da un punto di vista logico (e, come vedremo, alla luce delle vicende ulteriori) esse si prestano indubbiamente a sviluppi teorico-politici divergenti.
Si è voluto spesso vedere una sorta di moralismo nella centralità attribuita dall'ultimo Berlinguer alla questione morale. A sostegno, si è anche fatto riferimento alla sua concezione etica della politica [54]. Nonostante ciò, non è sfuggita a molti la funzione essenziale che assumeva la questione morale nella strategia che dal 1979 il segretario del Pci andava elaborando. Paradossalmente, in essa c'era il massimo di continuità e il massimo di rottura nei confronti del compromesso storico. Infatti, da una parte, la questione morale costituiva già il peculiare contributo berlingueriano all'impianto togliattiano del compromesso storico [55]. D'altra parte, e contemporaneamente, nell'assunzione di essa come "questione politica per eccellenza" dell'Italia contemporanea c'era - come ha rilevato P. Flores d'Arcais - la più significativa "rottura della continuità storica nel comunismo italiano" [56].
L'addio al togliattismo implicato dalla riflessione sulla questione morale è reso evidente proprio nella prefazione ai Discorsi parlamentari di Togliatti, che è forse il testo più impegnativo e controverso dell'ultimo Berlinguer [57]. Se in Togliatti i partiti erano lo strumento per la costruzione della democrazia, "la democrazia che si organizza", per usare la sua celebre espressione del 1946, adesso essi - specialmente quelli di governo - hanno esaurito la loro "funzione di supplenza", trasformandola in "sostituzione, occupazione e spartizione dello Stato e delle istituzioni", insomma "hanno degenerato" [58]. Se la democrazia progressiva si caratterizzava per il fatto di non ridursi al regime parlamentare e il partito nuovo per la sua capacità di penetrare la vita democratica, le istituzioni e tutte le pieghe della società civile, ora Berlinguer pone l'accento sulla necessità di liberare la società civile dal "prepotere dei partiti", di rompere "la surrettizia sostituzione e l'ibrido connubio" tra partiti e istituzioni, tra politica e amministrazione, tra governo e parlamento [59].
Il quadro che Berlinguer metteva in discussione non era insomma solo il "consociativismo" della solidarietà nazionale o la corruzione del regime democristiano, ma anche l'assetto politico-sociale postbellico, la democrazia popolare all'italiana, in cui si inseriva la cultura politica togliattiana e di cui il compromesso storico avrebbe dovuto essere il compimento. In tal modo, egli coglieva la novità di fase scandita dal passaggio degli anni Settanta, fino a percepire la crisi del sistema politico sancito dalla Costituzione. Una percezione tardiva, rispetto al Psi craxiano, che pure - in quanto espressione di quella stessa novità - era un fenomeno tutt'altro che sottovalutato dall'ultimo Berlinguer [60]. E una percezione monca, perché riduceva la crisi del sistema a "un disegno di destabilizzazione", ai "pericoli di autoritarismo e di degenerazione" [61].
Tuttavia, mettere l'accento sulla questione morale costituiva a suo modo un tentativo di misurarsi con la nuova fase evitando sia di incappare nella riaffermazione nostalgica del vecchio sia di seguire il Psi sulla strada di una modernizzazione politica e sociale non sorretta da una rigenerazione della classe dirigente. Certo, Berlinguer era tutt'altro che aperto a ipotesi di riforma istituzionale, che cominciavano appena ad affacciarsi sulla scena, perché ne paventava la tendenza autoritaria e in fondo pensava che si trattasse piuttosto di rivitalizzare la Repubblica esistente, "distorta e tradita", e di "difendere il parlamento" [62]. Nondimeno, la strategia politica conseguente dall'impianto della questione morale non approdava soltanto a una riforma etica della politica ma anche a un'ipotesi concreta di superamento della "democrazia zoppa". Il fatto che Berlinguer continuasse a rifiutare l'omologazione politica del Pci non vuol dire che la sua strategia si disinteressasse della questione dello sbocco e della legittimazione di governo, anzi mirava esplicitamente a rompere il "gioco truccato" della conventio ad excludendum . Solo che la questione politico-istituzionale era strettamente raccordata a uno schema di riscossa morale della società civile che non avvicinava nel tempo la partecipazione del Pci a coalizioni di governo né connotava in maniera netta e inequivoca la diversità comunista sul terreno strategico. Così l'opzione per l'alternativa, nel momento in cui se ne negava la qualificazione "di sinistra", mostrava un'ambiguità congenita fra rottura e continuità nei confronti del modello sociale e politico che era alle spalle del compromesso storico e della strategia togliattiana.
Probabilmente, il limite di fondo della strategia imperniata sulla questione morale era nel suo legame, contraddittorio nell'intimo, con l'altra linea di ricerca dell'ultimo Berlinguer. Si tratta della riflessione sulla "terza via", né socialdemocratica né comunista. Questa riflessione, risalente com'è noto a prima dello "strappo", costituisce per la sua persistenza e ambiguità un luogo assai sintomatico dell'elaborazione ideologica berlingueriana [63]. In essa è infatti evidente la frattura teorica tra la concezione precedente e quella susseguente alla data critica del 1979. In questo senso, l'ambiguità della terza via non consiste tanto nel fatto che - come le è stato continuamente rimproverato- non se ne è mai specificato il contenuto, dal momento che si trattava di una ricerca, per di più assai ambiziosa e innovatrice [64]. E' vero però che il medesimo concetto ha assunto funzioni differenti secondo il contesto politico-culturale di riferimento. Negli anni Settanta, quando si identificava con l'esperimento dell'eurocomunismo, la terza via aveva il valore di tappa di avvicinamento al socialismo europeo [65]. Negli anni Ottanta, invece, essa acquistava davvero una ispirazione autonoma ed originale, configurandosi come ambizione di "reinvestire la politica di 'pensieri lunghi', di progetti" e di inventare un "nuovo socialismo" [66]. In maniera apparentemente paradossale, questa ispirazione implicava per Berlinguer un avvicinamento politico non minore ma maggiore nei confronti della sinistra europea.
Nella riflessione matura di Berlinguer c'era un'acuta consapevolezza della portata integrale della sfida di destra portata dal nuovo "americanismo", cioè dal modello economico, politico-sociale e di relazioni internazionali propugnato allora dal reaganismo. Per far fronte a questa sfida Berlinguer contava sull'Europa occidentale, culla del socialismo, e sulle sue espressioni politiche di sinistra, ma pensava non fossero sufficienti le loro vecchie identità e culture [67]. Perciò prospettava una nuova fase dell'esperienza del movimento operaio europeo, che andasse oltre - e non si limitasse a ricongiungere, come in fondo aveva già fatto il togliattismo - la socialdemocrazia e il comunismo storici, entrambi inadeguati di fronte alle sfide attuali e screditati come portatori del progetto socialista.
Com'è noto, il superamento del comunismo storico fu sancito dalla presa d'atto dell'esaurimento della "spinta propulsiva" dell'eredità dell'Ottobre e dalla ricerca tipicamente gramsciana sulla rivoluzione nei "punti alti" dello sviluppo. Per quanto riguarda la ritrosia di Berlinguer nei confronti della socialdemocrazia storica, essa non equivaleva a mettere la sua crisi sullo stesso piano del fallimento dell'Est. Tant'è vero che egli - proprio negli anni in cui conduceva la battaglia difensiva e rivendicava con orgoglio la diversità comunista - è entrato in maggiore sintonia con i partiti dell'Internazionale socialista [68]. Il fatto è che la sua ritrosia si fondava su tre argomenti forti: a) la fase socialdemocratica è segnata irrimediabilmente dall'ideologia positivista e dal mito del progresso, e perciò la socialdemocrazia non ha gli strumenti culturali per dominare la ciclicità del capitalismo e far fronte alle moderne minacce alla sopravvivenza della civiltà e dello stesso genere umano (guerra nucleare, ambiente, sottosviluppo, emarginazione), per cui occorre "il coraggio di un'utopia che lavori sui 'tempi lunghi'" [69]; b) il movimento e le politiche socialdemocratiche - grazie agli spazi di riformismo e di assistenzialismo offerti dall'espansione economica del ciclo keynesiano - hanno offerto rappresentanza essenzialmente agli interessi degli strati forti delle masse subalterne, mentre la nuova fase del capitalismo richiede "un profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del sistema", una nuova alleanza fra la classe operaia sindacalizzata e gli "strati emarginati della società, a cominciare dalle donne, dai giovani, dagli anziani" [70]; c) la via socialdemocratica, pur avendo ottenuto importanti risultati parziali, non è riuscita a realizzare la trasformazione socialista della società, anzi ha condotto la socialdemocrazia "all'offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo", mentre oggi c'è ancora più bisogno di prima - dinanzi al rischio di "una nuova barbarie" - di un "mutamento radicale della società", di un progetto di "costruzione di una società nuova, più umana e più alta" [71].
Quel che è interessante è che nella riflessione dell'ultimo Berlinguer la necessità di una terza via ha origine non solo nei limiti rispettivi del comunismo e della socialdemocrazia storici, ma anche in ciò che essi hanno in comune. Questo nucleo comune egli l'identifica nell'"impostazione dirigistica e centralistica", che sarebbe entrata in crisi tanto nelle "versioni statalistiche" dell'Est quanto nelle "versioni programmatorie" dell'Europa occidentale [72]. La dissonanza di questa linea di ricerca nei confronti di quella legata alla questione morale appare immediatamente evidente quando Berlinguer affronta il tema della diversità [73]. Nel contesto della terza via, la radice della diversità  è rinvenuta nella "ripulsa dei valori dominanti" e del capitalismo come formazione sociale, piuttosto che nella degenerazione del sistema politico italiano. Eppure, è arduo separare i due filoni di ricerca, dal momento che molto probabilmente il loro stesso responsabile non ne intravedeva l'intrinseca ambiguità e la potenziale divergenza. Prova ne siano i comportamenti che concretavano le riflessioni dell'ultimo Berlinguer. Le tenaci battaglie davanti ai cancelli della Fiat e sulla scala mobile, l'interlocuzione genuina con il femminismo, il pacifismo e l'ambientalismo testimoniano dell'oscillazione fra l'adozione di un orizzonte post-economicista e la riaffermazione del sistema di valori tradizionale, fra una strategia della cittadinanza e una nuova definizione del blocco sociale e della funzione nazionale delPci.
Purtroppo, nessuno dei due filoni di ricerca dell'ultimo Berlinguer ha avuto il tempo di svilupparsi in una cultura politica compiuta. Alla sua scomparsa il superamento del togliattismo era ancora un'impresa manchevole e anzi praticamente è stata lasciata cadere, mentre si è dileguata la stessa tregua politica che permetteva alle diverse tendenze di convivere nello stesso partito. Una volta risvegliatasi, la saga della lotta destra-sinistra ha polarizzato la vita del partito almeno fino al XVIII Congresso, e queste culture politiche hanno mostrato tutti i loro limiti quando sono state costrette dalla realtà a fare i conti con l'uscita dal togliattismo.

4. La cultura della discontinuità.
Il tramonto del comunismo all'Est e la crisi della democrazia post-bellica in Italia hanno infranto i due piedistalli su cui si reggeva la costruzione della cultura politica togliattiana. Il patto costituzionale e il socialismo reale per i comunisti italiani non rappresentavano solo il terreno propizio, la rottura già avvenuta nel rapporto di forze, sul quale far avanzare gli elementi di socialismo. Essi erano anche il contenuto della metafora della "doppiezza",  ma non nel senso di una improbabile compresenza di realismo e utopismo, bensì come scenari-obiettivo prospettati a partire dalla valutazione delle condizioni date. Con il blocco della democrazia a scapito del Pci da una parte e la fine del bipolarismo per bancarotta del socialismo dall'altra, quegli scenari si sono però rivelati privi di prospettiva. Per far fronte al nuovo scenario, era allora necessario fare i conti con il togliattismo in quanto tale. Non era necessario tanto un cambiamento di linea politica quanto una "discontinuità" di cultura politica. Ed è proprio questo che si è tentato di fare con la svolta che ha operato la trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra.
Non si può dire che il Pds possegga oggi una cultura politica dotata di una qualche compiutezza e omogeneità, che sia lontanamente paragonabile al togliattismo. Esistono invece ipotesi politico-culturali assai diverse fra loro e ancora grezze, che solo in misura ridotta sono rappresentate dal pluralismo delle aree interno al nuovo partito. L'intruglio che ne viene fuori è ancora lontano dal costituire un'alternativa al togliattismo, ma potrebbe esserne il crogiolo. Perché ciò divenga possibile la condizione è che i vari apporti entrino in comunicazione produttiva fra loro e, soprattutto, si liberino da uno stato che li qualifica quasi esclusivamente in riferimento al rapporto che essi intrattengono con la tradizione. In altre parole, è necessario superare una frattura ancora essenzialmente rinchiusa nell'alternativa fra innovazione e conservazione. Una frattura che non ricalca  gli schieramenti pro e contro la svolta, ma li attraversa. Il problema è che ancora prevalgono e si sovrappongono le vecchie culture politiche nate nel Pci dalla crisi del togliattismo: si va dai togliattiani ortodossi ai togliattiani-berlingueriani, dai togliattiani amendoliani a quelli ingraiani, dai berlingueriani di destra a quelli di sinistra. Sembrerebbe che non ci sia niente di nuovo sotto il sole, tranne alcuni apporti essenzialmente teorici, inadatti per indole propria a formare il nucleo della cultura politica complessa ed unitaria di cui abbisogna un organismo socio-politico qual è l'erede del Pci.
Non è possibile stabilire in maniera univoca l'ispirazione politico-culturale della svolta, che è stata sottoposta a continue e considerevoli oscillazioni, fatta oggetto di una acuta competizione per l'egemonia. In fin dei conti, i suoi stessi principi generali - così come sono sanciti nella Dichiarazione di intenti presentata da A. Occhetto - sono un imperfetto tentativo di sintesi, che si avvale degli apporti politico-culturali più differenti, alcuni conformi alla tradizione, altri no. Non è che l'apporto di filoni teorici estranei costituisca una novità nel partito, specialmente dopo che i più difformi già vi avevano avuto accesso a pieno titolo grazie alla laicizzazione berlingueriana. Solo che adesso essi non confluiscono più in un corpo politico-culturale compiuto e strutturato, ma si sovrappongono gli uni agli altri a pari titolo, e dunque possono aspirare ad essere il perno della cultura politica in fieri. Diversi osservatori hanno stabilito, in particolare, un nesso fra l'impianto della svolta e il pensiero di ispirazione liberaldemocratica radicale. Certo, sarebbe sbagliato attribuire questa influenza a singoli apporti, così come era sbagliato sopravvalutare a suo tempo l'influenza dei rodaniani sul Berlinguer del compromesso storico. L'ispirazione radicale della svolta va rinvenuta piuttosto in un certo svolgimento che si dà all'impianto dell'ultimo Berlinguer, nell'ipotesi di rottura totale con il togliattismo e nell'opzione per una cultura politica eterogenea nei confronti della tradizione del movimento socialista in generale. Infatti, il senso originario della svolta sta - come ha commentato P. Flores d'Arcais - in una doppia "rottura di continuità": nella "non accettazione del comunismo in tutte le sue varianti, compresa quella revisionistica togliattiana" e nella "consapevolezza che la socialdemocrazia non è oggi un'alternativa valida e praticabile" [74]. Dunque, si può dire che la svolta porta alle estreme conseguenze la riflessione dell'ultimo Berlinguer. Nello stesso tempo - questa è la novità -, tenta di scioglierne l'ambiguità.
Con tutte le sue ambiguità e incompiutezze, la ricerca di Occhetto si colloca tutta dentro la riflessione berlingueriana sulla questione morale. Ciò risulta evidente anche da un'analisi poco approfondita di quella che per ora è solo un'imbastitura di cultura politica. I suoi connotati essenziali sono la riforma della politica intesa come critica della partitocrazia, come sblocco della democrazia e come riscossa della società civile, da una parte, e, dall'altra, la politica di alternativa imperniata sulla priorità del programma, sull'appello etico alla cittadinanza e sull'incertezza dei rapporti a sinistra. La differenza con Berlinguer è che da quest'impianto vengono tratte ora tutte le conseguenze, liberandolo dalle ambiguità in cui era costretto. Questa è la novità non di poco conto. Infatti, l'altro filone di ricerca di Berlinguer, quello sulla terza fase, viene lasciato cadere, è alleggerito del carico strategico anticapitalista, accogliendosene soltanto il distacco da entrambe le tradizioni del movimento operaio e riducendo la diversità a rifiuto meramente tattico-politico dell'omologazione. "La costituzione del Pds - ci spiega U. Curi - è l'esatto contrario di una proposta di omologazione; si tratta, piuttosto, di un'ipotesi che punta alla destabilizzazione degli equilibri vigenti nel sistema", ad affermare un'"imprenditorialità politica" che elimini la "rendita di posizione fin qui goduta da Craxi" [75]. Ma il rischio di questa operazione è che il tutto si traduca in quello che A. Asor Rosa ha definito "un certo imprenditorialismo democraticista, per cui quello che qualifica la bontà del fine è l'entità del risultato raggiunto" [76].
La proposta politico-culturale di Occhetto non dispone in alcun modo di una sua propria formazione ideologica. Da qualche suggestione si può ipotizzare che essa richiami un orientamento filosofico di impianto umanistico-antropologico, in cui le prospettive di liberazione umana si collocano sul terreno dell'"agire comunicativo". Comunque sia, il risultato è il dissolvimento di una concezione sistemica del capitalismo e la definizione in termini puramente etici del socialismo. Quella che viene teorizzata è la mistione (conseguente allo sfaldamento) delle culture politiche, perché la pluralità delle domande esigerebbe dalla sinistra risposte diversificate, "ora liberali, ora democratiche, ora anche socialiste", a ulteriore dimostrazione del fatto di partenza che "oggi in questione non è soltanto il comunismo ma anche in parte il socialismo" [77]. Più chiara è la strategia politica, tutta incentrata sull'idea dello sviluppo della democrazia tout court , intesa "come mezzo e come fine". Si tratta di un progetto di democrazia "integrale", che si ispira ampiamente alle recenti posizioni di N. Bobbio e R. Dahrendorf. In concreto, questo progetto si compone di due assi strategici e due corollari programmatici. Il primo asse ruota attorno all'idea della purificazione della democrazia dalla deviazione partitocratica, al fine di realizzare quelle promesse dell'ideale originario "non mantenute" dalla borghesia, in cui - stravolgendo un tema togliattiano - viene fatta consistere la "funzione nazionale" della sinistra [78]. Il secondo asse disegna una strategia della cittadinanza, in cui la democrazia integrale si sviluppa in relazione ai diritti dei cittadini, piuttosto che agli interessi di classe [79].
Il programma fondamentale discendente da questa strategia insiste su due corollari: da una parte, la riforma in senso competitivo del sistema politico e, dall'altra, il controllo a fini sociali e per via conflittuale del capitalismo [80]. Si noti che tra i due aspetti - politica e società - viene meno ogni nesso strutturale, dal momento che saremmo in presenza di un'"interruzione del circuito fra antagonismo sociale e scontro politico, nel senso che i protagonisti, la logica, il livello della conflittualità, i rapporti di forza agenti nella società, non si traducono direttamente sul piano delle relazioni politiche" [81]. In tal modo, la proposta dell'alternativa rimane infondata, si trasforma "da fattore di riforma della politica a fattore del mercato politico" [82].
L'iniziativa di Occhetto, che ha condotto alla fondazione del Pds, ha avuto un effetto perturbatore su tutte le culture politiche del vecchio Pci. Ha certamente contribuito a ridislocare il dibattito e le posizioni. Ha messo allo scoperto i limiti delle culture politiche della destra e della sinistra storiche, sovrapponendo ad esse una polarizzazione inedita fra innovazione e tradizione. Se una cosa è servito a dimostrare il dibattito sviluppatosi in base a questa polarizzazione, è che l'innovazione, pur non essendo un bene in sé, quando reclamata dalla realtà è l'unico modo per tentare di governarla senza restarne in balìa. Ma ha anche cominciato a chiarire che quella proposta da Occhetto non è affatto l'unica innovazione possibile, la sola via d'uscita dal togliattismo.
La polarizzazione creata dalla svolta ha determinato una situazione nuova e contraddittoria, nella dislocazione delle forze interne al partito [83]. Da una parte, ha svuotato il ruolo tradizionale del centro, nella misura in cui i fautori e gli avversari dell'innovazione si sono coalizzati a prescindere dalle divisioni culturali e programmatiche che erano state sempre rappresentate dal riferimento a una destra e a una sinistra. D'altra parte, il centro del partito, assumendosi l'iniziativa dell'innovazione, ha espresso forse il massimo di temperamento della sua storia recente, perché si è fatto direttamente promotore di cultura politica. A cagione di questa situazione, la dislocazione delle forze del nuovo partito è rimasta assai fluida, e ancora non si può considerare definita. Dopo una lunga fase in cui le opposizioni si erano manifestate essenzialmente come istanze di conservazione, diverse forze hanno cominciato a misurarsi con la sfida di opporre innovazione a innovazione, e le stesse culture politiche tradizionali del partito hanno finito per essere incalzate dalla sfida.

5. Per un post-togliattismo di sinistra.
Quanto detto fin qui non deve far concludere che le culture della destra e della sinistra del vecchio Pci si siano dissolte nel Pds. Piuttosto, esse si sono trasformate e rese più autonome, ma non fino al punto di rompere con l'impianto togliattiano. Quando con esso sono state costrette a fare i conti dalla svolta, i presupposti e l'originalità della loro stessa cultura sono stati messi seriamente a rischio. Perciò si può parlare di una crisi (che non è necessariamente dissoluzione) del togliattismo di destra e di sinistra così come si era storicamente composto nell'amendolismo e nell'ingraismo. A quanto sembra, essi hanno scelto la strada del "revisionismo" nei confronti della tradizione. In definitiva, il loro sforzo è ancora quello di dar risposta alle rinnovate difficoltà del togliattismo, che già avevano avuto il merito di intuire negli anni Sessanta: da una parte la questione dello sbocco di governo e dei rapporti a sinistra e dall'altra le novità del conflitto e delle soggettività sociali. In tal modo, però, tanto l'amendolismo quanto l'ingraismo sembrano parimenti disarmati di fronte alle novità epocali di questa fine di secolo, esponendosi al rischio di disperdere la stessa funzione innovativa che avevano svolto in passato. Sarebbe davvero bizzarro se, dopo che il togliattismo era andato oltre le culture della seconda e della terza Internazionale, i suoi discendenti facessero il percorso inverso, uscendo da dove si era entrati.
Innanzitutto, è un fatto evidente che l'ingraismo si trova dinanzi a un giro di boa della sua notevole storia. E' una storia che, come abbiamo visto, affonda le sue radici nella cultura togliattiana, che ha sempre cercato di far progredire [84]. Basti pensare al rapporto che ha stabilito con il pensiero e la prassi dei "nuovi soggetti", alla critica pionieristica dell'industrialismo e dello statalismo, alla sollecitudine verso le problematiche più inesplorate dal movimento operaio tradizionale, a cominciare dalla non violenza. Fino a un certo punto, l'ingraismo ha anche anticipato e ispirato i momenti più vitali della vicenda del Pci degli ultimi decenni, compresa quella linea di ricerca sulla terza via che Berlinguer fece propria negli ultimi anni della sua vita [85]. Anzi, si può dire che se in un'altra congiuntura la sua influenza avesse avuto maggiore successo, l'ipotesi di una rifondazione comunista - uscita sconfitta al XX Congresso - avrebbe oggi ben altra credibilità e ben altre prospettive.
L'ingraismo ha avuto, ha ancora un grande fascino e una grande forza. Il fascino è dato dalla concezione profondamente etica della politica, dall'inclinazione verso ciò che si muove nella società, verso i deboli, e dall'"estrema curiosità verso gli altri, verso le diversità" [86]. La sua forza sta nel fatto che, nonostante tutto, non si è mai annullato nelle culture diverse, bensì le ha captate nel proprio paradigma, forse più di quanto avesse saputo fare lo stesso togliattismo. Si tratta, insomma, del meglio della tradizione comunista italiana. Ma pur sempre di un suo pezzo. Preso a sé, l'ingraismo conserva molto del suo fascino, ma perde molta della sua forza e mostra diversi limiti.
Rispetto alla formazione ideologica togliattiana l'ingraismo, in ultima analisi, è uno stiramento umanistico. Si tratta di una strada teorica che è stata certamente innovativa - in una certa misura, gramsciana - nei confronti della tradizione marxista economicista, comune alla seconda e alla terza Internazionale. E' un po' la stessa strada che ha preso la ricerca di tutto il marxismo occidentale di questo secolo (dal giovane Lukacs a Korsch, dalla Scuola di Francoforte all'operaismo). In sostanza, si tratta di un orientamento che - ricollegandosi alla cosiddetta "corrente calda" del marxismo - si contraddistingue per un soggettivismo teorico separato di fatto dall'analisi scientifica del modo di produzione, nel senso che separa il contenuto dalla forma della critica marxiana [87]. L'affinità dell'ingraismo con questo filone di pensiero risulta evidente dalla sua interpretazione della modernità. Da una parte, il capitalismo è inteso come lo stato di alienazione dell'essenza umana, come il dominio delle cose sugli uomini [88]. Dall'altra parte, l'antagonismo è prerogativa di un soggetto dall'identità e l'attività autonome, dall'"alterità radicale" [89]. Ne deriva una rappresentazione strategica della storia, difficilmente separabile dal "mito dell'Origine", cioé dal presupposto di un legame sociale umano da ristabilire [90].
Abbiamo detto che l'ingraismo dice addio all'economicismo, cioè alla concezione strumentalista e neutrale delle forze produttive. Bisogna aggiungere che esso - a differenza di tutte le culture politiche di impianto togliattiano - è lontano anni luce dal crollismo terzinternazionalista (il quale nega al capitalismo l'ulteriore capacità di sviluppare le forze produttive), ma non per questo cade dalla padella nella brace dell'evoluzionismo secondinternazionalista (il quale confida che lo sviluppo capitalistico porti automaticamente al socialismo). A queste forme di economicismo l'ingraismo contrappone una concezione soggettivista delle forze produttive. Queste appaiono - ancor più che una "cosa" - un "soggetto", la cui logica è il comando sull'"energia psichica e la capacità mentale" del lavoratore e il cui scopo è la dissoluzione, la frantumazione, la neutralizzazione dei soggetti antagonistici [91]. Insomma, il rischio è che così si prenda atto dello sviluppo delle forze produttive per demonizzarlo. Ecco perché l'ingraismo - differentemente, ad esempio, dall'ultimo Berlinguer - della modernizzazione non coglie tanto le potenzialità, gli spazi di emancipazione, quanto i pericoli. Lo stesso modello di democrazia partecipativa, con cui l'ingraismo ha dato il suo contributo più importante alla cultura politica del Pci, risulta imperniata tutta sull'autoattività dei soggetti e perciò in fin dei conti è inerme e difensiva di fronte ai processi reali di trasformazione.
Non stupisce allora che la prospettiva ingraiana di "fuoriuscita" dal capitalismo, del tutto infondata, si concreti in un conflittualismo esasperato e vittimistico e finisca per configurarsi come un fiero ritorno al comunismo utopistico. Non a caso l'idea di socialismo che consegue da questa impostazione predilige il "movimento reale" che abolisce lo stato di cose esistenti. Il suo "orizzonte comunista" (per usare l'espressione avveduta di C. Luporini) non ha mai fatto affidamento sul modello sovietico, di cui l'ingraismo è stato critico assai radicale e precursore, ma sui soggetti che si sottraggono alla modalità del dominio: il partito-comunità, la classe operaia, il Sessantotto, i "nuovi soggetti", i diseredati del Terzo mondo. Così si capisce cosa ci sia di vero, fra tante banalità, nell'accusa di movimentismo che sovente viene rivolta all'ingraismo. La strategia dell'ingraismo è una strategia dell'avanzata - che è nello stesso tempo, togliattianamente, "di posizione" - perché è inscindibile dalla prassi, dall'"agire collettivo" dei soggetti [92]. Certo, gli arretramenti e l'omologazione dei soggetti sono possibili, ma soloin via episodica, perché la "sofferenza" imposta dalla razionalità sistemica prima o poi farà emergere nuove soggettività, differenze non omologabili, bisogni non mercificabili. Infatti, la forma post-togliattiana dell'ingraismo è sintetizzato nel tema dei "beni non mercificabili", nell'idea per cui il comunismo è "l'orizzonte in cui questa domanda di beni può trovare una lettura e un itinerario, un percorso di risposta" [93].
Così, però, l'ingraismo non solo non contribuisce all'elaborazione di una nuova cultura politica di sinistra per il Pds, ma rischia di vanificare le stesse prerogative della sua nobile discendenza togliattiana. Dal suo punto di vista, B. de Giovanni ha ad esempio sostenuto che l'ingraismo, il quale negli anni Sessanta "era la cultura che più rompeva con la tradizione", oggi si sarebbe trasformato in "una cultura di conservazione", mentre sarebbe ormai la destra ad essere "portatrice della necessaria ventata d'aria nuova" [94]. Evidentemente, questo giudizio sull'ingraismo è un po' sbilanciato, ma ha qualche elemento di verità. Infatti, si deve riconoscere che, tutto sommato, il cosiddetto "fronte del no" alla svolta abbia finito per interpretare orientamenti conservatori. E l'ingraismo - nel momento in cui (quali che siano state le sue ragioni) si è opposto al cambiamento promosso da Occhetto ed è confluito nel contenitore degli oppositori - si è trovato suo malgrado ad accantonare alcuni dei suoi caratteri distintivi e ha ceduto forse per la prima volta l'iniziativa dell'innovazione. Ma non pare si possa dire che la destra abbia sostenuto meglio la sfida, nonostante la sua adesione convinta alla svolta occhettiana.
Il neoamendolismo - che coincide in larga misura con l'area cosiddetta"riformista" del Pds -, sembra oggi oscillare fra la contrazione nel tatticismo politico e la rivendicazione di un'astratta identità socialdemocratica, la cui crisi era stata colta così bene dall'ultimo Berlinguer e che è messa ormai in discussione dagli stessi partiti socialisti [95]. Che il suo impianto politico-culturale costituisca un depauperamento del togliattismo è palesato dal modo in cui si raccorda alla tradizione della seconda Internazionale, assunta in maniera alquanto acritica [96], e dalla sua lettura univoca di Togliatti come riformista integrale [97]. In continuità con il vecchio impianto togliattiano di destra, il neoamendolismo conserva la concezione strategica che insiste sul patto fra i produttori e sull'acquisizione di una cultura di governo, e che - personificata dal "modello emiliano" e dal tema meridionalista [98] - è la sua propria interpretazione della "funzione nazionale" del movimento operaio e della sinistra [99].
Questo legame originale con la tradizione si traduce anche in un atteggiamento critico nei confronti della cultura politica della svolta, atteggiamento che si è concretato sia in esplicita battaglia delle idee che in un tentativo parzialmente riuscito di condizionamento [100]. Infatti, se è vero che l'adesione della destra alla svolta affonda le sue radici nella riflessione pionieristica di G. Amendola (oltre che nell'ansia di liberarsi di ogni discendenza "antagonista"), è anche vero che essa non si attaglia proprio a questa svolta. In particolare, i riformisti contrastano con forza - direttamente o indirettamente - l'inclinazione dell'occhettismo verso una cultura politica radicale, più vicina alla tradizione liberal americana che a quella socialista europea [101]. Nello stesso modo, essi prendono le distanze da quello che abbiamo individuato come il fulcro della strategia occhettiana, la democratizzazione integrale (considerata a torto punto di giuntura con la sinistra del partito), alla quale viene contrapposta una concezione rigidamente procedurale e "capitalista" della democrazia [102]. E' interessante notare che le argomentazioni con cui vengono confutati gli assi in cui la strategia occhettiana si articola - la prospettiva anti-partitocratica e quella dei diritti di cittadinanza - fanno scorgere una apparente convergenza del neoamendolismo con punti non marginali della cultura politica della sinistra del partito, come l'ispirazione anti-élitaria e il legame con il mondo del lavoro [103].
Ma va subito aggiunto che, in realtà, l'orizzonte teorico-politico della destra e della sinistra del Pds rimangono fondamentalmente inconciliabili. Basti pensare alla nozione debole di socialismo usata dai neoamendoliani, che rimanda a un "insieme di fini e di valori inscindibili dallo sviluppo della democrazia; fini e valori da riformulare e da perseguire nel contesto di economie e società capitalistiche già profondamente trasformate, e più in generale nel contesto di un mondo sempre più interdipendente" [104]. Insomma, secondo quest'impostazione il capitalismo e il socialismo non sarebbero né alternativi né contraddittori, e anzi andrebbero sostituiti dai concetti di "democrazia" e "interdipendenza". Non è un caso che il principale obiettivo polemico della destra sia costantemente rappresentato dalle ipotesi della fuoriuscita dal capitalismo, di cui nega persino la legittimità della ricerca. In sostanza, quando alla "cultura dell'antagonismo" della sinistra essa oppone la "cultura di governo" allude alla necessità di accettare come intrascendibile il sistema economico-sociale capitalistico.
Certo, non si può dire che la cultura politica del neoamendolismo sia indifferente al nuovo, né che costituisca un blocco omogeneo. C'è, ad esempio, una discrepanza generazionale: si pensi, da una parte, all'impianto classico (troppo lontano dal radicalismo occhettiano) che possiede la riflessione di alcuni "grandi vecchi" [105], e, dall'altra, agli aggiornamenti tentati da alcuni "giovani" in direzione di un "socialismo liberale ed efficiente" [106]. Nell'essenziale, però, la riflessione di quest'area rimane ancorata al nucleo della cultura politica della destra togliattiana [107]. Anche se poi il rapporto che i riformisti stabiliscono fra questa riflessione e la prassi politica solleva il dubbio che a distinguerli dalle altre componenti e a legarli alla tradizione in ultima istanza sia soltanto il loro moderatismo. Infatti, così come è avvenuto alla sinistra, una volta amputato il legame con la carica trasformatrice della cultura comunista, anche la cultura della destra rimane molto impoverita.
Inevitabilmente, quando si pensa alla destra e alla sinistra del vecchio Pci, si è indotti a vederli come le due facce della stessa medaglia, che poi è il togliattismo. Ciò vale anche per coloro i quali, nel Pds, si ricollegano a quelle culture politiche, ormai irrimediabilmente lontane... Eppure, di ben diversa portata sono gli sviluppi recenti dell'amendolismo e dell'ingraismo. Quel che serve al Pds è una cultura politica post-togliattiana, ma che - a differenza di quella che hanno proposto i fautori della svolta - sia di sinistra.  Se la nostra ricostruzione ha fondamento, la destra e la sinistra del vecchio Pci non sono in grado di produrla, se non rinunciando al nocciolo del loro patrimonio. Certo, nell'ingraismo, anche se non solo in esso, c'è molto materiale per una nuova cultura politica. Ma la ricerca abbisogna di un nucleo diverso, veramente al di là della tradizione togliattiana. Dei primi contributi in questa direzione sono venuti già prima della costituzione del Pds. Sono contributi che si definiscono ancora essenzialmente come risposta all'innovazione occhettiana, ma che si collocano anch'essi sulla linea di un "nuovo inizio".
Il contributo più importante è quello portato dalla formazione dell'area della Sinistra del Pds, corrispondente alla mozione presentata da A. Bassolino al XX Congresso. Naturalmente, anche in questo caso si tratta di una ricerca aperta e problematica. Per ora, quel che è interessante è l'intento di riprendere - rispetto alla piattaforma occhettiana - l'altro filo della riflessione matura di Berlinguer: il tema della terza via. Abbiamo così una definizione strategica della diversità e della riforma della politica, alla luce della quale la presa di distanza dal togliattismo e dalla socialdemocrazia e il comunismo storici non coincide con la rinuncia alla prospettiva del superamento del capitalismo. Infatti, il tentativo ambizioso è quello di fondare una cultura politica ricca, che - come aveva saputo fare a suo modo il togliattismo - dia fondamento a un'identità realista e critica, capace di stare "dentro e fuori". In questo senso la Sinistra ha proposto di dar vita, dopo il Pci, a un "moderno partito antagonista e riformatore".
Il ragionamento su cui si basa, in questo quadro, una moderna cultura riformatrice riparte dal tema del rapporto fra modernizzazione e riforme, su cui - abbiamo visto - aveva cozzato la cultura politica togliattiana [108]. La nuova Sinistra del Pds ha una visione non univoca della modernizzazione: si tratta di un processo oggettivo, né da demonizzare né da contemplare acriticamente, ma aperto a esiti alternativi, suscettibile di prendere il "segno" delle classi in lotta [109]. La verifica di quest'approccio viene effettuata, non a caso, nelle trasformazioni che sono in corso nell'impresa capitalistica dopo la fine del ciclo fordista-taylorista [110]. Infatti, il riformismo di cui è promotrice la Sinistra del Pds è fortemente radicato nella realtà del mondo del lavoro [111]. In tre sensi. Innanzitutto, la ricognizione critica dei rapporti sociali e della dinamica del capitalismo si basa sulla centralità della forma-lavoro, piuttosto che sulla centralità dell'impresa, sull'analisi dei processi lavorativi, piuttosto che sugli imperativi della concorrenza (o, all'inverso, sulle suggestioni della mercificazione) [112]. In secondo luogo, la necessità di impiantare anche in Italia (così come nelle moderne società industriali governate dal riformismo socialdemocratico) un movimento operaio che sia soggetto politico moderno e autonomo viene condizionato alla critica del concetto - tipico della tradizione togliattiana - di interesse generale e all'elaborazione di una cultura "di parte" [113]. Infine, si stabilisce un nesso strategico fra conflitto sociale e lotta politica, che segna l'approccio sia descrittivo che prescrittivo dell'area Bassolino [114]. In particolare, quest'approccio dà corpo a un'idea dell'alternativa politica intesa come processo eminentemente sociale, come sbocco dell'allestimento del programma e del protagonismo sociale, di una rottura degli equilibri politici e sociali esistenti [115].
La strategia politica della nuova Sinistra del Pds è imperniata sul tema della democratizzazione. La sua accezione però - a differenza dell'impostazione occhettiana - non è di tipo radicale, né circoscritta in un orizzonte liberaldemocratico, come ben illustra l'idea forza della "pratica critica" della democrazia, con cui la categoria viene spurgata da ogni connotato di neutralità e autonomia [116]. Vale a dire che la democrazia non è ricondotta al capitalismo né contenuta nel proceduralismo, ma viene intesa come un "processo mai compiuto", che la sinistra deve guidare "oltre i suoi attuali approdi e i suoi confini" [117]. In altre parole, essa si qualifica e trasforma in funzione dei processi sociali, a partire dalle conquiste di spazi di autogoverno ("diritti e poteri") nel mondo del lavoro e "in tutte le istanze della vita quotidiana" [118]. Non si tratta - si badi bene - della riproposizione della democrazia sostanziale, perché il principio procedurale non viene ricusato, ma fatto valere anche nei luoghi in cui si producono i rapporti sociali. Inoltre, il destinatario di quest'idea di democratizzazione non è un corpo sociale organico, bensì l'individuo moderno, con le sue determinazioni sessuali e sociali.
Questa della Sinistra non è una strategia anti-partitocratica e della cittadinanza. Infatti, essa da una parte non consente al sottofondo élitario e riduzionistico della critica ai partiti e dall'altra non si accontenta di una prospettiva di pari opportunità per una società diseguale. Tuttavia, per un verso, la strategia dell'area Bassolino assume il dato della degenerazione del sistema politico italiano per proporre una vera e propria riforma intellettuale e morale del paese, che non costituisca il ritorno improbabile a un sistema liberale-notabiliare, bensì riavvii la democrazia popolare alla conquista di spazi di autogoverno e di controllo dell'economia. Per un altro verso, tale strategia assume il tema dahrendorfiano delle life chances come imbastitura di un progetto di riforma della divisione sociale e sessuale del lavoro, a cominciare dalla riforma dei tempi e degli orari [119].
E' chiaro, a questo punto, che nella cultura politica dell'area Bassolino il riformismo si coniuga indissolubilmente con l'antagonismo. Ed è chiaro che vuol trattarsi di un nuovo antagonismo, differente da quello che si è denominato storicamente "comunismo". Qui c'è la ripresa esplicita della riflessione berlingueriana sulla "terza fase del movimento operaio" e sul "nuovo socialismo europeo" [120]. E c'è l'intento anch'esso berlingueriano di innovare rispetto alle culture comunista e socialdemocratica, ma restando nell'alveo della tradizione socialista. Non si tratta di una contraddizione, perché consente di non far andare dispersi, ma anzi di dare importanti svolgimenti ai concetti di capitalismo e di socialismo. In pratica, l'idea del socialismo - dopo aver tagliato i ponti con qualsiasi approccio modellistico - non è ridotta né a etica né a utopia, e tanto meno è vagheggiata come "movimento reale", ma si configura marxianamente come "critica materiale" [121]. Così, il superamento del capitalismo come sistema economico-sociale non è né un'impossibilità ontologica né un esito necessitato, bensì una possibilità presente nelle sue stesse contraddizioni oggettive [122]. [Torna a Inizio pagina ]

NOTE
[1 ] Un esempio tipico di quel che è avvenuto nella cultura sovietica è il libro di A. Tsipko, Le radici della perestrojka. Dimenticare Marx , Ponte alle Grazie, Firenze, 1990.
[2]  Per la posizione di destra, cfr. G. Bocca, Palmiro Togliatti , Laterza, Bari, 1973 ; per la posizione di sinistra, cfr. A. Mangano, "Il togliattismo, una 'revisione' originale", Politica comunista , n. 1, 1976, pp. 51-56, e Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi , in W. Peruzzi (a cura di), Il revisionismo. Dossier dei comunisti cinesi: sulle divergenze con Kruscev, Togliatti, Breznev , Bertani, Verona, 1972.
[3]  Cfr. L. Maitan, Teoria e politica comunista nel dopoguerra , Schwarz, Milano, 1959.
[4] Cfr. gli atti del convegno di Milano del Pdup (9-11 maggio1975), raccolti in Aa. Vv., Da Togliatti alla nuova sinistra , Alfani, Roma,1977.
[5]  Cfr. G. Lehner, Palmiro Togliatti. Biografia di un vero stalinista , SugarCo, Milano, 1990.
[6]  Cfr. F. Ferrarotti, Colloquio con Lukacs. La ricerca sociologica e il marxismo , Angeli, Milano, 1975, p. 16, e i giudizi del lukacsiano C. Preve, La teoria in pezzi , Dedalo, Bari, 1984, p. 12.
[7]  Cfr. L. Althusser, Umanesimo e marxismo. I fondamenti teorici della deviazione staliniana , De Donato, Bari, 1973.
[8]  Cfr. P. Spriano, Marxismo e storicismo in Togliatti , in Aa.Vv., Storia del marxismo , vol. III, t. 2, Einaudi, Torino, 1981.
[9]  Poco importa se poi la doppiezza venga interpretata come un'impostura verso l'esterno (come fa ad esempio L. Pellicani, di cui cfr. Gramsci, Togliatti e il PCI , Armando, Roma, 1990) o come una remora verso l'interno (come fa ad esempio L. Canfora, di cui cfr. La crisi dell'Est e il PCI , Dedalo, Bari, 1990).
[10]  Cfr. R. Rossanda, I limiti della democrazia progressiva , in Aa. Vv., Da Togliatti alla nuova sinistra , cit., pp. 264-278.
[11]  Cfr. M. L. Salvadori, "Il fondamento unitario della doppiezza di Togliatti", l'Avanti! , 10 marzo 1991.
[12]  Cfr. P. Di Loreto, Alle origini della crisi del Pci: Togliatti e il legame di ferro , Editrice universitaria, Roma, 1988.
[13]  Cfr. L. Cafagna, "La strategia dell'obesità", Micromega , n. 5, 1990.
[14]  Cfr. G. Vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista , De Donato, Bari, 1974.
[15]  Cfr. L. Magri, Relazione , in Aa. Vv., Da Togliatti alla nuova sinistra , cit.
[16]  Cfr. F. Sbarberi, Sulla democrazia e sulla politica delle alleanze in Togliatti , in A. Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico , Angeli, Milano, 1986.
[17]  Sul "principio di separatezza", cfr. M. L. Salvadori, art. cit.
[18]  Cfr.  Cfr. D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo , Einaudi, Torino, 1980, e A. Cantaro, "Il Pci e il programma fondamentale", Critica marxista , n. 3, 1990.
[19]  Cfr. L. Paggi, M. D'Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo , Einaudi, Torino, 1986.
[20]  Cfr. S. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno , Einaudi, Torino, 1972.
[21]  I teorici che maggiormente hanno contribuito a quest'impianto analitico sono stati A. Pesenti ed E. Sereni, di cui cfr. il classico Vecchio e nuovo nelle campagne italiane , Ed. Riuniti, Roma, 1956.
[22]  V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo , trad. it. di F. Platone, Ed. Rinascita, Roma, 1956, p. 110.
[23]  B. de Giovanni ha messo ben in evidenza la distanza fra gli approcci al tema del "capitalismo organizzato" del Gramsci di Americanismo e fordismo e del Togliatti di un articolo del 1929. Cfr. B. de Giovanni, La nottola di Minerva , Ed. Riuniti, Roma, 1989, pp. 31 ss.
[24]  Cfr. F. Sbarberi, I comunisti italiani e lo stato: 1929/1945 , Feltrinelli, Milano, 1980.
[25]  Cfr. L. Paggi, M. D'Angelillo, op. cit.
[26]  Cfr. G. C. Marino, Autoritratto del Pci staliniano , Ed. Riuniti, Roma, 1990.
[27]  Sul sistema di valori socialdemocratico, cfr. F. Parkin, Disuguaglianza di classe e ordinamento politico , Einaudi, Torino, 1976.
[28]   Su ciò ha molto insistito A. Natta (Il partito nuovo, in Aa. Vv., Il pensiero e l'opera di Palmiro Togliatti , Ed. Riuniti, Roma, 1984).
[29]  Cfr. M. Calise, Militanti e partito nel Mezzogiorno , in A. Accornero, R. Mannheimer, C. Sebastiani (a cura di), L'identità comunista , Ed. Riuniti, Roma, 1983.
[30]  Cfr. la sua principale opera: G. della Volpe, Logica come scienza storica , Ed. Riuniti, Roma, 1969.
[31]  Cfr. R. Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia , a cura di D. Lanzardo, Sapere, Milano, 1972. Sulla continuità fra il dellavolpismo e l'operaismo di Panzieri, cfr. M. Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra , Dedalo, Bari, 1977.
[32]  Cfr. R. Panzieri, Gramsci e il "punto meno importante" , in S. Merli (a cura di), Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956-1959 , Marsilio, Venezia, 1986.
[33]  Cfr. F. Onofri, Socialismo e potere , Comunità, Milano,1963.
[34]  Manca una qualsiasi riflessione sulla straordinaria vicenda politica ed intellettuale di Onofri, così come sulla sua rivista Tempi moderni , che ha svolto una funzione fondamentale di modernizzazione culturale (stupisce che l'ignori, nel suo Profilo ideologico del '900 , anche N. Bobbio, che ne fu tra i principali animatori).
[35]  Cfr. N. Badaloni, Il marxismo italiano degli anni sessanta , Ed. Riuniti, Roma, 1971.
[36]  Cfr. L. Colletti, Intervista politico-filosofica , Laterza, Bari, 1975.
[37]  Cfr. P. Ingrao, Le cose impossibili , Ed. Riuniti, Roma, 1990, p. 125. Cfr. anche la valutazione svolta a suo tempo da G. Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano, 1959-1969 , De Donato, Bari, 1972.
[38]  Cfr. F. Cassano (a cura di), Marxismo e filosofia in Italia (1958-1971) , De Donato, Bari, 1973, e Aa. Vv., Tendenze del capitalismo italiano , Ed. Riuniti, Roma, 1962.
[39]  Naturalmente, molti - compresi Amendola e Ingrao - hanno negato che si possa parlare di "amendolismo" e "ingraismo", invocando l'assenza di un corpus teorico e di una schiera di seguaci organici e rigidi.
[40]  Di parere differente è F. Livorsi, che in un recente articolo ha voluto attribuire al "longhismo" - ai suoi presunti caratteri movimentisti e sessantottini, ostili all'Occidente e agli USA, nonché alla socialdemocrazia - uno status autonomo dal togliattismo, rintracciando in esso il vero modello di Berlinguer, di Natta e di Occhetto. Cfr. F.Livorsi, "Ma Occhetto non è figlio di Togliatti", l'Avanti! , 14marzo 1991.
[41]  Cfr. E. Macaluso, Togliatti e i suoi eredi , Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 1988, p. 116.
[42]  Cfr. B. de Giovanni, op. cit. , p. 61 ss.
[43]  Cfr., ad esempio, A. Natta, "Via italiana, via democratica", Rinascita , n. 8, 9 marzo 1985.
[44]  Cfr. la relazione di A. Asor Rosa, Dal compromesso storico all'alternativa (Roma, 9 gennaio 1991), mimeo.
[45]  Cfr. G. Vacca, Tra compromesso e solidarietà , Ed. Riuniti, Roma, 1987.
[46]  E. Galli della Loggia, "La crisi del togliattismo", Mondoperaio , n. 6, giugno 1978 (ora in Aa. Vv., Le ceneri di Togliatti , Lucarini, Roma, 1991, p. 13).
[47]  Cfr. M. Tronti, "Sulla categoria politica della diversità", Critica marxista , n. 2-3, 1985.
[48]  Cfr. L. Lama, Intervista sul mio partito , a cura di G. Pansa, Laterza, Roma-Bari, 1987.
[49]  Cfr. l'intervista a cura di F. Adornato, "La sinistra verso il duemila", l'Unità , 18 dicembre 1983.
[50]  A. Asor Rosa, "Dal compromesso storico all'alternativa", relaz. cit.
[51]  Cfr. G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica , Ed. Riuniti, Roma, 1986.
[52]  Cfr. A. Asor Rosa, "La cultura politica del compromesso storico", Laboratorio politico , n. 2-3, 1982.
[53]  Lo ha rilevato da ultimo P. Franchi, "Quella strana voglia di cancellar la storia", Micromega , n. 5, 1990.
[54]  Cfr., ad es., R. La Valle, "Per un'etica della liberazione", in Aa. Vv., Berlinguer oggi , supplemento di Rinascita , n. 22, 6 giugno 1987.
[55]  Cfr. N. Badaloni, "Una difficile lotta per riavviare il progresso umano", Critica marxista , n. 2-3, 1985.
[56]  P. Flores d'Arcais, Oltre il Pci. Per un partito libertario e riformista , Marietti, Genova, 1990, p. 87.
[57]  L'altro testo chiave, considerato sovente il testamento dell'ultimo Berlinguer, è: E. Berlinguer, "Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci", Rinascita , n. 48, 4 dicembre 1981.
[58]  E. Berlinguer, Prefazione a P. Togliatti, Discorsi parlamentari , Segreteria generale-Ufficio stampa e pubblicazioni della Camera dei deputati, Roma, 1984.
[59]  Ibid .
[60]  Cfr. B. de Giovanni, op. cit.
[61]  A. Occhetto, "Compromesso storico e alternativa democratica", Critica marxista , n. 2-3, 1985, pp. 155 e 156.
[62]  E. Berlinguer, Prefazione a P. Togliatti, op. cit.
[63]  Cfr. M. L. Salvadori, Storia del pensiero comunista. Da Lenin alla crisi dell'internazionalismo , Mondadori, Milano, 1984, pp. 683 ss.
[64]  Cfr. L. Colletti e M. L. Salvadori in Il socialismo diviso , dibattito a cura di P. Mieli, Laterza, Bari, 1978.
[65]  Cfr. E. Berlinguer, "L'iniziativa del Pci in Europa e nel mondo per il disarmo e la pace", conclusioni al Consiglio nazionale (3 aprile), l'Unità , 5 aprile 1980.
[66]  E. Berlinguer, "La sinistra verso il duemila", interv. cit.
[67]  Cfr. D. Sassoon, Oriente e Occidente , in Aa. Vv., Berlinguer oggi , cit., pp. 125-126.
[68]  Cfr. S. Andriani, Dall'austerità al decreto di San Valentino , in Aa. Vv., Berlinguer oggi , cit., p. 109.
[69]  E. Berlinguer, "La sinistra verso il duemila", interv. cit.
[70]  "Dove va il Pci? Intervista a Berlinguer", a cura di E. Scalfari, la Repubblica , 28 luglio 1981.
[71]  E. Berlinguer, "Prospettive di trasformazione e specificità comunista in Italia", Critica marxista , n. 2, 1981.
[72]  Ibid .
[73]  Si confronti l'intervista sul 60° anniversario del Pci, che è sulla linea diversità-terza via ("Prospettive di trasformazione e specificità comunista in Italia", cit.), con l'introduzione al "Contemporaneo" dedicato a "Partito e società nella realtà degli anni '80", che è sulla linea diversità-questione morale ("Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci", cit.).
[74]  P. Flores d'Arcais, "Bravi, né comunisti né socialisti", l'Unità , 12 ottobre 1990.
[75]  U. Curi, "Sistema politico e fattore Pds", Lettera sulla Cosa , 4 gennaio 1991.
[76]  A. Asor Rosa, "Dal compromesso storico all'alternativa", relaz. cit.
[77]  N. Bobbio, "Un passo oltre il comunismo storico", l'Unità , 25 gennaio 1990.
[78]  Cfr. P. Flores d'Arcais, "Idee per le Tesi", Lettera sulla Cosa , 4 gennaio 1991.
[79]  Cfr. R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo , Laterza, Bari, 1989.
[80]  Cfr. A. Occhetto, Discorso conclusivo alla Conferenza programmatica del Pci (Roma, 1990), Critica marxista , n. 5-6, 1990.
[81]  U. Curi, Lo scudo di Achille. Il Pci nella Grande Crisi , Angeli, Milano, 1990, p. 20.
[82]  Ibid.
[83]  Cfr. A. Di Lellio, N. Magna, "Il partito nuovo. Un sondaggio tra i delegati all'ultimo congresso del Pci", Politica ed Economia , n.6, 1991.
[84]  Cfr., ad es., P. Ingrao, "Fin dove arrivò Togliatti", l'Unità , 27 febbraio 1988 (ora in P. Ingrao, Interventi sul campo , Cuen, Napoli, 1990, pp. 67-73).
[85]  In questo senso, cfr. l'importante saggio di P. Ingrao, Tradizione e progetto , De Donato, Bari, 1982.
[86]  P. Ingrao, Le cose impossibili. Un'autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia , Ed. Riuniti, Roma, 1990, p. 133.
[87]  A questo proposito, è sintomatico l'esito della riflessione di C. Napoleoni, di cui cfr. Discorso sull'economia politica , Boringhieri, Torino, 1985, e Cercate ancora , Ed. Riuniti, Roma, 1990.
[88]  Cfr. P. Barcellona, L'egoismo maturo e la follia del capitale , Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
[89]  Cfr. F. Bertinotti, "Una rifondazione necessaria", Il Passaggio , n. 4-5, 1990.
[90]  Cfr. P. Barcellona, Il ritorno del legame sociale , Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
[91]  Cfr. P. Barcellona, Il capitale come puro spirito , Ed. Riuniti, Roma, 1990.
[92]  Cfr. P. Ingrao, "Agire collettivo: ieri e oggi", contenuto nel suo Interventi sul campo , cit., pp. 61-66.
[93]  Interventi di P. Ingrao nella tavola rotonda "Tre vite, una svolta", Rinascita , n. 1, 11 febbraio 1990, p. 44.
[94]  B. de Giovanni, "E' riformismo, non la destra", intervista a cura di T. Bartoli, Il Mattino , 4 dicembre 1990 (ora in Aa. Vv., Noi riformisti... , cit., pp. 108-109).
[95]  La piattaforma politica e culturale dell'area è contenuta nella raccolta di scritti: Aa. Vv., Noi riformisti. Per una cultura di governo della sinistra , Cuen, Napoli, 1990.
[96]  Cfr., ad es., R. Villari, "Le utopie pericolose", intervista a cura di L. Paolozzi, l'Unità , 10 dicembre 1989 (ora in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 337-341).
[97]  Cfr., in particolare, G. Napolitano, "La riassunzione critica della tradizione riformista", Critica marxista , n. 4-5, 1984 (ora in Aa.Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 211-223).
[98]  Cfr. S. Biasco, "Il riformismo per l'interdipendenza", intervista a cura di B. Gravagnuolo, Rinascita , n. 43, 9 dicembre 1990, e B. de Giovanni, "Il meridionalismo ribellista rischia l'involuzione plebea", l'Unità , 31 agosto 1990 (ora entrambi in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., rispettivamente alle pp. 19-33 e 101-105).
[99]  Cfr. il documento precongressuale "Perché aderiamo alla mozione Occhetto" (in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 357-360).
[100]  Questo atteggiamento è illustrato dagli interventi di G. Napolitano, "L'impegno dell'area riformista per il partito democratico della sinistra", e di U. Minopoli, "Noi, fastidiosi riformisti" (entrambi raccolti in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., rispettivamente alle pp. 233-246 e 193-195).
[101]  Cfr., tra gli altri, C. Pinzani, "La fuoriuscita dal comunismo", in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 255-261.
[102]  Cfr. A. Barbera, "Attenti a porre aggettivi alla democrazia", Lettera sulla Cosa , 9 novembre 1990, e B. de Giovanni, "Non conosco democrazia al di fuori del capitalismo", l'Unità , 3 agosto 1990 (ora entrambi in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 15-18 e 85-89).
[103]  Cfr. il saggio di E. Morando, "Prime ipotesi sul nuovo partito", Il Ponte , n. 7, 1990 (ora in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., pp. 197-210).
[104]  G. Napolitano, "Il socialismo del futuro", Il socialismo del futuro , n. 1, 1990, p. 98.
[105]  Cfr. P. Bufalini, G. Chiaromonte, "Per una nuova forza della sinistra", l'Unità , 14 gennaio 1990 (ora in Aa. Vv., Noi riformisti ...,cit., pp. 53-58), e il bel libro di G. Chiaromonte, Col senno di poi , Ed.Riuniti, Roma, 1990.
[106]  U. Minopoli, U. Ranieri, "Perché non possiamo non dirci socialdemocratici", Critica marxista , n. 1, 1990 (ora in Aa. Vv., Noi riformisti ..., cit., p. 177).
[107]  Cfr. il bilancio dell'amendolismo tratto da U. Minopoli e U. Ranieri nel saggio "Il riformismo dopo il Pci", Micromega , n. 1, 1991.
[108]  Cfr. la relazione di L. Paggi, "Riformismo italiano, riformismo europeo" (Roma, 9 gennaio 1991), mimeo.
[109]  Cfr. A. Bassolino, Relazione introduttiva alla Conferenza programmatica del Pci (Roma, 1990), Critica marxista , n. 5-6, 1990.
[110]  A. Bassolino, Relazione alla Conferenza nazionale sulla Fiat, Torino, 22-23 giugno 1990, mimeo.
[111]  Cfr. M. Tronti, "La forza è nel mondo del lavoro", Rinascita , n. 23, 15 luglio 1990.
[112]  Cfr. la relazione di L. Salemme, "Dalla centralità dell'impresa alla centralità del lavoro", pubblicata in questo stesso fascicolo di Asterischi .
[113]  Cfr. L. Paggi, "Riformismo italiano, riformismo europeo", relaz. cit.
[114]  Cfr. A. Asor Rosa, "Una democrazia conflittuale", Rinascita , n. 30, 9 settembre 1990.
[115]  Cfr. A. Asor Rosa, "Dal compromesso storico all'alternativa", relaz. cit.
[116]  Cfr. il testo della mozione presentata al XX Congresso del Pci da A. Bassolino, A. Asor Rosa, A. Minucci e altri: Per un moderno partito antagonista e riformatore , mimeo.
[117]  Idee e proposte per il programma, a cura dell'Ufficio del programma del Pci diretto da A. Bassolino, Rinascita , n. 31, 16 settembre1990.
[118]  A. Bassolino, I programmi dei partiti della sinistra europea e la nostra elaborazione programmatica , relazione al seminario del 18 giugno1990, mimeo.
[119]  Cfr. A. Bassolino, Relazione introduttiva alla Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori del Pci, Roma, marzo 1988, mimeo.
[120]  Cfr. la mozione Per un moderno partito antagonista e riformatore , cit.
[121]  Cfr. Ibid .
[122]  Cfr. M. Tronti, "L'idea di socialismo: che ne resta", Rinascita , n. 21, 1 luglio 1990, p. 35.

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80 anni dalla fondazione del PCI (il manifesto, speciale, 21.01.2001)

Luigi Pintor: 80 anni

Suppongo che non fosse facile decidere che cosa fare, nel 1921, avendo alle spalle la macelleria della guerra europea e di fronte la violenza incombente dei fascismi. Ma c'era in piedi, in un grande paese feudale, una rivoluzione di operai e contadini mai vista nella storia e così nacque anche un partito comunista italiano. Fu battezzato a Livorno ma era già nato a Torino. E' un merito dei nostri antenati, anche se oggi è considerato un errore. Noi, nel nostro tempo, non riusciamo a fare nulla di equivalente.
Finirono rapidamente in prigione o in esilio, la borghesia italiana sa essere sbrigativa contro le classi subalterne in generale. E vent'anni dopo (ma anche prima) la classe dirigente ricomincerà a guerreggiare fino alla nota catastrofe. Da ragazzino, in quegli anni, ho conosciuto un anarchico padre di un compagno di scuola ma non un comunista. Ne sentivo parlare perché bruciavano chiese spagnole ma erano fantasmi, di cui oggi si celebra l'ottantesimo compleanno.
Sbucarono a un certo punto dal nulla (ossia dalle carceri, dall'esilio, dalla clandestinità) e si moltiplicarono alla luce del sole. Adesso avevano alle spalle le bandiere rosse di Stalingrado, che arriveranno fino alla porta di Brandeburgo, ma si moltiplicarono per virtù propria, per avere a lungo e tragicamente combattuto.
Non so dare un giudizio storico e politico corretto su una vicenda che ha dominato il secolo e coinvolto mezza umanità. Continuo a pensare che sia stato il più grande tentativo mai compiuto di rovesciare l'ordine sociale che ha sempre retto il mondo e non mi spiego che un'impresa simile sia finita come risucchiata da un buco nero, apparentemente senza residui.
Mi sento però in grado di dare un giudizio sicuro sulla liberazione e la rifondazione democratica del paese in cui viviamo. E' in quel momento che i giovani di allora hanno incontrato i comunisti e l'antifascismo in generale, quello operaio e popolare in primo luogo. Nel bene e nel male, come sempre, ma nel bene in misura di gran lunga maggiore. Tuttavia, è proprio contro questo esito felice che l'anticomunismo (non il revisionismo, ma l'anticomunismo come maschera della reazione) ha compiuto la sua opera devastante.
Avere reciso questa radice, questa particolarità della storia nazionale, è la colpa imperdonabile dei nipotini e bisnipotini del 1921. E' la causa dello snervamento, dello smarrimento, dell'anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta: di essere un'autentica forza riformatrice e perciò rivoluzionaria.
Così oggi 1921 e 1945 sono numeri o poco più. Piccoli giornali e una limitata forza politica di opposizione ricordano il compleanno di un fantasma (come lo chiamano i giornali) mentre la sconfitta della sinistra vergognosa di sé bussa alla porta. Il comunismo è una parola, l'anticomunismo è l'insegna del potere. Il mondo sviluppato celebra i suoi fasti al plutonio e al latte sicuro, quello meno sviluppato è in via di estinzione. E' il capitalismo globale, signori.
Ma chi può dirlo? Forse questo mondo non è unificato quanto piuttosto dimezzato e storpio. Forse il fantasma che centocinquant'anni fa si aggirava in Europa oggi si aggira nell'aria in attesa di planare da qualche parte. Ha tempi lunghi, tempi ideali, quelli della "futura umanità" che cantavano gli antenati.

Gianpasquale Santomassimo: Nel cuore dell'anomalia italiana

Tutti sembrano ricordarlo solo per recriminare su ciò che non ha saputo diventare dopo morto, ma nei necrologi (perché di questo si tratta) bisognerebbe in primo luogo comprendere cosa è stato in vita.
Nato male e un po' per sbaglio nel gennaio 1921, da una scissione di minoranza che presto deluse anche i suoi artefici, seppe trovare la sua strada cammin facendo. Dopo quella falsa partenza, in tutto e per tutto interna alla tradizione della sinistra massimalista del socialismo italiano, volle quasi cancellare e trasfigurare le origini primitive e imbarazzanti, attestando la propria tradizione su un nuovo gruppo dirigente e su un nuovo inizio. Che rappresentò l'avvio di una abitudine interiore all'analisi della società italiana, di una lunga riflessione sulle proprie e altrui colpe nell'avvento del fascismo, e sulle strade da seguire per impedire che quell'esito si riproducesse. Anche a distanza di decenni, fino agli anni di Berlinguer, sarà una sorta di riflesso condizionato che spesso poteva apparire esagerato e raffrenante, ma che una volta rimosso e abbandonato ha messo a nudo tutta la leggerezza avventurosa di una recente infarinatura politologica che aveva azzerato la consapevolezza delle tendenze profonde di una società che non a caso aveva, prima al mondo, prodotto il fascismo.
Partito clandestino, di pochi e oscuri militanti, per sopravvivere istituì un legame di ferro con l'Urss mai messo in discussione, cornice naturale e obbligata all'interno della quale cercò e seppe trovare una sua indubbia originalità. Voi interpretate sempre, rimproverava aspramente Manuilskij negli anni del socialfascismo, non vi limitate ad eseguire una linea comune. Certo che interpretiamo, rispondeva Togliatti, non possiamo andare a raccontare agli operai italiani che Mussolini e Matteotti erano d'accordo.
In quegli anni i comunisti sono a livello clandestino l'unica forza organizzata non fascista presente nel mondo popolare italiano, accanto ai giellisti in ambito borghese (e ovviamente ai cattolici che clandestini non sono): il comunismo italiano ha già costituito una tradizione di avanguardie che nella formazione dei singoli si incrocia e si contamina, in una contaminazione benefica, con altre tradizioni. L'antifascismo diviene componente fondamentale del modo di essere dei comunisti e linguaggio comune della democrazia italiana. Ma tutto questo avviene in una condizione di evidente, marcato, isolamento rispetto alle tendenze di fondo della società.
Gli italiani scoprono improvvisamente, con grandi speranze e grandi timori ma mai con indifferenza, l'esistenza dei comunisti a partire dal 1943 e soprattutto dal 1944, con la svolta di Salerno e la costruzione di quel partito, "nuovo" e di massa, che diverrà una delle componenti fondamentali della democrazia italiana.
Una esperienza particolare e unica, di cui forse non ci siamo resi conto fino in fondo e che poteva apparire naturale a chi l'ha vissuta. Ma la tradizione dei partiti comunisti era fatta di quadri rigidamente selezionati, e il partito comunista sovietico non ha mai superato, nell'arco della sua storia, i tre milioni di iscritti: dislocati però su una dimensione imperiale e continentale. In proporzione il partito comunista italiano era allora il più grande del mondo, con una rete organizzativa e associativa più estesa e radicata di quello francese, e prima che nel continente asiatico entrassero in gioco masse sterminate di uomini. Si trattò anche per questo di una esperienza originalissima, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni irrisolte, ma anche con una grandezza che non può essere negata. Non a caso è il partito dell'occidente più studiato nelle università americane, cosa impossibile se si fosse trattato di semplici marionette manovrate dai sovietici.
A partire dalla svolta di Salerno si definisce un rapporto tra interesse nazionale e ascesa delle classi lavoratrici che risolve quel rapporto mancato tra democrazia e nazione che era stato il limite dello stesso partito socialista nella sconfitta del primo dopoguerra. Un partito che amò definirsi di lotta e di governo. Che all'epoca significava lotta vera, e non significava solo esperienza di governo locale, ma tensione generale a proporre soluzioni valide per la collettività nazionale. E capacità di fare politica con spirito unitario. Un partito aperto alle adesioni a un programma politico, indipendentemente da convinzioni religiose o filosofiche. Che riprende per lunghi anni la tradizione (anche socialista, anche riformista) della creazione dal basso, in parallelo, di una società alternativa, ma con un netto distacco dalla tradizione libertaria. Che consolida una "morale comunista" fatta di rigore, sobrietà, ma anche di moralismo e ipocrisia in parte consapevole.
Sono stati evocati questi aspetti anche di recente, commemorando Nilde Iotti o ricordando Pasolini. Ma spesso se ne parla come se questo moralismo si producesse all'interno di una società libera e spregiudicata. Tra le ragioni dell'adesione o del voto a questo partito, che furono molteplici e a volte sorprendenti, oggi rimosse o abiurate anche nel ricordo da tanti che ne furono partecipi, prevaleva invece anche una volontà di opporsi a una società bigotta e clericale (ancora clericofascista, nel fondo). Tra i paradossi del successo del Pci nella cultura italiana c'è anche quello di aver rappresentato per molti, secondo la formula di Anna Maria Ortese, un liberalismo d'emergenza. Come scriveva Ernesto Galli della Loggia nel 1976 "i comunisti si trovarono nella condizione singolare di dover prestare la propria voce alla difesa di diritti ed esigenze la cui tutela rientrava nell'ambito del più schietto liberalismo", e da quel momento "tutti gli intellettuali liberi del paese impararono a contare sull'argine rappresentato dal Pci e a considerare preziosa la sua presenza" (Ideologie, classi e costume, ne L'Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Torino Einaudi, p. 410).
Ci furono molte altre motivazioni: la volontà di riscatto sociale, di partecipare per la prima volta alla grande storia(E' fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo, scriveva il socialista Scotellaro) l'aspirazione al buongoverno, l'attuazione (finalmente) della Costituzione, e per molti il "sogno di una cosa" vaga e imprecisata nei dettagli. E anche il mito sovietico, su cui non si può schiacciare oltremisura questa storia, perché entra in crisi nel '56 e si esaurisce, di fatto, nel 1968.
Questa fu anche storia di generazioni diverse, che si intrecciarono e convissero, non sempre comprendendosi fino in fondo. Il 1968 fu forse la rivitalizzazione imprevista di un movimento già destinato a declinare? E' difficile rispondere, di certo segnò una grande trasformazione. Una svolta di mentalità, di comportamenti, di pensieri diffusi. Chi ha vissuto quel momento e il contrasto di mentalità che traspariva nel confronto tra generazioni diverse può testimoniare la sostanziale verità di questo giudizio. Si avviò allora e giunse a compimento rapidamente un grande processo di secolarizzazione, si potrebbe dire, prendendo a prestito il termine da altro ambito culturale. Processo inevitabile e positivo, vissuto da versanti diversi, dentro e fuori quel partito. Questo giornale, posto ufficialmente fuori da quella storia ufficiale, non si è mai sentito estraneo ad essa, ed oggi è l'unico che rivendica laicamente il senso positivo di quella storia, contro le stesse abiure e le viltà degli improvvisati eredi ufficiali.
Negli anni dei trionfi elettorali di quel partito nessuna persona seria riteneva che i comunisti italiani intendessero instaurare un regime oppressivo basato sui gulag e sul terrore di massa. Che sia divenuta diffusa credenza postuma è sintomo della potenza geometrica dell'imbonimento mediatico, e anche di qualcos'altro, più difficile e arduo da definire.
La metafora della giraffa, usata da Togliatti, continua a rimanere la più suggestiva. Provate a descrivere a uno scienziato le caratteristiche di questo animale, vi dirà che non può esistere, ma esso esiste, con una sua bellezza e una sua nobiltà. Fuor di metafora, il Pci è esistito ed ha contato in un arco lungo e fondamentale nella storia italiana, malgrado sociologi e politologi ne elencassero costantemente contraddizioni e anomalie, che cominciarono a divenire irreversibili e distruttive solo nell'ultimo decennio della sua vita. A partire dal fallimento della solidarietà nazionale, che introdusse elementi degenerativi nel rapporto tra quel partito e la società italiana. Eppure riflettere al di là della deprecazione sarebbe quanto mai opportuno. Come ha scritto Franco De Felice, il Muro in Italia era caduto con dieci anni di anticipo. Un giudizio fulminante e rivelatore, che apre un problema anziché risolverlo. In effetti, qualunque opinione si abbia di quella fase della politica italiana, bisogna partire dalla constatazione che fra il 1976 e il 1979 il partito comunista per la prima volta dal 1947 fece parte di una maggioranza di governo con un ruolo determinante, accettò il quadro di alleanze internazionali del paese, e soprattutto sostenne con un contributo decisivo e insostituibile la lotta al fenomeno terrorista. E' inutile rammentare come in nessun paese dell'Occidente si fosse anche lontanamente profilata una situazione simile; va ricordato piuttosto che, come sappiamo oggi dai documenti dell'amministrazione Carter, la situazione di equilibrio raggiunta in Italia fu dopo molte diffidenze e contrarietà sostanzialmente accettata. Quella "evoluzione" del Pci per cui si erano adoperati Aldo Moro ed Eugenio Scalfari, La Malfa e Spadolini, era di fatto compiuta.
Ma allora il vero problema diverrà per gli storici il significato del nuovo anticomunismo, dei suoi successi, della mancata resistenza ad esso. La questione comunista che era apparsa a tutti centrale come via per coinvolgere le forze lavoratrici organizzate nella condivisione della cosa pubblica all'improvviso viene lasciata cadere, non appare più centrale né urgente. Il fine non è più quello di incalzare il partito comunista per una sua "evoluzione democratica"; l'obiettivo è più alto e radicale e punta a uno "svuotamento" e alla estinzione di quella esperienza. Il viluppo del doppio stato ha prodotto nel corso degli anni Settanta una autonomizzazione e una attivazione di forze che ormai operano, si potrebbe dire, alla luce del sole e che guidano questo nuovo processo.
Quello che va tematizzato e compreso è il problema della costruzione a freddo di un anticomunismo postumo nel corso degli anni Ottanta (non giustificato interamente da forme e dimensioni della "nuova guerra fredda" inaugurata dall'amministrazione Reagan), del suo straordinario dispiegamento di forze, del suo successo duraturo testimoniato anche dalla introiezione dei suoi motivi ispiratori da parte delle stesse vittime e dei destinatari dell'offensiva. Quest'ultimo è il punto più delicato, e non è facile capire il meccanismo e tutti i passaggi, anche culturali e psicologici, che hanno portato a quel risultato. Non è chiaro del tutto come ci siamo (ci sono) arrivati, la falsa "naturalezza" di questo approdo e di come viene vissuto e percepito. C'è tutta una riflessione da avviare, critica e autocritica.
Quando infine morì, il suo cuore pulsava ancora presso gran parte della sua base, ma l'encefalogramma del suo gruppo dirigente era piatto già da molto tempo.
Nell'ultimo decennio si erano accumulate nel rapporto con la società italiana un gran numero di contraddizioni irrisolte, proprie della particolare identità di massa del comunismo italiano. Contraddizioni non governate, né sciolte. E che finiranno per implodere nell'89, nelle forme di una svolta che a distanza di tempo non darà luogo a una nuova identità, ma a qualcosa di più complesso e di difficile definizione, con la coesistenza di frammenti di identità diverse, difficili da unificare in una nuova sintesi. Le "anime" comuniste si separano e vanno ognuna per la sua strada, le strade della omologazione e di un nuovo massimalismo (spesso acquisendo il peggio di quelle tradizioni, l'acqua sporca senza bambino).
Quella identità comunista, propria di tanta parte della sinistra italiana, di fatto non è stata rimpiazzata da identità minori, da tradizioni inventate e giustapposte. Che non riescono a decollare neppure nel deserto culturale della sinistra di governo in Italia. Un socialismo "liberale", giustizia e anche libertà, chi non sarebbe d'accordo? Ma non è bello trattare Rosselli alla stregua di un semplice inventore di slogan ad effetto, quasi fosse un Occhetto qualsiasi. E ispirarsi a quel partito d'Azione che si è estinto nel 1946 perché nessuno lo votava e perché nessuno era mai riuscito a capire cosa volesse di preciso è una suggestiva metafora della "sinistra del 2000" che si vorrebbe edificare.
Per ripartire su altre basi bisognerebbe in primo luogo cominciare a capire che la storia dei comunisti è sempre stata parte di una storia più ampia, che non nasce nel 1917 e non si conclude nel 1989.
In estrema sintesi, chiamato a riassumere il più grande merito storico del comunismo italiano, Togliatti aveva detto: abbiamo insegnato ai contadini a non togliersi più il cappello di fronte ai padroni. Miriam Mafai in anni recenti a conclusione del suo libro Botteghe Oscure, addio ne ha riecheggiato i toni in una frase che suona come una epigrafe: "Cosa è rimasto? Una certa educazione alla dignità. Abbiamo insegnato agli italiani che un contadino vale quanto un padrone". E commentava: non è poco.
Non è poco, in realtà, anzi sarebbe una conclusione molto bella se fosse del tutto vera. Ma quel libro usciva nell'aprile del '96, alla vigilia di una esperienza di governo che si rivelerà nel tempo molto tormentata per gli eredi e per gli elettori residui di quel partito, e che porrà problemi e interrogativi proprio sui terreni della educazione alla dignità, del senso di eguaglianza e di giustizia sociale che in questa bella epigrafe erano racchiusi.

SCHEDE:

Più che una scelta, una necessità storica
Due anni dopo Livorno, nel marzo del '24, Gramsci giustifica in questo modo, sull'Ordine Nuovo, la necessità di una scelta sulle cui modalità egli stesso nutriva parecchi dubbi:
"Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiuolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione, alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti da Livorno in poi: la necessità, che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, nel dilemma di vita e di morte, cementando le nostre sezioni col sangue dei più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Se riuscì tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito: esso è una falange d'acciaio".

"Fare in fretta"
Il primo articolo scritto da Antonio Gramsci dopo la scissione di Livorno
La mattina del 21 gennaio 1921, dopo sette giorni di scontri verbali, un gruppo di delegati abbandona il Teatro Goldoni di Livorno, dove si sta concludendo il XVII congresso del Psi: cantando l'Internazionale si dirigono al Teatro san Marco. Lì, sotto un soffitto rabberciato da cui scendono scrosci di pioggia, fondano il Partito comunista d'Italia, che nel dopoguerra diventerà Pci. E' il momento formale del divorzio tra le due anime del movimento operaio italiano, ma la frattura era già avvenuta da tempo. A partire dalle divisioni tra sinistra e destra socialista di fronte alla prima guerra mondiale, passando per la Rivoluzione d'ottobre, per culminare nella rottura del Biennio rosso 1919-20, la crisi del sistema liberale e l'avvento dello squadrismo fascista. Comincia così una storia che segnerà quella dell'Italia del '900
"Caporetto e Vittorio Veneto", questo il titolo originale del primo articolo - che riproduciamo di seguito - con cui Antonio Gramsci spiega le ragioni della nasciat del partito comunista sulla rivista torinese, "L'Ordine Nuovo"

Il periodo che attraversiamo può essere definito la Caporetto del massimalismo italiano. Il Partito comunista, che nasce e deve organizzarsi nelle angustie e tra i pericoli di questo momento particolarmente difficile, deve essere l'espressione della precisa e fredda volontà della classe operaia di avere la sua battaglia del Piave e la sua Vittorio Veneto. Perciò la nostra parola non può essere che una sola: organizzazione, massimo sforzo di organizzazione, massima rapidità nel sistemare e organizzare la compagine del nuovo partito.
Certo sarebbe stata necessaria oggi l'esistenza di un forte organismo politico della classe operaia; certo sarebbe stato necessario essere già in grado oggi di parlare d'azione e non più di preparazione: ma la nascita del Partito comunista è appunto legata alla persuasione radicatasi nell'avanguardia più intelligente del proletariato che a una tale situazione si sarebbe giunti necessariamente, data l'incapacità del Partito socialista di assolvere il suo compito storico, e che perciò era indispensabile mutare rotta e iniziare il lavoro positivo e definitivo di preparazione; la situazione attuale non desta quindi nessuna sorpresa e nessun avvilimento nei comunisti, essa non li abbatte né li fa pentire della tattica seguita al Congresso di Livorno.
Il massimalismo, che oggi è in rotta e in piena decomposizione, ha applicato nella guerra civile la stessa tattica che il generalissimo Cadorna aveva applicato nella guerra nazionale: ha logorato gli effettivi proletari in una molteplicità di azioni disordinate caotiche, ha sfibrato le masse, le ha illuse sulla facilità e la rapidità della vittoria. il massimalismo italiano e il generalissimo Cadorna avevano avuto dei precursori: i boxers cinesi, i quali credevano di poter snidare gli inglesi e i tedeschi dai loro firtilizi, avanzando in folla tumultuante contro le mitragliatrici, preceduti da stendardi di carta con su dipinti mostri orribili e spaventosi.
L'idea centrale del massimalismo non è stata quella dell'Internazionale comunista; che cioè tutte le azioni e tutti gli sforzi del proletariato devono essere rivolti e indirizzati alla conquista del potere politico, alla fondazione dello Stato operaio, che tutti i problemi particolari della classe operaia possono trovare un'effettiva soluzione nella soluzione del primo e più importante problema: conquistare il potere politico e avere la forza armata nelle proprie mani. L'idea centrale del massimalismo è stata data al massimalismo dai riformisti: governare senza avere la responsabilità diretta del governo, essere l'eminenza grigia del governo borghese, costringere il governo borghese, col terrore (i mostri dei boxers cinesi) e con la forza delle organizzazioni e del gruppo parlamentare, ad attuare esso quel tanto di socialismo che può essere attuato in Italia, date le condizioni economiche del paese e la possibilità del blocco . Questo machiavellismo di cattiva lega è stato il programma effettivo del massimalismo italiano, e ha determinato la situazione attuale, e ha determinato la Caporetto della classe operaia. E' bastata l'organizzazione affrettata di poche migliaia di fascisti per far crollare il castello costruito con la fraseologia rivoluzionaria del Congresso di Bologna. E si è rinnovato nell'Italia del secolo XX, dopo le esperienze crudeli della guerra e delle rivoluzioni di Russia, di Ungheria, di Baviera, di Germania, il fatto che pareva solo concepibile nel secolo XVII, quando 45 cavalieri ungari riuscirono a dominare per sei mesi tutte le Fiandre, solo perché la popolazione on riusciva ad armarsi e a contrapporre un'organizzazione di difesa e di offesa all'organizzazione di 45 uomini.
In tali condizioni di sfacelo e di caos nasce il Partito comunista. I suoi militanti devono dimostrare di essere veramente capaci di dominare gli avvenimenti, di essere veramente capaci di saper riempire ogni ora e ogni minuto con l'azione che quell'ora e quel minuto richiedono, di essere veramente capaci di saldare insieme gli anelli della catena storica che deve concludersi con la vittoria del proletariato.
Siamo in piena Caporetto del rivoluzionarismo verbale e verboso. Il primo anello da foggiare è il Partito comunista. Se fortemente la nostra volontà si dedicherà a questo paziente lavoro di organizzazione, noi riusciremo anche a foggiare e a saldare insieme gli altri anelli. E la classe operaia avrà la sua battaglia del Piave e avrà la sua Vittorio Veneto.
Non firmato, "L'Ordine Nuovo", 28 gennaio 1921

"Perché serve un partito"
Ecco due stralci degli interventi con cui Terracini e Bordiga spiegano al congresso di Livorno l'inevitabilità della scissione:
"...La creazione del Partito comunista non è che la risoluzione del problema della creazione del Partito di classe del proletariato che ha come sua meta la conquista del potere. Il Partito Comunista è il creatore delle premesse spirituali per la rivoluzione. Perché il Partito politico di classe è un'arma la quale è assolutamente necessaria per la lotta proletaria della conquista del potere. Perché noi non abbiamo l'idea che il compagno Baratono ci affacciava gratuitamente ieri; noi non pensiamo ai piccoli ceti ristretti che fanno la rivoluzione e creano degli eroismi; non siamo della teoria degli eroi, anzi pensiamo che soltanto le masse, inquadrate e ben dirette, possono compiere grandi cose, e non abbiamo un feticismo per persone, ed è per questo che noi pensiamo che il Partito non può lui solo fare la rivoluzione, ma pensiamo che deve essere organizzato in una determinata maniera, perché non sia un ostacolo alla rivoluzione. Un Partito politico di classe è quello che non crea la situazione, ma sa sfruttare la situazione. Il Partito politico di classe è quello, non che organizza e fa, secondo la sua convenienza, avvenire i fatti nello svolgimento della vita di un paese, ma è quello che non si lascia mai sorpassare dai fatti, è quello che li prevede e sa guidarli verso una meta, è il Partito che ha questa meta da raggiungere". (Umberto Terracini)
"Vi è la ragione che non rivendichiamo, la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sentiamo eredi di quell'insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro passato, o compagni! (Rumori, interruzioni violente da parte della maggioranza, applausi dei comunisti)... E vi è un'altra ragione, o compagni, ed è quella che noi andiamo con la Terza Internazionale. Uomini proletari, lavoratori sfruttati di tutte le razze, di tutti quanti i colori, si organizzano e si costituiscono con mille difetti, ma con un'idea che sicuramente ci dice che si tratta di una costruzione definitiva della storia. Essi costituiscono così questo ingranaggio di lotta, questo esercito della rivoluzione mondiale. Credete voi che dinanzi a una cosa così grande vi siano i piccoli errori che possano fare ritrarre chicchessia che non sia un avversario di principio? Che possa fare esitare chicchessia quando si deve scegliere se stare con la Terza Internazionale, per andarsene invece, purtroppo per allontanarsi, purtroppo per rimanere estraneo a questo sommovimento di pensiero, di critica, di discussione, di azione, di sacrificio e di battaglia?" (Amadeo Bordiga)

Centralismo e disciplina
Bordiga e Terracini spiegano così nella loro relazione il carattere centralista che deve avere il nuovo partito:
"Candidatura e revisione storica periodica, avvicendandosi e completandosi, faranno sì che il partito comunista risulti nell'avvenire omogeneo, agile, libero dell'enorme ventraia di abulici, di timorosi, di opportunisti che oggi deforma e appesantisce il Psi.(...) Il partito comunista è costituito sulla base di un accentramento che si manifesta sia nella sua organizzazione come nel suo funzionamento. Questo accentramento non può però risolversi solo in una meccanica sostituzione della volontà del Comitato centrale alle volontà singole ed individuali: ma si verificherà tanto più quanto più il Cc avrà la capacità di creare una mentalità, una forma di giudizio, una volontà ugualmente diffusa nel partito".

Aspettando la rivoluzione
Nella relazione che Bordiga e Terracini presentano al congresso troviamo scritto:
"I riformisti affermano che il proletariato italiano non potrebbe assumere il potere nel cuore del mondo capitalistico che lo soffocherebbe col blocco economico e lo schiaccerebbe con l'azione militare. A ciò si risponde, oltre che col mostrare come sia artificiale la esagerazione di tutte le difficoltà, col fatto che la rivoluzione italiana si inserirà nella rivoluzione mondiale rappresentando il punto di passaggio di essa dall'oriente all'occidente, e forse integrando la sua comparsa in tutto il centro d'Europa, poiché, se una situazione è specifica della rivoluzione russa, essa consiste nelle condizioni geografiche che hanno permesso di recluderla per tre anni al di là di una insormontabile barriera che oggi si rivela ormai impotente a contenerla. Ma più che confutare le obbiezioni dei riformisti interessa valutarle come sintomo della loro opposizione di fatto all'affermarsi della rivoluzione allorché essa si manifesterà".

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