NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro (Einaudi, Torino 2001)
in costruzione


Una sintesi del libro (dal sito "Globalizzazione 2000")

PRIMA PARTE

Il libro si articola in tre grandi capitoli: i deliri dell’homo faber, i dilemmi dell’uomo flessibile e i peccati della politica e il futuro dell’uomo solidale.

Premessa
E’ il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti (democrazia e dittatura, ricchezza e povertà..) lasciando in eredità al XXI secolo grande parte dei problemi irrisolti.
Il paradosso più clamoroso del secolo è forse quello rappresentato dalla contraddizione tra l’onnipotenza dei mezzi tecnici e la drammatica incapacità da esso dimostrata di raggiungere, senza pagare un prezzo sproporzionato, pressoché tutti i propri fini (etici, sociali e politici).
Il Novecento è stato il secolo dell’ homo faber, quello in cui l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva, ed il mondo a realtà fabbricata. Sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività della produzione è stata ridisegnata la società, sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica.
Forse nel gene dell’homo faber sono da ricercare anche le radici del male profondo che hanno minato la biografia politica del secolo: i suoi deliri, la smisurata volontà di potenza che l’ha devastato, inestricabilmente interfacciate con una febbrile volontà di liberazione e di emancipazione. Tutto ciò che fino ad ora eravamo soliti attribuire al suo opposto (l’ homo ideologicus) e cioè la sua irrazionalità, il suo rifiuto di accettare logica delle cose.
Revelli afferma in questo passaggio critico del suo libro, è che proprio l’ideologia della logica delle cose, senza più limiti nei contrappesi, che genera questo mondo totalizzante delle cose, la causa della distruttività della politica del ‘900 ogniqualvolta ha preteso di sollevarsi dal livello della pura amministrazione.
Da questo punto di vista, Auschwitz rappresenta il nuovo estremo di caduta, dove letteralmente gli uomini e i loro corpi furono ridotti a materia di lavoro, usati e distrutti come cose.
Ma piuttosto è dentro la vicenda del comunismo che occorre guardare se si vuole, al di fuori della dimensione del male assoluto, gettare lo sguardo sulla natura profonda del secolo e sulle sue tante antinomie selvagge.
Nato dal progetto prometeico di dare forma al potere del lavoro liberato fino a farne principio generale di organizzazione della società, esso ha finito per porre in essere il più potente, esteso apparentemente irresistibile apparato politico di coercizione sulla dimensione sociale dell’uomo. Espressione della libera aspirazione a riscattare l’uomo dalla natura di merce, ha finito per generare un universo interamente pietrificato nel suo profilo di società del lavoro totale: macchina composta da uomini ridotti alle loro funzioni produttive
Il soggetto politico protagonista del 900 è il Militante, in particolare il militante rivoluzionario. Il militante, figura scissa come lo spirito del secolo, si è presentato fin dall’origine come la forma più piena della soggettività ribelle, contrapposto al mondo delle cose. Ed è andato fin dall’origine, costruendo senza sosta, macchine, apparati, strutture orientative, burocrazie, tecnologie del comando e della gestione degli uomini, in una parola "cose" che l’hanno avvolto in un involucro inerte, spesso riducendolo ad una delle tante funzioni della produzione che il ‘900 ha generato. Difficilmente esso saprà varcare la soglia del nuovo secolo.
L’unica figura della ribellione e della solidarietà che pare di vedere, ancora confusa tra le ombre del futuro, è quella fragile e incerta del Volontario. Figura aurorale, dal profilo sfumato, certamente diversa da quella scolpita nella pietra e nel metallo del militante del ‘900. Anzi si potrebbe dire opposta a quella per il suo carattere integralmente "civile" e cioè estraneo ad ogni aspetto "militare" dell’organizzazione, del conflitto e per l’uso che fa della propria debolezza come punto di forza della propria disseminazione come forma di presenza contraria ad ogni idea di centralizzazione. E infine per il suo carattere irriducibilmente impolitico.

I deliri dell’ homo faber
Il 900 come tempo degli assassini. Il secolo che abbiamo alle spalle è stato dal punto di vista quantitativo il più distruttivo dell’intera storia universale.
Una statistica dei morti a causa di guerre indica questa impressionante progressione:
Fino al 1500 circa 3.5 milioni
Nel XVI secolo 1.5
Nel XVII 6 milioni
Nel XVIII 7.7 milioni
Nel XIX 19 milioni
Nel XX secolo ben 110 milioni di morti (di cui 80 nelle 2 guerre mondiali); è impressionante segnalare che dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono stati contati tre milioni e mezzo di morti.
Il 900 rimane il secolo più cruento della storia col suo indice di 44 vittime di eventi bellici ogni mille appartenenti alla popolazione totale interessata, una percentuale di una quindicina di volte superiore a quella dei tempi oscuri delle guerre di religione. Da questi dati si comprende anche il grado di militarizzazione delle società che ha comportato il massiccio utilizzo di uomini e di risorse senza arrestarsi neppure in quest’ultimo decennio.
Si consideri in che nel 1943 risultava impegnata nella guerra quasi la metà della popolazione inglese (di cui il 22% come combattenti e un 23% nella produzione di armamenti), mentre i tedeschi impegnati erano il 37%, gli americani il 35% e sovietici il 53%.
Le spese militari sostenute nella prima guerra mondiale ammontano a circa 5 milioni di miliardi di lire, mentre per la seconda guerra mondiale si ipotizza un costo pari a 12 milioni di miliardi di lire.
I costi della guerra fredda avevano raggiunto la fine degli anni 80 quasi il 30% in più rispetto ai costi medi annui della seconda guerra mondiale e neppure la caduta del comunismo ha interrotto questa corsa folle agli armamenti: la globalizzazione degli anni 90 ha al contrario favorito il rafforzamento dei flussi di materiale bellico dalle metropoli dello sviluppo verso le infinite periferie del pianeta conducendo i paesi del terzo mondo a investire parti terribilmente ampie dei loro bilanci.
Ogni qualvolta la violenza estrema è stata impiegata come mezzo a servizio di una qualche causa, lungi dal permettere il raggiungimento del proprio obiettivo secondo i canoni della razionalità strumentale, essa ha finito col provocare la distruzione del fine stesso o un suo radicale pervertimento, causando talora addirittura l’annientamento del soggetto medesimo che l’aveva posta in essere. La violenza ha dato vita cioè a una sistematica eterogenesi dei fini del tutto inaspettata in una epoca che fatto della calcolabilità e della prevedibilità il proprio dogma.
Quali sono le origini del mostruoso nel nostro secolo?
La prima teoria fa capo al concetto di Gefaelle e cioè la sproporzione tra capacità produttiva e la capacità immaginativa e la conseguente caduta.
Si dimostra l’incapacità di percepire il divario tra la grandezza smisurata degli effetti del nostro agire tecnicamente potenziato e gli strumenti cognitivi per concepirne il significato e rappresentarne il senso. Qui c’è il concetto del troppo grande e c’è l’incapacità dell’uomo di misurarsi con il troppo grande.
La seconda teoria si incentra invece sull’idea di " macchinizzazione " del mondo moderno, o meglio sulla trasformazione delle molteplici componenti del mondo umano in elementi co-meccanici integrati come semplici parti, segmenti, fasi, della mega-macchina in cui è stato trasformato il mondo.
Questi due concetti, la sproporzione e la macchina, si incrociano e si fondono in un punto essenziale e cioè nel lavoro con il suo correlato inevitabile, l’organizzazione.
Lavoravano i comandanti dei campi di concentramento in cui si consumava con tempi e metodi da fabbrica lo sterminio rispettando gli orari d’ufficio, la successione delle fasi di lavorazione, la divisione dei compiti con meticolosa precisione. Lavoravano infine le immense schiere di uomini di marmo che nell’Unione Sovietica staliniana credevano di edificare il mondo nuovo e invece lastricavano il vecchio inferno. Erano lavoratori i quadri di partito che dagli uffici costituivano anzi edificavano la società socialista con la logica degli ingegneri come si progetta una ferrovia o si bonifica una palude; ed erano lavoratori i funzionari del Gosplan che pianificavano i consumi della popolazione dall’ufficio tempi e metodi di una fabbrica.
Paradossalmente quella che avrebbe dovuto essere la risorsa del secolo, lo strumento attraverso il quale l’uomo avrebbe potuto ritrovare se stesso recuperando la propria natura alienata, sembrerebbe tragicamente rivelarsi il medium della perdita. Ma è soprattutto la politica, che confluendo nell’involucro della vita activa che produce un patto scellerato. Il ‘900 è pieno di macchine politiche, le macchine di partito, indispensabili per declinare la funzione di rappresentanza nell’epoca della massificazione della politica.
Dal punto di vista soggettivo si assiste alla nascita della nuova figura sociale dell’ operaio totale, che supera le tre figure classiche della tradizione indo-europea e cioè il guerriero, il sacerdote e il contadino. Il processo di sostituzione si era annunciato in forma tragicamente spettacolare sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, dove a contatto con la tecnologia onnipotente del massacro meccanizzato, il soldato si era rivelato nella sua nuova identità di tecnico della morte, di meccanico del combattimento e dunque di lavoratore. Anche da un punto di vista somatico il tipo dell’operaio prende forma plastica, nell’indurirsi del profilo, nell’uniformarsi dei volti, via via più rigidi. Nell’abbigliamento si potrà parlare di un tipico costume da lavoro, così come nella gestualità si cerca la precisione, l’essenzialità del gesto. Nelle forme linguistiche si assiste al prevalere del linguaggio tecnico, mentre nelle arti visive la fotografia e il cinema (grazie alla loro precisione e alla capacità di riprodurre il ritmo della vita) soppiantano la pittura che ha in sé l’irripetibilità del gesto.
Il fordismo scrive Gramsci è il maggiore sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una conoscenza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. Il processo di mercificazione e la centralità del lavoro, hanno anche modificato il ruolo dello stato da garante dell’ordine, (Hobbes) a garante della stabilizzazione del lavoro e del capitale; da macchina limitata alla fornitura di sicurezza per gli individui a complesso di funzioni finalizzate alla stabilizzazione della forma di merce dei principali fattori sistemici dell’universo capitalistico.
Ciò che fino ad ora era stato regolato da meccanismi spontanei della solidarietà, diviene funzione dipendente dai rapporti di forza tra le grandi istituzioni di rappresentanza. La stessa attività di cura e di servizio, da pratica diretta dei soggetti sociali diviene oggetto di rivendicazione. Da azione sociale primaria si trasforma in risultante del conflitto e della negoziazione. La produzione di valore d’uso sociale, è cioè valore di legame, diviene oggetto di scambio politico e cioè materia prima del processo di legittimazione democratica dentro una dinamica nella quale la nazionalizzazione delle masse e la politicizzazione della società marciano insieme, distanziando progressivamente i soggetti reali e cioè gli individui dai luoghi della decisione e della elaborazione delle condizioni della loro esistenza.
Ma il lavoro di de-socializzazione ad opera della strumentalità non si ferma qui.
Alain Bihr teorizza la "totale integrazione dei consumi del proletariato nel rapporto salariale" ad opera del sistema capitalistico fordista. Questa teoria si basa su tre elementi: in primo luogo, la scomparsa della produzione domestica del proletariato, per cui la famiglia cessa definitivamente di essere un unità di produzione artigianale e agricola per divenire essenzialmente un’unità di consumo mercantile. In secondo luogo, l’imposizione di uno standard medio di consumo e definito da alcuni merci pilota, divenute indispensabili nella vita quotidiana quali automobili, elettrodomestici, telefono, televisore eccetera e regolato attraverso il governo della dinamica salariale, con evidenti effetti di normalizzazione dell’esistenza e di subordinazione di tutte le pratiche di consumo del proletariato ai rapporti di mercato. Infine la riclassificazione di alcuni fattori strategici dell’esistenza quale sicurezza, assistenza, cura, eccetera come voci del salario indiretto garantita dallo stato.
Tre forme di un unico processo di mercantilizzazione dei fattori costitutivi della socialità.
Il 1968 fu un grande rito di dissipazione in forma festiva: un momento di rottura in cui la società intera, compressa per decenni nello sforzo produttivistico del lavoro totale, parve recuperare il tempo perduto e ritrovare se stessa, il reticolo di relazioni tra persone smarrite nel deserto delle cose e la propria capacità di parola che da brusio si fece tuono.
Il 68 fu anche un grande fenomeno di lungo luddismo istituzionale e organizzativo. Il clamoroso tentativo di distorsione di tutte le macchine politiche, sociali, culturali che negli anni precedenti erano state costruite secondo i criteri del modello burocratico, intorno ai dogmi della centralizzazione, della specializzazione tecnica e della gerarchizzazione.
Era la prima, esplicita e diffusa, rivolta contro l’apparatizzazione del mondo, contro quella dimensione co-meccanica degli individui ed i loro mondi vitali che, come si è visto, andava minando alle radici le capacità di controllo umano sul proprio contesto sociale e lo stesso principio di responsabilità.

SECONDA PARTE

I dilemmi dell’uomo flessibile
Cosa è rimasto dopo la grande ondata anti sistemica del 1968?
Le esperienze di rappresentanza politica si trasformarono, a contatto con il leninismo, in nuove piccole macchine di apparato politico e linguistico, che portavano in sé gli stessi difetti del centralismo aggravandoli al tempo stesso con il settarismo. L’esperienza di comunità si spense alla ricerca della coerenza dei dogmi della società liberata.
L’eredità principale è l’intuizione che ebbero negli anni 70 di costruire un oggetto che garantisse lo scambio della comunicazione al di fuori del controllo dell’apparato statale; il precursore del computer.

Le 3 radici del passaggio al post fordismo

1. Il computer
Il computer è l’invenzione di questo secolo che si è sviluppata più rapidamente; in soli 16 anni sono stati raggiunti i 50 milioni di utenti (2 volte più rapido della radio, quattro volte più veloce dell’automobile e del telefono, battuto solo della televisione per la quale ha invece ne erano bastati soltanto 13).
La vittima più importante della diffusione del computer è sistema produttivo fordista. Così come questo sistema si era basato, nella definizione della sua organizzazione prototipale sulla produzione dell’auto nella catena di montaggio, così il postfordismo ha nel computer il proprio totem attorno al quale si sta costruendo un nuovo modello organizzativo di rete.
Il computer permette di scomporre e segmentare le lunghe catene di montaggio, di monitorare le cadenze e i movimenti, di automatizzare interi settori, di renderne altri flessibilmente interattivi, multivalenti. Il computer è in grado di governare sistemi complessi e quindi favorisce la nascita di reti, prima corte, poi sempre più lunghe, di subforniture. Ridurrà l’outsourcing da eresia a pratica comune e infine ad un dogma produttivo, e cioè a condizione di efficienza e di riduzione dei costi fissi. I computer permetteranno, grazie alla possibilità di comando remoto, in tempo reale e alla simultaneità che ne consegue, pur tra posizioni fortemente de-localizzate, di trattare come parte in una stessa unità produttiva stazioni di lavoro distanti anche centinaia di chilometri.
In una parola: i computer colpiranno al cuore il concetto stesso di fabbrica, inteso come spazio omogeneo e contiguo del lavoro, separato nettamente da un ambiente esterno considerato potenzialmente ostile o comunque produttivamente inerte.
I computer de-costruiranno la fabbrica disperdendola nel territorio circostante, fino a rendere quasi impercettibile quella differenza tra luoghi della produzione organizzata e luoghi della vita sociale che era stata costitutiva della modernità economica fin dai tempi della prima rivoluzione industriale.
Si pensi anche alla trasformazione avvenuta nelle modalità di rappresentanza passando dalla sindacalizzazione di massa, tipica del fordismo, e della contrattazione collettiva, alla rottura di tutti i monopoli della produzione come della rappresentanza e di tutte le uniformità.
Secondo una teoria la transizione dal fordismo al post fordismo si configurerebbe come passaggio da un paradigma tecnico-economico dominato da un prodotto e cioè l’automobile e, più in generale, i beni di consumo durevole, da uno specifico processo di lavoro e cioè la produzione di massa standardizzata e da una particolare matrice tecnologica e cioè la cosiddetta tecnologia di concatenazione, (assembly line -la movimentazione mediante convogliatori meccanici-), a un nuovo paradigma, incentrato sull’ information technology, cioè sulla micro elettronica, su reti di telecomunicazione estese a forme di automazione spinta, come la robotizzazione del manufacturing.

2. La consapevolezza dei limiti dello sviluppo
Questa è una radice di contesto, culturale. Nel fordismo l’elemento "metafisico" è l’idea dell’infinita crescita della produzione, della possibilità di espandere i mercati all’infinito con l’unica condizione di abbassare i prezzi.
Un colpo durissimo per questa certezza venne inflitto dal Club di Roma, un’associazione di manager, intellettuali e opinion leaders, fondata da Aurelio Peccei che nel 1972 pubblicò un rapporto che già nel suo titolo conteneva la svolta: i limiti dello sviluppo. Questo rapporto diceva ciò che era già sotto gli occhi di tutti ma che nessuno osava dichiarare e cioè che lo stile di vita, di produzione e di lavoro, inaugurato agli inizi del 900, era incompatibile con la sopravvivenza dell’umanità.
In particolare, si fecero notare sconvolgenti conclusioni: la prima è che le risorse non rinnovabili e da cui dipende la base industriale si sarebbero esaurite; la seconda affermava che se anche le risorse non si fossero esaurite, il collasso si sarebbe verificato ugualmente in un lasso di tempo non molto diverso a causa dell’inquinamento provocato da una industrializzazione non più limitata dalla scarsità delle materie prime. Infine la terza conclusione, e cioè che il collasso sarebbe evitatabile solo a condizione di porre un immediato limite alla crescita della popolazione e all’inquinamento.
Questo rapporto fece scalpore proprio perché prodotto da protagonisti del sistema produttivo e non da figure marginali.

3. Il sesso del lavoro
Il fordismo è un modello assolutamente maschilista, basato come avevo visto concetto di razionalizzazione estrema dell’attività produttiva, della sua scomponibilità e misurabilità. Il sistema produttivo era pensato per uomini senza qualità e quindi sulla fungibilità del lavoratore. In questo senso il fordismo abbattè la barriera tra uomo e donna considerando quest’ultima valida per la produzione nella misura in cui si liberava della sua specificità femminile per essere utilizzata dal sistema alla stessa stregua dell’uomo.
Per il movimento femminista si aprì quindi la possibilità di fare emergere la contraddizione legate al fatto che per esempio a fronte di medesime prestazioni venivano riconosciuti diversi trattamenti economici tra uomo e donna. In un secondo momento il movimento rivendico altresì i tempi della donna o comunque la necessità di riconoscere le specificità dell’universo femminile.

Le vie di uscita dalla totalizzazione lavorativa
Tra le tante elaborazioni evidenzio alcune considerazioni svolte da Gorz che individua almeno tre interventi che si possono realizzare immediatamente per cercare di incrinare il Moloch del lavoro:
a) una consistente riduzione dell’orario di lavoro, parzialmente finanziata anche per via fiscale: iniziativa resa possibile dall’enorme aumento della produttività sociale generato dall’automazione e dall’innovazione informatica e insieme necessaria a causa della crescita esponenziale della disoccupazione e della sotto occupazione;
b) il parallelo riconoscimento del diritto ad un reddito slegato dal tempo di lavoro dunque un reddito garantito nella forma del secondo assegno proposto da Guy Aznar come forma di integrazione di attività intermittenti e di un monte ore ridotto;
c) la crescita data dai punti precedenti di una vita comunitaria, di cooperazione volontaria e auto organizzata, di attività auto-determinate e cioè libere da condizionamenti: una condizione affinché sempre più diffuso bisogno di servizi alle persone non generi il circolo vizioso della produzione equivalente e del lavoro servile e cioè di pagare una terza persona, di fatto un servitore, per svolgere attività relazionali e di cura che noi stessi potremmo svolgere con il medesimo investimento di tempo e fatica.
Questi tre strumenti favorirebbero la conquista accanto e sopra il complesso degli apparati, di spazi crescenti di autonomia sottratti alla logica della società, ad essa opposta e tali da permettere lo sviluppo di un’esistenza individuale sufficientemente libera da condizionamenti.

TERZA PARTE

I peccati della politica e il futuro dell’uomo solidale
Il 900 si caratterizza per la figura del Militante la cui personalità è stata definita pesantemente da almeno tre grandi eventi storici:
a) la prima guerra mondiale, l’evento che farà una volta per tutte da carnefice del lungo ottocento annunciando nella forma più atroce, con il massacro di massa, che l’era delle masse era realmente incominciata. Il militante rivoluzionario novecentesco nasce qui (in uno scenario che ha per la prima volta in forma assoluta le masse come protagoniste e come vittime) e nasce come soldato avendo la guerra come l’orizzonte, con la stessa disciplina del soldato, la stessa volontà di vittoria, con lo stesso spirito di mobilitazione totale. Soldato di un esercito senza frontiere, universale, ma con uno stato maggiore ben identificato e delimitato da confini stretti, da un’identità ideologica nettissima. Il suo linguaggio è militare. Le sue gerarchie sono militari. Persino la sua morale è militare, sempre sul filo delle questioni di vita o di morte. Sempre dominata dai demoni della logica amico/nemico;
b) la rivoluzione russa, la prima figlia illegittima della guerra; il luogo storico in cui di colpo la rivolta delle masse si fece stato. E fece della grande rete dei militanti comunisti, di quel gruppo eterogeneo di sovversivi, d’improvviso, il grande corpo di uomini di stato titolari essi stessi degli "arcana imperi" che connotano appunto la sovranità statale. Nel breve tempo di dieci giorni il militante comunista dovette identificarsi nella forma stato per il fatto che le antiche figure dell’antitesi assoluta Operaio e lo Stato si erano finalmente fuse in un nuovo ossimoro;
c) i fascismi è cioè il vero evento che prolungò la guerra nella politica. La ferocia e la pressione realizzata dai fascismi determinarono il fatto che la clandestinità, la separazione dalla sfera pubblica, divennero una condizione di sopravvivenza. L’organizzazione del singolo, ma soprattutto del collettivo e quindi dell’apparato si elevò ad essenza dell’agire poitico. Il partito divenne l’unica esclusiva comunità di riferimento sotto la pressione di una clandestinità che ne lacerava ogni rapporto con la società circostante, ogni legame personale e familiare.
Sarebbe ingiusto, è storicamente insostenibile, affermare che quella violenza come dimensione quotidiana della politica sia stato introdotta nella storia per effetto della militanza comunista. Che essa sia conseguenza diretta di quel modello ideologico e di quel tipo umano. Ma in quanto parte integrante dell’atto costitutivo della sua identità, essa finì in qualche misura per impossessarsene e segnarne a fondo abitus ed animus.

L’identità Fabbrica e Partito
Partiamo da Gramsci (della fase matura dei Quaderni dal carcere) e dalla sua visione degli elementi indispensabili per la sopravvivenza del partito:
La massa del partito, elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è regolata dalla disciplina e dalla fedeltà, e non si contraddistingue per lo spirito creativo;
L’élite del partito, il suo ristretto gruppo dirigente, il quale costituisce l’elemento coesivo principale, che fa divenire efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a se conterebbero zero o poco più;
Il quadro intermedio, che articoli gli elementi, che li mette in contatto, non solo fisico ma morale e intellettuale.
Tre livelli organizzativi, in cui è difficile non cogliere la simmetria pressoché speculare con la struttura dell’impresa fordista e taylorista, che finisce per assimilare, appunto, il processo rivoluzionario sintetizzato dal partito, al processo produttivo sintetizzato dalla macchina organizzativa dell’impresa.
Come nel modello della fabbrica nordista, la componente massificata è priva di capacità creativa e finanche della necessaria forza coesiva tale da tenerla insieme in forma autonoma ("quegli uomini comuni, medi sono forza in quanto c’è chi li centralizzata, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente").
Come nella fabbrica fordista, anche nel moderno partito di massa si forma uno strato intermedio, una tecnostruttura, i militanti di professione (in fabbrica gli ingegneri), chiamati a mediare tra progetto ideativo e ruolo massificato esecutivo, tra istanza centrale direttiva ed esercito del lavoro altrimenti disperso e dispersivo; nella capacità di combinare tra loro tutte e tre i livelli e dunque diversi ordini di funzioni, dipende esattamente (come nel caso dello scientific management), la possibilità di raggiungere il massimo di efficienza.
Secondo Trentin in Gramsci vi è la considerazione che il sistema tayloristico è un sistema socialista.
"La divisione del lavoro ha creato nel mondo proletario la solidarietà di classe; quanto più il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto più sente di essere la cellula di un corpo organizzato, tanto più sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora".
Il peccato capitale del comunismo del ‘900 è quello di aver concepito e realizzato la società del lavoro totale mentre andava poi promettendone la liberazione.

La distribuzione della ricchezza e del sapere
Nel mondo unificato dalla tecnologia e dalla comunicazione le distanze sociali tra i primi e gli ultimi si sono fatte abissali. Infinitamente più ampie e incolmabili di quanto non fossero, fino a pochi decenni or sono, quelle geografiche, se vero come ci ricorda l’ONU, alla fine del secolo più egualitario della storia, il 20% più ricco della popolazione continua ad appropriarsi del 86% della ricchezza del pianeta; le 225 persone più ricche del mondo possiedono una ricchezza congiunta di oltre mille miliardi di dollari, pari al reddito annuale del 47% della popolazione mondiale (due miliardi di persone). I patrimoni dei tre multimilionari ai vertici della graduatoria di Fortune superano, da soli, il prodotto interno lordo di tutti paesi meno sviluppati del mondo, con i loro 600 milioni di abitanti.
Negli ultimi anni in questa differenza di fra primi e ultimi è diventata sempre più grande e non lascia quindi speranze per un riequilibrio della ricchezza.
Vi è poi l’ulteriore problema strutturale e cioè il fatto che lo stile di vita, il livello di consumo di chi sta nel cerchio magico del privilegio sopra la soglia dei 15 mila dollari di reddito medio pro capite, è a tal punto distruttivo, possiede un tale impatto ambientale, sia sul versante del consumo di energia che su quello delle emissioni inquinanti, da essere strutturalmente non generalizzabile, non applicabile al resto dell’umanità.

L’uomo solidale
D’altra parte la scena non è vuota. Sotto traccia, invisibile o appena percettibile sotto la superficie compatta delle merci, una sottile ma fitta e diffusa trama di atomi positivi è da tempo in azione. Contrariamente alla figura sociale che l’ha preceduto, il militante novecentesco, questo nuovo attore non si sente parte di un esercito. Non ha né un’uniforme né una bandiera, non è appunto un soldato.
E’ piuttosto nel senso più proprio un civile.
Questo nuovo soggetto sembra fare della debolezza la propria sottile risorsa, sfuggendo ogni confronto frontale, ogni conflitto di potenza con avversario che, su quel terreno, sarebbe sempre comunque incomparabilmente superiore.
Si può aggiungere anche che, rispetto al militante, non sembra possedere neppure una dottrina o un sapere organico predittivo, su cui definire il proprio che fare. In compenso pare avere elaborato una certa, informale, capacità di lettura di memoria del passato. Non conosce la via di uscita dal labirinto, ma sembra ricordare bene dietro quali angoli si nasconde il Minotauro. Sa cosa non si può più fare.
Contrariamente al contesto fordista nel quale la razionalizzazione produttiva richiedeva perentoriamente il sacrificio di sangue e della rinuncia esplicita alla soggettività, qui la creatività, la passionalità ed emotività sono parte integrante del capitale sociale che si porta dentro e che è chiamato di volta in volta ad investire per sopravvivere.
Per la stessa ragione, questa nuova figura sa che la ricomposizione è decisiva; ma ciò non potrà più essere concepito nella forma consueta della riduzione dei molteplici ad unità, né attraverso la retorica del soggetto collettivo, né attraverso l’invenzione di una qualche nuova macchina, di qualche meccanismo oggettivo.
Le logiche che conosce nel produrre come nel vivere sono quelle della disseminazione, la multiattività, la messa in rete dell’eterogeneità.
In definitiva è il lento passaggio alla figura incerta e vacillante del Volontario una delle possibili uscite di sicurezza dal ‘900.

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Recensioni del sito "Intermarx"

lettura critica di Giovanni Bruno
un breve commento di Francesco Ciaponi
una recensione di Lillo Testasecca
un intervento di Riccardo Bellofiore


Aldo Bonomi: Ricordare il futuro

Leggendo e rileggendo il libro sul novecento dell’amico Marco Revelli ho avuto la fortuna di seguirlo e discuterne mentre prendeva corpo in un pensiero forte e robusto che attraversa il secolo sottoponendo al fuoco della critica l’homo faber, l’uomo ridotto con ferocia dal fordismo alla sola funzione produttiva e l’homo ideologicus, descritto nella drammatica impotenza e tragicità di colui che in nome dell’autonomia del politico interpreta il primo per salvarlo ed altro non fa che portarlo nel labirinto del Minotauro che genera mostri. Sino ai dilemmi dell’uomo flessibile, della fase terminale e postfordista del secolo che scompone il soggetto privandolo anche del bene di prender parola e far racconto di sè, essendo ormai tramontata la falsa utopia che fosse sufficiente imboccare l’altra uscita o il fare esodo verso un altrove per andare oltre. Più che una sensazione di dramma o di angoscia mi sono sentito invaso da un senso di dolcezza, di liberazione e di riconoscenza. Come se il libro aiutasse a togliersi da dentro un non detto individuale e collettivo. Per questo mi induce un senso di dolcezza più che di furore, che credo prenderà molti, nel fare polemica storica, ideologica e politica intorno a questo saggio che ha il coraggio di dire contemporaneamente, e senza libri neri sul comunismo, che Auschwitz è stato il luogo dell’estrema caduta e di negazione dell’etica, del male assoluto che riduce l’essere a scheletro come pura materia di lavoro, ma che l’altra soluzione, quella basata sull’uomo di marmo, lo pietrifica dentro il Partito-Stato, l’apparato, l’organizzazione negandogli senso e possibilità di mangiare futuro. Più che alla polemica si è portati al ragionare pacato sull’ossimoro, che è l’anima del libro, del ricordare il futuro.
La lettura è dolce perché ci si trova traccia, mai svelata dall’autore, di Marco figlio di Nuto, il quale, partito dalla provincia granda , da Cuneo e il suo territorio sempre raccontato da Nuto Revelli, arriva nella company town Torino ove incontra il soggetto del cambiamento generale, l’operaio massa al lavoro nella fabbrica fordista che lo porta sino a Detroit, il luogo delle origini raccontate nel libro attraverso le analisi cliniche di un altro grande eretico del 900, il medico Celine. Così come nell’analisi storica delle tragedie del secolo riecheggia il raccontare di Nuto al figlio adolescente, prima ancora che diventassero libri, della guerra e degli stermini come traccia e memoria di quella educazione sentimentale all’antifascismo e al principio etico di "mai più guerre" che tanto ha dato al tardo novecento e alla formazione di una classe dirigente dopo la tragedia assoluta di Auschwitz e della bomba atomica. Ma è ancora più dolce per noi, generazione del 68, invitata ad ammettere le colpe di un sogno radicale ed estremo in tribunali ove a chi è diventato ministro si chiede conto del proprio passato, trovare nel libro di Marco un primo la molto utile che pone sul banco degli imputati di un tribunale della verità le ideologie del 900. Le quali hanno immiserito e scarnificato la "parte maledetta" che aveva sognato fosse possibile portare la fantasia e il sentire al potere avendo chiaro che questo altro non è che il luogo vuoto che bisogna avere il coraggio di non occupare mai. Altro che fare i ministri. Ed è proprio il racconto di quell’antinovecento dimenticato e massacrato come parte maledetta dagli hegeliani di destra e di sinistra che Revelli cerca di valorizzare partendo dalla sua storia di eretico sessantottino. Sembra di vederli i tanti contadini e i tanti immigrati inurbati e deportati dentro i monumenti dell’homo faber, a Torino o a Detroit, ribellarsi alla soluzione finale del diventare soggetti solo attraverso il lavoro, cercare di costruire università popolari ove darsi linguaggio o mutue ove darsi solidarietà, o i tanti contadini detti Kulaki, raccontati solo dal populismo russo, resistere alla furia devastante che li voleva far diventare tutti uomini di marmo.
Così come è forte il racconto di quella esperienza di consigli operai o di marinai che dalle officine Putilov o a Kronstadt rivendicarono la possibilità di costruire dal basso il socialismo ponendosi in termini irriducibili alla costruzione del Partito-Stato. Nel libro si trova una storia misconosciuta e mai raccontata come retorica di un avvenire possibile che si ritrova e salda con quel sessantotto comunitarista più che comunista, con le sue comuni ove si socializzavano mezzi e fini o con i consigli degli operai massa ove, da Danzica a Detroit, si sogna, anche qui, il rovesciamento tra mezzi e fini, sino a partorire un altro sentire in cui nel rapporto tra uomo e natura ci si pensa in un ambiente e nei rapporti tra i generi ci si pensa nelle differenze. Raccontando la parte maledetta, l’essere e la dimensione sociale non riducibile allo Stato corporativo o allo Stato provvidenza, il libro scava nel grande passaggio che ha caratterizzato il 900: la transizione da una società con mezzi scarsi ma con fini certi ad una società con mezzi illimitati, ma con fini fortemente incerti, come le tragedie del male assoluto dispiegatesi nel secolo stanno lì a dimostrare.
Tra chi sostiene la fine della storia e chi rimane ancorato ad un concetto di storia che ti fa creare salvificamente il soggetto rovescio del cambiamento, o attraverso la Nottola di Minerva o il grande Leviatano, Revelli sceglie una terza via proprio partendo dalle tragedie del novecento ed interrogandosi sul come andare oltre il secolo. Ricorda per capire il futuro e per questo nega che si possa ancora ritenere che basta trovare o inventarsi il soggetto generale fatto dalla storia e far leva su di lui ed interpretarlo per ottenere il cambiamento. Ci dice che la fase dell’uomo produttore, più che generare liberazione, ha ridotto il soggetto a protesi del macchinario ed ha prodotto il mito orrendo de "il lavoro rende liberi" scritto sopra le entrate dei campi di concentramento e dell’uomo di marmo Stakanov. Così come la fase dell’uomo cittadino ha prodotto simulacro di libertà e di autonomia nell’andare "dalla culla alla tomba" attraverso l’oggettivizzazione dei bisogni riducendo l’uomo ad una dimensione. Sino a giungere alla fase moderna dell’uomo consumatore ove bisogni e desideri sono messi al lavoro e la nuda vita diventa macchina desiderante e agente nella produzione postfordista sempre più mirata ed orientata al singolo individuo. E ci ricorda con ampia citazione di numeri tragici che né la fase dell’uomo produttore, né quella del cittadino, né quella del consumatore hanno ridotto la forbice tra gli ultimi e i primi su scala globale. Oltre che analizzare, Marco giustappunto ricorda, in questo recuperando il pensiero iniziale del suo maestro Bobbio o di un grande eretico come Bataille, e ci ricorda che forse occorre ripartire, più che dal soggetto generale, dalla persona, dall’essere e dalla sua solitudine e dalla sua autonoma capacità e volontà di tessere e ritessere valore di legame e capacità di dono una volta sottratti al ciclo produttivo. Soluzione che gli attirerà gli strali dei duri e puri teorici del mercato o del soggetto generale della rivoluzione. Mi par già di sentire i più buoni parlare di conversione sulla via di Damasco del comunista Revelli al personalismo cattolico alla Mounier o all’anarcopopulismo e i più cattivi insinuare il dubbio dell’abbandono della lotta di classe e della teoria del conflitto. A me pare invece una analisi corretta di un secolo che si chiude con il trionfo e la potenza dei fenomeni sul soggetto, dei mezzi sui fini e con un rapporto tutto a favore della fenomenologia rispetto alla soggettività e con un bilancio non certo positivo dei tentativi di incarnare il soggetto nello stato etico e nel Partito-Stato. Il secolo si è aperto e dispiegato con il trionfo di figure come Henry Ford e si chiude con l’emergere di figure come Soros e Bill Gates.
Uno determinava i processi, ad un modello di economia faceva corrispondere un modello di società basato sull’homo faber e sul produttore consumatore. Cosa abbia prodotto la società basata sulla produzione di massa, anche nella sua antinomia comunista, è scritto nella parte storica del libro. Gli altri, Soros e Bill Gates, galleggiano e rappresentano i fenomeni, con la rete informatica e finanziaria di merci, desideri e denaro. Il tutto si chiama new economy e il tutto avanza senza un progetto di new society mettendo in crisi soggetti una volta forti come la statualità di fronte alla globalizzazione e riducendo la persona a moltitudine indistinta che cerca senso adattandosi ai fenomeni. E’ per questo che occorre ripartire dalla persona, dall’essere e dalla sua volontà di sottrarsi creando legame sociale svincolato dal produrre e dal competere. Prendendo atto che gli strumenti, i mezzi per contrastare lo strapotere dei mezzi che hanno inglobato i fini, dalle rivoluzioni delle avanguardie produttive, ai partiti di massa dei cittadini, sino al popolo di Seattle, se questo si percepisce come pura avanguardia cosciente dei consumatori, tutti si portano dietro la maledizione del novecento incarnata nella figura del militante che lotta per il potere. A questa figura idealtipica della politica del novecento, orientata allo scopo in base agli interessi, Marco Revelli contrappone, su piani impossibili al confronto, la figura senza forza del "volontario" che agisce e fa nel quotidiano, creando rete sociale in una società caratterizzata dall’anomia. Il tutto partendo dai fini e inventando lì per lì mezzi adeguati allo scopo; non mezzi assoluti come il partito, ma un centro sociale, un gruppo in un campo nomadi, una bottega di commercio equo e solidale, riproponendo così la dicotomia tra sinistra politica e sinistra sociale che è a ben vedere la chiave con cui Revelli analizza la politica del novecento. In attesa dell’uscita del libro ho sentito spesso Marco preoccupato per aver osato. Non posso che dirgli che per me può stare tranquillo: ha scritto un libro comunista, intendendo con questo la riproposizione di quelli che Derrida definisce gli spettri di Marx, sia per quelli che pensano che la storia sia finita, ma anche per coloro che l’hanno sempre scritta cancellando dall’album di famiglia la parte maledetta: appunto gli spettri di Marx .

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Alberto Burgio: I peccati mortali della modernità (il manifesto, s.d.)

" Il libro più organicamente anticomunista che io abbia letto": questo lapidario giudizio di Luigi Pintor mette a fuoco con precisione l'essenza dell'ultimo libro di Marco Revelli, sul quale è aperta un'appassionata discussione. Com'è naturale, i commenti hanno coinvolto in primo luogo le tesi sostenute nel libro. A questo proposito Pintor ha scritto quel che si doveva. Alle sue considerazioni si può aggiungere solo una nota marginale. Vale la pena di sottolineare la piena consonanza tra la lettura del Novecento compiuta da Revelli e la tesi fondamentale del revisionismo storico (nelle versioni di Nolte e di Furet): una consonanza che Revelli non occulta e anzi proclama. L'idea centrale del revisionismo storico (la simmetria tra fascismo e comunismo e la maggiore responsabilità di quest'ultimo, connessa al suo primato cronologico) corre come un basso continuo dentro il ragionamento di Revelli e ne esce persino radicalizzata. Non solo il risultato del nazismo (Auschwitz) "non è stato diverso" da quello prodotto dal "comunismo novecentesco", ma quest'ultimo ha usato "le armi degli altri (dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni) [...] peggio degli altri". Il comunismo è stato il gemello siamese del fascismo e dei due il più malvagio: si può non essere d'accordo con Revelli, non certo imputargli reticenza.
Se c'è una discordanza tra Nolte, Furet e Revelli, essa attiene al registro dell'argomentazione, che nei primi è comunque riferita al piano storico, mentre in Revelli si svolge prevalentemente sul piano ideologico. Oltre il Novecento è un libro di filosofia o di teologia della storia. Le categorie che ne articolano il discorso sono dichiaratamente filosofiche (o teologiche). Revelli non scrive: lavoro, politica, storia, guerra, organizzazione; ma: Lavoro, Politica (anzi, "il Politico", nemico del "Sociale"), Storia, Guerra, Organizzazione. Il suo ragionare procede per simboli e metafore, con largo dispendio di suggestioni letterarie. Non è una scelta casuale, perché scopo del libro non è compiere una ricostruzione storica del Novecento, bensì fornire una interpretazione del suo spirito e dell'essenza della modernità, che con il Novecento si sarebbe conclusa. A Revelli non interessa mostrare catene fattuali e nessi causali, ma affermare un convincimento: l'idea che la storia dell'ultimo secolo si sia svolta sotto il peso della maledizione della volontà di potenza della Ragione moderna: di qui il trionfo della violenza nichilistica del Lavoro e della Tecnica, violenza di cui il comunismo pare a Revelli costitutivamente impregnato. La dimensione teologica del discorso, più ancora che filosofica, emerge qui evidente.
La vicenda storica è risolta in un dramma manicheo, in uno scontro tra il Male (il Potere col suo "volto ferrigno", la "razionalità calcolistica" col suo delirio prometeico, la "ferocia burocratica" del Militante) e il Bene, che fragile traluce nell'elegia della "socialità d'arcipelago" e nelle azioni del Volontario, forte della propria debolezza, ancora "incerto e vacillante" nell'incedere, ma puro nell'intenzione di restituire la vita a un "libero gioco tra identità autonome".Sin qui le posizioni di Revelli, ormai note, che ciascuno valuterà. Esse tuttavia non esauriscono il quadro delle questioni poste dal libro, che appare invece assai più complesso. Era giusto dapprincipio concentrarsi sulle argomentazioni di Revelli, ma ora bisogna prendere in considerazione l'intera problematica che il suo scritto solleva, e che insieme alle tesi chiama in causa la figura stessa dell'autore. Il punto (è ovvio ma, a scanso di equivoci, è bene ribadirlo con la massima chiarezza) non concerne la persona. E' fuori discussione la legittimità di qualunque idea politica e di qualsiasi giudizio storico che non leda altrui diritti.
Il punto è strettamente politico, e lo stesso Pintor lo mette in rilievo quando pone l'accento sul fatto che questo libro "è scritto da una intelligenza di sinistra antitetica alla cultura dominante", e quando si sofferma sulla "forza di suggestione" che proprio da tale circostanza discende. Un libro che riesce a far parlare di sé non è solo il suo contenuto: è anche un accadimento nel quale conta molto la figura del suo autore, quando (come in questo caso) si tratta di un personaggio non ignoto al pubblico dei lettori. E' questa unità tra contenuto e autore che va ora presa in considerazione, poiché pone due questioni, entrambe di grande rilevanza.Si tratta, in primo luogo, di interrogarsi sui presupposti. Di chiedersi che cosa stia alle spalle dell'approdo di un intellettuale della "sinistra antagonista" all'anticomunismo più radicale. Di domandarsi come sia stato possibile che il travaglio dell'intellettualità "critica" abbia condotto alla liquidazione totale della vicenda rivoluzionaria, alla criminalizzazione di "tutte le esperienze novecentesche di "rivoluzioni riuscite" e persino al ripudio della storia del movimento operaio in quanto "componente più attiva" di una sinistra contaminata dalla violenza del Lavoro e dell'Organizzazione. L'introiezione dello schema revisionista non è una spiegazione sufficiente, né lo è un altro importante aspetto che Pintor a ragione sottolinea, il permanere dell'analisi "all'interno dell'universo unidimensionale" contro cui essa intenderebbe invece svilupparsi.Se "vincono le metafisiche e le religioni", è anche perché l'autocritica del movimento operaio e comunista è venuta assumendo, nel corso degli ultimi vent'anni, i toni di una santa inquisizione, rompendo gli argini dell'equilibrio e dell'oggettività. Difendere questi argini non era certo agevole, anche perché i conti con il passato erano drammaticamente seri e li si doveva fare sotto l'incalzare dell'avversario. Ma non era nemmeno inevitabile che si giungesse all'autoflagellazione e all'odio di sé che oggi celebra un autentico trionfo.Come in una reazione a catena, il riconoscimento degli errori e dei crimini si è trasformato nella complessiva messa sotto accusa della rivoluzione, quindi nella denuncia della stessa teoria. Poco prima di questo libro, l'ex-segretario dei Ds ha affermato che "sarebbe stato meglio" che l'Ottobre bolscevico non si fosse compiuto. Ora leggiamo che esso è stato l'avventura di "un pugno di uomini" che, avendo conquistato il potere "per molti versi fortuitamente", lo hanno poi difeso con la più spietata ferocia, ricorrendo a spedizioni, repressioni, rastrellamenti, e facendo ricorso a "una violenza mai registratasi in alcun regime 'borghese'". Ieri è stato detto che il comunismo è "incompatibile con la libertà". Oggi leggiamo che, alla luce dell'esperienza storica, è "l'identità stessa del comunismo ideale" ad apparire "culturalmente improponibile" e ad aver "consumato ogni credibilità". Questi giudizi non si comprendono come mere conseguenze di una intransigente autocritica. Nella misura in cui l'ansia di distruggere fa piazza pulita di qualsiasi distinzione e induce a sentenze tanto sommarie, emerge che il meditare sulle colpe è talvolta talmente doloroso da spingere all'abiura e alla trasfigurazione delle posizioni contro le quali si era prima militato.
Ma è il secondo ordine di questioni a meritare la maggiore attenzione, se è vero che il passato è importante ma è sul futuro che si gioca la partita. Quali conseguenze si può prevedere sortiranno da questa situazione? Quali effetti avrà questo libro, per le affermazioni che contiene e per il posto occupato dal suo autore nel panorama ideologico e politico - effetti di breve, considerata la delicatezza del momento, la fase elettorale, l'offensiva di una destra pericolosa per la stessa tenuta della democrazia; ed effetti di lungo, relativi alla difficile ricerca di ragioni che possano restituire al movimento di classe fiducia e capacità di orientamento?Rispetto al primo quesito, c'è solo da confidare nella poca dimestichezza dell'avversario con i libri. Ma se a qualche esponente dell'armata berlusconiana dovesse capitare di scorrere pagine nelle quali i giudizi formulati dal Libro nero del comunismo sono ripresi e anzi aggravati ad opera di una "intelligenza di sinistra", non è difficile immaginare che la campagna elettorale della destra potrebbe trarne beneficio. Non è male poter dire che ormai la stessa sinistra "antagonista" ammette che il comunismo è di per sé, consustanzialmente, fonte di devastante violenza, e che tale connaturata potenzialità ha di fatto causato tragedie ancora più cupe di quelle generate dal nazismo.Quanto al lungo periodo, vale la pena di considerare con cura i rischi incombenti. Senza volere drammatizzare, ormai è in gioco non più soltanto l'identità culturale e politica dei comunisti, ma la possibilità stessa di pensare e agire in vista della trasformazione della società e del superamento del capitalismo. A quanti hanno ritenuto opportuno brandire questo libro come un'arma per piccole scaramucce ideologiche è sfuggito l'aspetto cruciale e più inquietante. Il comunismo è il bersaglio visibile di un'offensiva che mira in realtà a un obiettivo molto più ambizioso. Sotto accusa è la modernità, ma che cos'è la modernità contro cui si scaglia? Se liberiamo il discorso dagli artifizi polemici, emerge con chiarezza che l'attacco muove contro l'idea che si possa agire collettivamente per migliorare il mondo, che masse di individui possano muoversi in forma coerente ed efficace in vista della propria liberazione, che la storia possa essere il luogo della loro prassi trasformatrice. Certo, sul banco degli imputati figurano il "produttivismo industrialista" e la "razionalità burocratica", il nichilismo della tecnica e la hybris della ragione strategica. Ma se si gratta la superficie, ben altri nodi vengono al pettine.
Il "peccato mortale" della modernità è avere "concepito la Storia come prodotto umano" e avere "tentato di produrla secondo gli imperativi di un costruttivismo totale". E' avere pensato che masse di diseredati potessero irrompere sulla sua scena e agire da protagoniste, giacché questo pensiero si è tradotto nello scardinamento di un mondo migliore, reso umano e libero proprio dall'"eterogeneità premoderna", da una "stratificazione sociale" a torto avversata come sinonimo di iniqua ineguaglianza. La colpa capitale è stata avere creduto di poter decidere il corso degli avvenimenti, non averne accettato l'incoercibile potenza: è stata avere levato lo sguardo verso l'alto, distogliendolo dal piccolo mondo delle "consolidate abitudini", del "consumo comunitario", della "micro-cooperazione quotidiana". Per questo si è scatenata una violenza inenarrabile, la furia di una nemesi fatale. Dunque basta con la pretesa di fare la storia, basta con l'illusione di "conquistare" la società, basta con la "retorica del "soggetto collettivo".Sia chiaro: un libro non potrebbe da solo radicare, nella mente di tanti, questi o altri convincimenti, nemmeno se fosse segnato da tragica grandezza. Ma qualsiasi libro può dare impulso all'ulteriore diffusione di idee recepite, tanto più se a scriverlo è un intellettuale riconosciuto e apprezzato. Questo è il vero conto che il libro di Revelli ci presenta e che non sarà comunque facile pagare. O risaliremo la china della dissipazione della nostra intelligenza critica, e sarà dura fatica; o persevereremo nell'irresponsabilità, lasciando che altri continuino a fare la storia (anche la nostra), e a costruire il mondo nel proprio interesse.

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Marco Revelli: Ditemi tutto ma non revisionista (il manifesto, 2.03.2001)

Quando è troppo è troppo. Come ho già scritto al direttore di Liberazione in merito a un articolo di Claudio Grassi sul mio ultimo libro, Uscire dal Novecento, sono un uomo mite. Credo anche tollerante. Nel confronto culturale ammetto quasi tutto, anche l'invettiva, persino la scomunica (ne ho appena ricevuto una da Pintor su questo stesso giornale, e non me la sono presa più di tanto). Ho scritto un libro volutamente provocatorio e doloroso (innanzitutto per me stesso) sul secolo passato e sulla nostra storia, con l'idea fissa che quella porta comunque dovesse essere aperta, senza rimozioni o timori reverenziali. Figuriamoci se m'infastidiscono le critiche anche aspre. Le considero al contrario una risorsa preziosa. Ma una cosa non la sopporto, e credo dovrebbe essere con rigore bandita: la falsificazione consapevole delle idee altrui. La costruzione di comodo di una falsa posizione dell'avversario, scelto di volta un volta come oggetto di una campagna offensiva, per poterlo più facilmente stroncare. Con ogni mezzo. E in modo tanto più feroce quanto più è politicamente vicino.
Ora leggo sulle pagine del manifesto un articolo (che pare scritto dalla
stessa mano), in cui Alberto Burgio ripete, in forma un po' più articolata (ma neanche tanto) la medesima accusa: l'assimilazione tra le mie posizioni e quelle del "revisionismo storico"; l'identità tra la mia lettura del Novecento e quella delle correnti più aggressive della destra culturale e politica; l'accusa sottintesa, dunque - che francamente mi suona un po' ridicola - di "fascismo" o di contiguità con esso... Ho scritto decine di pagine del libro per criticare alla radice il paradigma del "revisionismo storico". Ho scritto più di un capitolo contro il modello di storiografia, il metodo e le conclusioni - fattuali e ideologiche - del Libro nero del comunismo. Ho sostenuto fino alla noia (mia e del lettore) che tra comunismo e fascismi passa una differenza fondamentale, che li rende tra loro non solo non assimilabili ma neppure confrontabili, poiché l'uno (il fascismo, in particolare la sua versione nazional-socialista) ha incarnato una forma di "male assoluto" in cui mezzi distruttivi e fini abominevoli hanno coinciso perfettamente, mentre l'altro (il comunismo nella sua forma novecentesca) ha prodotto una tragedia storica in cui fini nobili ed emancipatori sono stati negati e rovesciati dal predominio di mezzi inumani. Tutto inutile. Burgio denuncia, senza vergogna, "la piena consonanza tra la lettura del Novecento compiuta da Revelli e le tesi fondamentali del revisionismo storico" - precisando, a scanso di equivoci:"nella versione di Nolte e Furet". E aggiungendo, incredibilmente: "una consonanza che Revelli non occulta, anzi proclama" (esattamente così: leggere per credere!), per concludere, infine, in un crescendo, che, per Revelli "il comunismo è stato il fratello siamese del fascismo e dei due il più malvagio" (sic!). So che potrei anche compiacermene, perché questa è in fondo la prova vivente della validità della mia analisi sugli aspetti più deteriori di un certo tipo di militanza. So che dovrei mettere gli scritti di Burgio-Grassi in una teca di vetro, e conservarli amorevolmente perché offrono (in forma certo farsesca dopo tante tragedie) in filigrana il profilo quasi paradigmatico del metodo politico (e della figura idealtipica) che speravo ormai di poter solo studiare: la medesima inquisizione sulle idee e sulle responsabilità oggettive di chi le propone, al di là delle intenzioni e delle parole stesse di chi le ha formulate; lo stesso richiamo all'immagine del complotto che starebbe "dietro" alle idee, della connivenza col nemico, della convergenza oggettiva e dell'uso politico che quello ne può fare; la sovrapposizione retorica della maschera del nemico (o quantomeno dell'avversario) al volto fino a ieri amico (anzi, compagno); la concezione secondo cui i prodotti culturali servano a strutturare eserciti, correnti, partiti e frazioni di partiti e non a innescare, al contrario, circuiti di confronto, dubbi, persino contaminazioni. E infine, il grido d'allarme: non aprite quelle pagine! Fermate il contagio. La lettura può essere pericolosa... Potrei, dicevo, compiacermene, se non fosse per i lettori del manifesto, che ricevono così un'informazione falsificata, deformata, ridotta a strumento di microbattaglia politica di basso profilo. E' un peccato per chi crede in un giornale non conformista né bigotto che sia all'opposto palestra di libera ricerca e critica.

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Intervista a M. Revelli (a cura di Grazia Casagrande, l'Unità online, 17.09.1999)

Marco Revelli, docente universitario, economista e sociologo, ha recentemente pubblicato un libro estremamente discusso (Fuori luogo, Edizioni Bollati Boringhieri), nato da una esperienza da lui personalmente fatta in un campo nomadi nei pressi della sua città, Torino. Il dibattito suscitato con quest'ultima pubblicazione non è il primo che le posizione assolutamente originali del suo autore hanno provocato. Innovatore, capace (ed è davvero uno dei pochi) di muoversi su strade non praticate, libero da schemi ideologici, Revelli è riuscito in questi anni a parlare un linguaggio inedito e a guardare la situazione attuale cercando strade non già percorse e già dimostratesi fallimentari: proprio per questo la sua riflessione è estremamente stimolante e ricca. Lo incontriamo e gli chiediamo di parlarci, in sintesi, del suo pensiero.

Può svilupparsi oggi un nuovo pensiero economico e un nuovo pensiero politico? E in che direzione?
Lo stato della riflessione politica mi sembra davvero disastroso. Da qui la mia ansia, e il mio lavoro nasce proprio da questa angoscia. Ho l'impressione che buona parte degli apparati culturali e delle ipotesi politiche, in particolare relative alla sinistra del Novecento, stiano franando con una radicalità e una rapidità davvero molto forte.
Gli ultimi decenni ce lo dicono: sta cambiando profondamente il mondo, stanno cambiando i rapporti sociali, le forme della produzione e noi ci troviamo con un armamentario che o diventa inutile o in alcune situazioni si rovescia nel suo opposto.
Non serve cioè più a trasformare l'esistente, ma serve molto spesso come strumento di costrizione all'accettazione dell'esistente. Da qui quindi questa revisione critica del passato, ma anche il bisogno di innovazione e di una innovazione che non sia quella giuliva dei teorici del nuovo che non fanno nient'altro che riconciliarsi con il "senso della trasformazione". Una innovazione che ci porti a riprodurre una capacità critica adeguata alla sfida, che è molto alta.

Su quali temi si fissa la sua riflessione?
Il principale oggetto di riflessione è proprio quello che diceva: la politica e l'economia. Riflessione sul Novecento in cui la strana coppia Stato-Mercato (con la politica tutta identificata con lo Stato e l'economia tutta realizzata nel mercato) hanno bene o male dominato il campo. Sembravano avversari, e da un punto di vista ideologico lo erano, nella pratica però si sono sostenuti a vicenda e hanno dominato in modo totale e totalitario l'universo, cancellando un altro elemento che a me sembra cruciale: la società, i rapporti sociali, la dimensione sociale.
Tra la politica e l'economia c'è la società, e questa è stata in qualche misura cancellata nel corso del Novecento.
Anche perché sembrava che economia e politica alleate producessero una sorta di circolo virtuoso: occupazione, crescita, sviluppo, diritti. Io non mi nascondo gli aspetti positivi del Novecento, ma oggi tutti questi implodono, ricadono su se stessi: è il dramma di questa scarsa autonomia del sociale, del legame sociale. Questa è la mia ossessione: un legame che viene continuamente reciso, e ci sono molti coltelli che si affilano per tagliare i legami e creare individualismo spinto, atomismo, e incapacità di stare insieme. Questo problema, a mio avviso, oggi richiede un investimento diretto.

Che cosa si potrebbe fare praticamente?
Tutte le mie prediche finiscono con la richiesta di un maggiore impegno per "fare società", investire energie intellettuali, tempo e disponibilità personale a spendersi per ricostruire questa capacità degli uomini di stare insieme, altrimenti dominano le megamacchine non più repressive (perché non c'è più bisogno di repressione), ma le megamacchine conformiste, le logiche plebiscitarie e nella sostanza autoritarie, la dimensione personale della politica e in fondo si apre la strada a disastri, alla guerra, come ad esempio quella nel Kosovo che è la sintesi di questa crisi che oggi viviamo.

In epoca di globalizzazione la sua risposta è riscoprire la piccola realtà. Una risposta affascinante, ma difficile da far penetrare.
Sì, potremmo sintetizzare la mia tesi dicendo : scoprire il locale, dopo che la dimensione nazionale della politica novecentesca l'aveva in qualche modo cancellato . Riscoprire l'ambito nel quale gli individui possono realizzare un controllo e non devono delegare.
Naturalmente il locale è pericoloso, pieno di trappole, di trabocchetti e di veleni: se diventa localismo, finisce per imputridire e lo vediamo negli esempi nefasti delle logiche etniche. Queste sono forme di locale che si blinda nei confronti dell'altro.
Penso invece a un locale che abbia la forza di entrare in rapporto col globale.
Da qui il mio interesse per la logica delle reti, per le nuove tecnologie che oggi ci permettono di non morire sul posto, pur riscoprendo il gusto di lavorare nel locale e di tessere relazioni sociali, ma attingendo nelle reti "lunghe" del globale valori, saperi, stimoli, contatti.
Questa dimensione di mediazione tra locale e globale bypassa il vecchio stato nazionale che è in crisi ed è scavalcato da tutti i grandi processi.
Scavalcato verso l'alto e verso il basso: le identità si riproducono in basso e le decisioni si svolgono al di sopra delle teste dei politici nazionali. È una grande scommessa.

Lei dà molto rilievo a quello che si definisce "privato sociale".
È la principale risorsa emersa in questa fine secolo, per certi versi lo paragono a quello che è stato all'inizio del secolo la grande fabbrica fordista taylorista che dava il segno all'epoca. La nascita di questo settore (che è molto di più di un settore, è un modello, un modo di vita, un tipo di atteggiamento) a mio avviso ha un grandissimo valore propositivo.
Anche questo con moltissime ambivalenze e ambiguità, come avviene per tutti i fenomeni nuovi che nascono da un processo così impetuoso. All'interno ha enormi risorse: l'idea di un gran numero di uomini e di donne che cooperino tra loro non per il loro interesse individuale, ma per il bene comune, è straordinario, è la vera rottura epistemologica rispetto alle logiche novecentesche.
Nello stesso tempo non mi nascondo che politica e economia stanno cercando massicciamente di conquistare questo terreno, di strumentalizzarlo, di metterlo al loro servizio, di colonizzarlo anche in modo inquietante. Anche le logiche "bocconiane" di trattare questo settore a colpi di budget, al conto di profitto e perdite, come una impresa, rischiano di disperdere la straordinaria carica di disponibilità umana che vi è presente.

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