NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Stalin e sullo stalinismo
in costruzione


I comunisti e Stalin

Una discussione a ruoli "rovesciati". Il cattolico-liberale Cossiga difende in toto lo stalinismo, l’ortodossia della III Internazionale, l’Unione sovietica. Il comunista Bertinotti ribadisce la necessità di una discontinuità radicale con il modello staliniano e ripropone il comunismo come processo, e percorso, di liberazione. Scambio di lettere, tra il segretario di Rifondazione comunista e l’ex-Presidente della repubblica, in occasione del Congresso del Partito della sinistra europea

La storia non si fa con i "se" e i "ma"
Lettera di Francesco Cossiga a Bertinotti (Liberazione, 15.05.2004)

Caro Bertinotti,
tu sai come, pur avendo combattuto duramente il Pci durante la Guerra Fredda per aver scelto nel e con il mio partito, la Democrazia Cristiana, l'Occidente liberal-democatico, non ho mai avuto pregiudizi ideologici nei confronti del comunismo. Di esso non mi ha mai scandalizzato, come democratico, né la concezione "classista", né quella di "dittatura del proletariato" nel senso leninista del termine, (sì, nella mia vita giovanile, la mia "innocente follia" mi ha portato tra i diciassette-diciotto anni a leggere perfino i due volumi delle opere scelte di Lenin, editi in bellissima veste tipografica dalla Edizioni in Lingue Estere di Mosca!), né il concetto di "pianificazione economica", né quello di "proprietà comunitaria dei beni di produzione", concetti che nell'800, a ben vedere erano comuni a tutti i movimenti socialisti. D'altronde, la "proprietà pubblica dei mezzi di produzione" come punto programmatico qualificante è stata cancellata dal programma politico del partito laburista britannico solo in uno dei suoi ultimi congressi, sotto la leadership del liberal Tony Blair, e anche tra non poche opposizioni! Ma forse questo Silvio Berlusconi, grande ammiratore e strategicamente alleato del partito laburista, non lo sa!
Tu sai come io, a sedici anni, forse anche per l'esempio di miei cugini Enrico e Giovanni Berlinguer, sia stato ad un passo da iscrivermi al Pci, perché esso rappresentava, o sembrava allora rappresentare, la opzione radicale a favore di quell'antifascismo e di quel repubblicanesimo nel quale ero stato educato. Se alla fine non sono diventato comunista è perché non potevo accettare il suo "materialismo dialettico" e la sua "utopia scientifica" di creare un "uomo nuovo" ed un "mondo nuovo", e cioè di "ricreare la creazione", perché da cristiano credevo, come credo, nel peccato originale e quindi nella necessità della redenzione per la salvezza dell'uomo e anche della Storia, e cioè nella caduta dell'uomo e della creazione, della natura, del tempo e della storia, che possono essere sanate nell'essenza, ma non negli effetti, appunto dalla Redenzione, e cioè dalla nascita, dalla morte, dalla resurrezione e dall'ascensione di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Uomo e Dio, per mezzo della sua Chiesa; perché credevo, come credo, che la «nuova terra ed i nuovi cieli» si avranno solo con la Parusia, e non per opera dell'Uomo, ma per dono di Dio; perché non credevo, come non credo, che il «Regno di Dio sia di questo mondo», che è e rimane imperfetto e corrotto; perché ideologicamente sono per il "primato della libertà", e non credevo, e non credo, che senza piena libertà vi possa essere vera giustizia, e per questo essendo "laico", cattolico-liberale e democratico, e non come l'amico Romano Prodi cristiano-sociale ed anche un po' "clerical-integralista" al modo di quel santo monaco che è stato Don Pippo Dossetti.
Diverso il discorso sul "materialismo storico" e sulla "legge" della lotta di classe, che se non il "criterio unico", sono certo un criterio importante nella interpretazione della Storia e per la concezione e la realizzazione di una politica riformista. Diverso il problema "della dittatura del proletariato", purché temporanea e soltanto come "via di forza" alle riforme, dato che nell’800 è stata la "dittatura della borghesia" contro l’alleanza Trono-Altare e contro le "plebi" reazionarie, con l’arma del governo delle élites e con il suffragio limitato, a imporre alla vecchia società il sistema delle libertà costituzionali ed a fondare il regime costituzionale, rappresentativo liberaldemocatico, poi definitivamente consolidato in regime parlamentare con l’apporto delle masse popolari cattoliche e delle masse socialiste, attraverso la loro azione politico-sociale e l’allargamento del suffragio elettorale.

Il comunismo potrà "riapparire"
Non credo che il comunismo, che è stato un grande ideale di giustizia, di indipendenza, di libertà e di liberazione per milioni di uomini – che nulla o poco peraltro sapevano di marxismo e di materialismo, né dialettico né storico! - sia "morto", quando è crollato il muro di Berlino e, in una notte storica, dalla torre del Cremlino fu ammainata la bandiera rossa con la falce ed il martello, e l’indomani fu issata su di essa la bandiera bianca-azzurra-rossa dell’antica Russia e del pan-slavismo. E non credo neanche che per ukase dei nuovi abitanti del Cremlino sia potuta mai essere cancellato l’ideale e neanche l’ideologia del comunismo. Un grande teologo cattolico, forse oggi il più grande, ha scritto allora che il comunismo, come ideologia e come movimento, presto o tardi sarebbero «riapparsi».

Aggiornarsi non basta
Apprendo che in Roma, voi di Rifondazione Comunista insieme ad altri partiti europei di sinistra, avete ora dato vita ad un partito di "sinistra alternativa" al partito della "sinistra europea" d’oggi, che è in realtà la socialdemocrazia, dai molti "accenti", ma sostanzialmente riformista e liberal. Penso che questa "sinistra europea alternativa" sia e voglia essere una sinistra comunista, di un comunismo che certo tenga conto delle profonde trasformazioni della società e degli epocali mutamenti storici intervenuti in questi decenni. Ma perché voi possiate credibilmente fare questo, non potete condannare o "rinnegare" il "comunismo storico": e quindi non potete condannare e rinnegare, come sembra che tu voglia ed abbia anche proposto, né Stalin né lo stalinismo.
Non dico certo che il comunismo non fosse teoricamente pensabile, anche in una sua "incarnazione" storica, senza Stalin e lo stalinismo. Ma affermatasi giustamente, anche per realismo internazionale, la tesi della "realizzazione del socialismo in un solo Paese", non per volerlo limitare in via di principio a questo, le antiche Russie, ma per l’impossibilità storica, sociale e politica di una contemporanea rivoluzione universale su piano mondiale, e anche per poter disporre di un "punto di forza statuale" per la diffusione e per l’affermazione dell’internazionalismo comunista, il "comunismo storico" non poteva nell’Unione Sovietica che essere stalinista, e non poteva, abbandonata l’utopia della rivoluzione generale (ricordiamo la fine che fecero le "ribellioni" ed il tentativo di "colpo di Stato" comunista in Baviera e il tentativo di rivoluzione spartakista nel resto della Germania, stroncati dai governi socialdemocratici, e lo stesso effimero regime comunista in Ungheria), i partiti comunisti non potevano, pur nel Comintern prima e nel Cominform dopo, che guardare al Pcus staliniano come al "partito guida", e all’Urss di Stalin come lo "Stato garante", e quindi comportasi di conseguenza, sul piano nazionale ed internazionale, e anche nei loro giudizi relativamente agli altri Paesi ed alle vicende internazionali.

Quel Patto, un capolavoro
Per questo, e giustamente, i partiti comunisti non sovietici, compreso il Pcd’I di Togliatti, all’estero e in Italia, nelle carceri o in clandestinità, salvo qualche "comunista romantico", non condannarono il Patto Molotoff-Ribbentrov, (l’autentico capolavoro diplomatico politico-militare di Stalin, che impedì alla Germania nazista di continuare in profondità l’avanzata delle sue armate da un Polonia debellata, grazie al "pacifismo senza se e senza ma" di Francia e Gran Bretagna, attraverso i territori russi, e diede all’Urss il tempo di prepararsi economicamente e militarmente all’aggressione germanica, invadendo nel frattempo la piccola Finlandia, con un abile diversivo a fini di ingannare il Terzo Reich e lo stesso Occidente sulle reali capacità militari dell’Armata Rossa e di "neutralizzare" un suo fianco), Ma invece questo accordo, pochi per conoscenza e sapienza politica e i più per giusta obbedienza internazionalista, disciplinatamente accettarono e difesero al loro interno e nei confronti degli scandalizzati antifascisti d’Occidente, democratici e socialisti riformisti che peraltro a Monaco di Baviera si erano "arresi" ad Hitler, anche esponendo all’aggressione nazista non solo la Cecoslovacchia, la seconda vittima dopo l’Austria, e la Polonia, ma anche poi il Belgio, il Lussemburgo, i Paesi Bassi ed infine l’Urss. Per questo giovani comunisti, esponenti delle classi alte inglesi o tedesche, accettarono con spirito internazionalista di servire la causa comunista facendo, anche sotto coperture conservatrici o di "servizio alla Corona" o nei ministeri di Berlino, gli informatori del Kgb, da Philby a Trepper, dal "Five’s Ring of Cambridge" alla "Die Rote Kapelle".

Il ruolo storico delle purghe e dei gulag
Certo, comprendo come lo sterminio in Unione Sovietica, dei rifugiati italiani "comunisti - anche se solo sospettati come - non ortodossi" dell’Hotel Lux, e la fucilazione per "deviazionismo nazionalista" di tutti i membri del Comitato Centrale del partito comunista polacco, possa non piacere; comprendo come possa parimenti non piacere l’annientamento dell’organizzazione politica e delle brigate militari degli anarchici e del Poup in Catalogna, nel pieno della Guerra Civile. Non credo che tutto questo in fondo piacesse né a Togliatti né a Longo, che coerentemente diedero anche una mano, ma essi accettarono realisticamente e con spirito "rivoluzionario" la "ragion di partito guida e di Stato guida". E poi, tu forse credi che con la "democrazia dal basso" dei soviet e con la concezione del comunismo come "i soviet più l’elettrificazione", entrambe parto della mente di Lenin, e senza la repressione staliniana del dissenso sociale; l’annientamento dei kulak, e del dissenso politico e militare; le "Grandi Purghe" e i "drammi" delle "Grandi Confessioni", senza i "gulag" e senza la Gpu, l’Nkvd, l’Mvd e poi il Kgb, si sarebbero potuti, amalgamando popoli di razza, lingua, storia e culture diverse e diverse motivazioni del loro impegno rivoluzionario, creare il grande Pcus e la potente Urss, e tu credi che senza il Pcus e l’Urss, e quindi senza il "sistema degli Stati del socialismo reale", organizzati nel Patto di Varsavia e nel Comecon, far vivere e suscitare durante la Guerra Fredda i partiti comunisti ed il movimento terzo-mondista, con la speranza, con l’esempio, con l’incoraggiamento, con l’aiuto economico-finanziario e pur con la minaccia della potenza militare anche nucleare dell’Urss, strumento del Pcus? Certo, comprendo le perplessità e gli scrupoli di alcuni di voi, oggi "neo-comunisti", ma senza il presidio militare dell’Europa centro-orientale da parte dell’Armata Rossa e del Kgb, senza l’imperio della - per quel sistema - certo corretta e "legittima" "dottrina della sovranità limitata" dei partiti comunisti e degli Stati dei Paesi del "socialismo reale" rispetto al Pcus e allo strumento di esso, l’Urss; senza gli interventi militari a Potsdam, a Budapest e a Praga, senza tutto questo tu credi davvero che avrebbe resistito quanto ha resistito di fronte alla pressione ideologica, politica, economica e militare dell’Occidente il complesso sistema: Pcus ed Urss, partiti e Stati dei paesi del socialismo reale, Patto di Varsavia e Comecon; e tu credi che senza avere alle spalle il Pcus e l’Urss gli stessi partiti comunisti di Occidente avrebbero avuto il ruolo che hanno avuto, salvo che non si fossero trasformati, con uno o più "strappi" dal Pcus e dall’Urss, in partiti sostanzialmente "riformisti" e non "rivoluzionari", social-democratici e "trade-unionisti"?

Serietà e fedeltà
Lo "stalinismo" è tramontato, l’Urss si è dissolta, il Patto di Varsavia ed il Comecom si sono sciolti, e molti dei Paesi che li costituivano, anche sotto la guida di partiti eredi o continuatori dei partiti comunisti dell’epoca, sono addirittura divenuti membri dell’Unione Europea e dell’Alleanza Nord-Atlantica, e perfino alcuni di essi particolarmente legati agli Stati Uniti d’America. Ma non per questo, sempre che siate e vogliate essere comunisti, e cioè marxisti-leninisti, "rivoluzionari" e non "riformisti", comunisti certo dell’Europa del XXI Secolo, ma "comunisti" e non "social-democratici" anche se più o meno di "sinistra", come i vostri compagni del partito dei Ds, dello Sdi e del movimento Di Pietro-Occhetto, o centristi riformatori come i vostri amici de La Margherita, o conservatori cattolici "illuminati" come i prodiani, per mantenere ed esser fedeli alla vostra identità storica, voi non potete né condannare né rinnegare Stalin e lo stalinismo, senza i quali voi forse oggi neanche sareste! Basta che li dimentichiate e non ne siate più seguaci! Ma, per carità, se volete essere utili alla vita democratica dell’Europa, e anche dell’Italia rimanete almeno voi seri e quindi fedeli alla vostra storia e radicati nella vostra cultura, che Marx, Engels, Lenin hanno creato ma alle quali anche Stalin e lo stalinismo hanno dato un fondamentale contributo.
Ed è in vero un po' strano che ciò ti debba ricordare ed a ciò vi debba spronare uno come me che non è né marxista né comunista e neanche socialista, ma cattolico e liberale, anche se riformista perché, credendo nel peccato originale, non crede che la natura né dell’Uomo né della Storia sia di per sé buona, e crede quindi che per la libertà, la pace e la giustizia debba essere "corretta", talvolta anche con la violenza rivoluzionaria e con la guerra, dall’azione degli uomini a mezzo dell’azione politica.
Con amicizia e con i migliori auguri per un’azione per la Libertà, per la Democrazia, per la Pace e per l’Europa, il tuo fraterno amico ed in fondo anche "compagno"
Francesco Cossiga


Il futuro si fa se si "libera" il passato
Risposta di Fausto Bertinotti

In realtà, il tuo giudizio su Stalin e sull'Unione sovietica non è il frutto, nient'affatto, di quella "internità" alla vicenda del movimento operaio di cui pur offri prova tanto sagace. Nasce, piuttosto, dall'accettazione e anzi dalla esaltazione della Realpolitik: cioè della coincidenza totale tra la sfera del fatto (l'"accaduto") e quella del possibile. Della storia hegelianamente concepita come "razionalità" inverata. Del passato come tempo "non redimibile". In una vicenda umana così concepita, non c'è spazio né per una prospettiva di liberazione né per il comunismo - che in effetti è l'opposto della Realpolitik - ma solo per catene oggettivamente "virtuose" di effetti, di processi, di risultati. Tu pensi, insomma, con Croce, che la storia «è sempre storia della libertà».

Contro il paradosso di Tecoppa
Ma è proprio da questa concezione che dissento, ancora una volta, radicalmente. Nella tua Weltanschaung di vincitore, ti prendi tutta intera, tutta per te, tutta ed esclusivamente per il campo dell'Occidente, la dimensione della libertà: dal tuo punto di vista, il movimento comunista non poteva nutrire questa aspirazione e neppure questa vocazione. Per questo, puoi considerare così "benevolmente" lo stalinismo: per un lato, i suoi errori, ed anche i suoi orrori, ti appaiono scontati, necessitati, inevitabili; per l'altro lato, ne vedi gli indiscutibili contributi alla storia e al progresso storico.
Li vedo anch'io, questi "meriti". E come si potrebbe non vederli? Isaac Deutscher, un intellettuale di origine trotzskysta e quindi non sospettabile di simpatie staliniane, ebbe a scrivere che Stalin prese in consegna un paese - la Russia - ferma all'età dell'aratro, e la lasciò con la pila atomica. Nessuno, poi, può mettere in discussione il contributo - determinante - dell'Unione sovietica alla sconfitta del nazifascismo: la gloria di Stalingrado. Così come per quasi cinquant'anni è stato evidente il ruolo svolto dall'Urss - dall'esistenza del "campo socialista" - nella crescita e nelle lotte del movimento operaio occidentale, e in quella dei movimenti di liberazione dal colonialismo. Si potrebbe aggiungere, ancora, che Stalin ha esercitato un ruolo enorme anche dal punto di vista della formazione e affermazione del Mito, quasi sempre essenziale nella coscienza politica rivoluzionaria.
Tutto questo è accaduto, certo. Tutto questo è storicamente esatto. Ma la verità storica non è né unica né univoca, come si tende talora a rappresentare. Tutto questo è anche costato prezzi enormi. E ha pagato, prima d'ogni altro, il prezzo di negare, quasi fino a cancellarlo, il proprio fine dichiarato: il comunismo come percorso della liberazione umana, il comunismo come libertà. Tutto questo è stato drammaticamente sconfitto: anzi è sfociato in un tragico fallimento. Qui, diventa essenziale non confondere l'accaduto storico con ciò che anche ieri poteva accadere (e non è accaduto) e con ciò che ancora può accadere domani (e che dipende per una parte grande dalla nostra soggettività, dal nostro agire). Diventa essenziale, insomma, sottrarsi al paradosso di Tecoppa che t'impone di star fermo per poterti meglio infilzare.

Una rottura teorico-politica
E dunque? Dunque, da comunista, in quanto comunista, rigetto lo stalinismo. Non solo le sue efferatezze e la sua oppressività, ma il profondo deficit di socialismo che ha caratterizzato il regime sovietico, generando passività e spoliticizzazione di massa. Non solo le sue violenze, ma la sua pratica politica che, in nome di una presunta "neutralità del potere" (così come della scienza e del progresso), ha bloccato la trasformazione e l'emancipazione rivoluzionaria della comunità.
Questa rottura trova in Marx la sua "legittimità" teorica. Il comunismo come regno della libertà (e della differenza) si fonda marxianamente su tre elementi cardinali: l'impossibilità per l'individuo isolato di diventare davvero libero, senza cioè un rapporto associato con l'Altro; il superamento della proprietà privata, e quindi della "innaturalità" del capitalismo, per superare lo sfruttamento e l'alienazione del lavoro; la comunità (altra rispetto "ai surrogati" che finora si sono realizzati, come lo Stato) come condizione senza la quale a questa libertà non si può arrivare.
Il comunismo soltanto, alla fin fine, può (ha la possibilità di) realizzare la "promessa" della modernità: uscire dalla preistoria e avviare davvero la libera storia dell'umanità. Un comunismo che, dalla critica del modello sovietico, trae lezioni tanto preziose quanto "irreversibili". "Rammemora" il passato, come dice Walter Benjamin: non lo revisiona, secondo le mode correnti, lo riscopre dall'ottica dei vinti, non più da quella totalizzante dei vincitori, lo riscatta. Perché senza questa operazione liberatrice e redentrice, cade l'idea stessa di futuro. (Ti ricorderai che questo grande filosofo "antiprogressista" del XX secolo redasse le Tesi, il suo massimo lascito filosofico, proprio sull'onda dello choc prodotto dal patto Ribbentrop-Molotov: e infatti, l'Angelo di Klee della Tesi IX, scosso dalla tempesta che soffia, ha il volto rivolto al passato).
Analogamente, dal punto di vista religioso, cade la "pensabilità" della salvezza per tutti - per gli ultimi - su questa terra. Se la "Città dell'uomo" e la "Città di Dio" restano abissalmente separate, se la macchia del peccato originale resta indelebile e limita drammaticamente le possibilità liberatrici della collettività umana, se, insomma, non c'è scampo su questa terra, se non per qualche isolato e fortunato individuo, allora la politica non potrà che essere, machiavellicamente, "ragion di Stato". Gestione dell'esistente. "Temperamento" delle cattive tendenze della natura umana. Realpolitik, in una parola. Come vedi, la discriminante non passa tra credenti e non credenti, tra laici e religiosi: ma, piuttosto, tra coloro che vivono come ineluttabile la Separazione (tra natura e storia, tra corpo e anima, tra morale e politica, tra mezzi e fini) e coloro che scommettono sulla totalità concreta degli uomini e dei processi.

Una necessità strategica
Ma la rottura con lo stalinismo è anche e soprattutto una necessità strategica. Essa muove precisamente dalla attualità del comunismo inscritta nella crisi attuale del modo di produzione capitalistico, nell'insorgenza dei nuovi movimenti, nel fallimento conclamato della globalizzazione planetaria, che torna a riprodurre la guerra come il "normale" strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Se così non fosse, potresti ragionevolmente criticare tutta la nostra impostazione come viziata da pulsioni idealiste. Invece i nuovi comunisti, gli oppositori radicali della globalizzazione e della regressione neoliberista, i portatori di un'istanza, altrettanto radicale, di pace e nonviolenza, esistono: sono ben visibili anche e soprattutto nella nuova generazione politica che si affaccia sulla scena dell'Italia, dell'Europa e del mondo. Non possono essere inchiodati, di nuovo, ad uno schema ossificato che comunque non coinvolge la loro identità attuale.
Quando tu scrivi: "comunisti, cioè marxisti-leninisti", operi invece una identificazione indebita: è quel cioè che non è accettabile. È quel trattino che va per sempre cancellato (e che del resto il Pci ha cancellato molti anni prima di cedere alle tentazioni del cupio dissolvi, e non certo per disporsi ad esse): se è vero che il "marxismo-leninismo", lungi dall'essere il risultato "naturale" del pensiero di Marx e di quello di Lenin, è stato piuttosto l'artificiale fissazione ex-post di un'ideologia funzionale al mantenimento di un ordine costituito. Se è vero che esso ha soffocato per decenni la creatività del marxismo - ovvero dei marxismi - e costruito la gabbia di ortodossia ed eresia. Una polarità costrittiva, e profondamente negatrice di quella libertà del confronto (del primato della Lingua, per dirla ancora con Benjamin) che sola può promuovere l'avanzamento del pensiero.
Del resto, essa non è stata mutuata dall'universo della religione come potenza (e potere) secolarizzato? "Solo nella Chiesa c'è la salvezza", si diceva - e l'eresia era il passo che portava alla dannazione. Invece, come ci ha insegnato Karl Rahner, la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo - cioè la grazia, il dono per sua essenza gratuito - sono stati offerti all'umanità secondo il principio del Dio "autocomunicante", in una prospettiva di volontà salvifica universale - per tutti. Ecco, il comunismo che verrà, che vogliamo concorrere a costruire, ha un'analoga ambizione universalistica: non è né ortodosso né eretico. Abolisce lo stato delle cose presenti - lo sfruttamento e l'alienazione del lavoro - e persegue tenacemente un solo obiettivo: costruire la comunità umana capace di determinare il proprio destino, le proprie risorse, le proprie relazioni, al posto della "mano invisibile" del mercato.
Ringraziandoti ancora, il tuo estimatore e in fondo, se ci intendiamo sul termine, fratello
Fausto Bertinotti

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Rina Gagliardi: A cinquant'anni dalla morte di Stalin: Fuori dallo stalinismo. Per il comunismo (Liberazione, 5.03.2003)

«Dimenticare Stalin», una tentazione sempre in agguato Ma, se vogliamo cambiare il mondo, ci è vietata la rimozione

Nel 1967, l'agenzia Novosti diffuse in Italia una pubblicazione di esplicito taglio propagandistico, intitolata L'Unione Sovietica. Piccola enciclopedia: un volumetto "naturalmente" agiografico, colmo di cifre e percentuali sull'industria, l'agricoltura e, più in generale, i risultati di una società ormai avviata sulla strada «dell'edificazione del comunismo». La cosa più singolare di questo testo è che vi è completamente assente un nome: quello di Stalin. La storia dell'Urss - anzi della Russia - vi è ricostruita con una certa ampiezza (a partire dal V secolo a. C. da Vladimir Monomonaco a Pietro il Grande, da Mikhail Lomonosov, fondatore della prima università, fino alla nascita delle prime organizzazioni operaie), fino alla Rivoluzione d'Ottobre. Ma l'unica figura nominata è Lenin, poi dal 1917 si passa direttamente al XXtreesimo congresso del Pcus. Di Josif Vissarionovic Dzugasvili nessuna traccia, a nessun proposito.
Una rimozione così clamorosa da apparire incredibile. Un esempio piuttosto goffo, si potrebbe aggiungere, di riscrittura della storia per cancellazione, tecnica assai sinistra di tipo staliniano (immortalata da Orwell nel suo cedlebre 1984). Essa ci fornisce, tuttavia, un interessante indizio di una tendenza diffusa, in diverse forme, ad est come ad ovest: dimenticare Stalin e lo stalinismo. Guardare a un intero periodo storico con la sensazione concentrata, e certo angosciata, di un'epoca «grande e terribile», nel corso della quale, come ebbe a scrivere lo storico americano Stephen Cohen, «una montagna di enormi realizzazioni» convisse con «una montagna di delitti inauditi». Ma fermarsi lì, appunto. Cercare soccorso nella categoria dell' "incidente storico", sia pure di rilevanti dimensioni, ritornare al fatidico motto crociano dell'heri dicebamus. E soprattutto resistere all'interrogazione di fondo: quella sul perchè, e come è potuto accadere.

La risposta «negazionista»
Le radici della rimozione sono, dunque, molto chiare, e vanno al di là di ogni pur minuziosa, complessa e impegnativa indagine storica e politica. Se il più grande tentativo del XX secolo di cambiare una società nella direzione del socialismo è finito, come è finito, in una immane tragedia e in una feroce e sanguinaria dittatura, che cosa ci garantisce che non sia questo l'esito obbligato di ogni trasformazione rivoluzionaria? Come facciamo a restituire alle nostre parole-chiave - il socialismo, il comunismo - il senso loro proprio, quello di un grande progetto di liberazione delle donne e degli uomini, strappandole, con una sorta di violento strattone concettuale, valoriale e storico, dalle loro concrete realizzazioni su questa terra?
A queste dure domande, come sappiamo bene, una parte ampia del movimento comunista (tutto il gruppo dirigente del Pci, per esempio) ha risposto dilatando oltre se stesso il processo di rimozione: decretando cioè che il «male» era tale fin nella sua radice e fin nelle sue premesse. E che il comunismo era, fin dall'inizio, «incompatibile» con la libertà delle persone. Un secolo e mezzo di storia veniva così derubricato ad errore (ad «illusione», ha detto Furet) e lo stesso Stalin, in un senso preciso, giustificato nelle sue nefandezze - in quanto unico interprete autorizzato, storicamente legittimato, di un movimento, quello comunista, per sua natura cieco e autoingannevole. Viceversa e parallelamente, il capitalismo (e la sua ideologia peculiare, il liberalismo nelle sue multiformi accezioni) venivano assunti come l'unico orizzonte possibile della storia e della società - giusto con qualche correzione, con qualche modesto intervento della politica. Notiamo, ancora, che questa immane «riconversione» politica e ideologica si è prodotta non alla metà dei '50, quando cominciava a squarciarsi il velo sul periodo staliniano, e neppure alla fine dei '60, nel corso della lunga agonia brezneviana, ma a ridosso della fine dell'Unione sovietica, ormai ridotta a fantasma di se stessa. Il Pci, insomma, fu in grado di superare il trauma del XX congresso e del rapporto Krusciov, in quanto portatore di un'esperienza propria, originale, relativamente autonoma dalla cultura politica dello stalinismo. Non sopravvisse, invece, alla caduta del muro di Berlino e all'ammainarsi della bandiera rossa dalle guglie del Cremlino, perchè aveva ormai smarrito la sua identità rivoluzionaria, la sua ragion d'essere. Anche questo è un dato rimasto quasi inspiegato, o poco riflettuto, nella discussione di questi anni.

Lo stalinismo di Stalin
Tocca, dunque interamente a noi - ai nuovi comunisti del XXI secolo, a tutti coloro che non rinunciano al progetto della «Grande Riforma» del mondo - il peso di un bilancio critico, il tentativo di una vera resa dei conti. Su Stalin, prima di tutto, e sullo "stalinismo di Stalin", non sono ammissibili giustificazionismi di alcun genere - soprattutto se si è interessati, come noi siamo vitalmente interessati, al futuro del socialismo.
«Sotto la dittatura di Stalin» ha scritto Aldo Agosti «il processo rivoluzionario è stato deformato e stravolto al punto da rendere irriconoscibile il patrimonio di idee e di valori che era stato alla base della Rivoluzione d'Ottobre. Il danno arrecato all'immagine del socialismo, alla sua forza espansiva, al suo valore di alternativa storica per l'umanità, è stato incalcolabile». E' vero: il tiranno georgiano ereditò, alla morte di Lenin, una sorta di missione impossibile. La rivoluzione europea, e soprattutto quella in Germania, erano state sconfitte, soffocate nel sangue: la giovane repubblica sovietica, dove Lenin aveva operato la sua "forzatura" rivoluzionaria sulla base della previsione di una catastrofe imminente del capitalismo e di un prolungamento indefinito del conflitto mondiale, si trovava sola - senza amici e senza alleati, circondata in compenso da nemici interni ed esterni. Uscita con successo da questa prova immane, essa imboccò la strada dell'industrializzazione accelerata, della collettivizzazione forzata dell'agricoltura, insomma del superamento dell'arretratezza economica: da «anello debole della catena» imperialista, la Russia diveniva la sede di elezione di un altro esperimento impossibile, la costruzione del socialismo «in un solo Paese».

Lo strapotere del Partito
Le radici di ciò che è stato chiamato stalinismo sono anzitutto qui, nel modello di sviluppo che ha prevalso dopo i grandi dibattiti degli anni '20. In un gigantismo economico concentrato soprattutto sulla crescita quantitativa (l'acciaio, l'industria di base, l'energia), sull'ossessione, del resto conseguente, della pianificazione centralizzata (i piani quinquennali), su una modernizzazione che ha compromesso ogni rapporto equilibrato tra città e campagna.
I risultati, ma soprattutto i costi pagati, per questa vera e propria «rivoluzione dall'alto», furono di enorme portata. Bastino per tutte le cifre del primo piano quinquennale,1929: prevedevano un incremento della produzione industriale del 180 per cento, dell'agricoltura del 55 per cento, del Pil del 103 per cento. Non furono raggiunte, se non in parte, ma restano un esempio di "titanismo" raramente raggiunto, in un lasso di tempo così breve. E bastino le cifre sommarie della drammatica guerra civile che si svolse, fino all'inizio degli anni 30, nelle campagne: oltre cinque milioni di contadini deportati, carestie, malattie, inurbamento forzoso. Mutavano radicalmente le basi strutturali dell'Urss e della Russia, avviata a diventare grande potenza economica mondiale.
Ma i mutamenti epocali del sistema economico trascinarono quelli del sistema politico: il partito unico, nel corso di questo processo e di questa gigantesca repressione, diventò sempre più totalizzante, fino a coincidere completamente con lo Stato e con l'unica fonte del potere. Il Partito controllava tutto, dalle scelte economiche all'organizzazione della cultura, la vita politica del vertice come quella della base, la vita quotidiana e il destino dei singoli. Il Partito dettava i piani quinquennali, e costringeva il musicista Prokofiev a riscrivere la sua Katerina Ismailova secondo canoni più "popolari" e meno avanguardistici. Il Partito dirigeva un colossale sviluppo dell'istruzione, della sanità, dell'emancipazione della donna, ma tutto uniformava ai paradigmi del marxismo-leninismo, dottrina sistemica che avrebbe, per primo, fatto raggricciare Lenin, pensatore di straordinario acume pragmatico.
Il Partito era il suo capo, Jozif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin, che trasformò tutte le indicazioni leniniane da proposte contingenti a dogmi ossificati, da «stato di necessità» a principi sempiterni. Con il Breve corso di storia del partito comunista bolscevico, manuale di formazione di base per almeno tre generazioni di comunisti, Stalin fece di se stesso anche un indiscutibile punto di riferimento teorico. Preludio agli eccidi degli anni '30 (il misterioso caso Kirov, l'assassinio di Trotsky in Messico nel '40) e alle grandi purghe del '38, nel corso delle quali vennero assassinati tutti i grandi protagonisti, politici, intellettuali e militari della rivoluzione d'Ottobre, da Bucharin al generale Tukhacewski. Un numero esorbitante di comunisti fu costretto alla «confessione», alla tortura, all'umiliazione di sè, alla morte. E un numero incalcolabile di cittadini costretto ad una vita non degna di questo nome.

Un'eredità drammatica
Ma quanto ha pesato la cultura politica dello stalinismo nella storia dei comunisti del XX secolo? Ovviamente moltissimo. Come avrebbe potuto essere altrimenti? L'Unione sovietica è stata, giocoforza, per settant'anni, il riferimento dei comunisti (ma anche di molti socialisti, laburisti, democratici): era la prova concreta che sì, il capitalismo si poteva superarlo, e perfino con risultati di prima grandezza. E, con la vittoria di Stalingrado e il tributo di sangue e di sacrificio pagato alla lotta contro le armate tedesche, era anche e soprattutto il paese alla quale l'intero occidente doveva la propria salvezza dalla barbarie nazista. Quali altri modelli erano disponibili, riconoscibili, utilizzabili? C'era, sì, per fortuna, la via italiana al socialismo, con la quale Togliatti costruì un partito «nuovo», di massa, sostanzialmente diverso da quello sovietico. Ma neppure Togliatti potè superare l'idea di un campo socialista, rispetto al quale valeva una grande autonomia, ma la cui crescita, sia pure contraddittoria, restava, in quanto era la garanzia oggettiva della propria collocazione strategica: insomma, la prova provata del fatto che i comunisti, con tutti i loro distinguo e tutte le proprie specifiictà nazionali, stavano comunque dalla parte giusta della barricata della storia. C'era, sì, la Cina di Mao, che per molti anni sperimentò un diverso equilibrio tra industrializzazione e agricoltura - fino all'audacia della rivoluzione culturale che metteva in discussione la divisione sociale dei ruoli, il rapporto tra lavoro manuale e intellettuale, la centralità assoluta del «quartier generale». Ma era fisicamente e culturalmente lontana - e soprattutto non apparve mai come un'esperienza "vincente". C'era Cuba, sì, con la sua rivoluzione speciale e autoctona - ma che presto rientrò nell'orbita del sistema sovietico.
Per tutte queste ragioni, e per molte altre, la cultura politica dello stalinismo è stata forte, invasiva, radicata.

I tanti stalinismi
La verità è che, forse, mentre lo «stalinismo» è un'astrazione difficile da motivare, al di fuori del contesto storico e politico in cui maturò, di «stalinismi», invece, ce ne stati (e ce ne sono) molti. C'è lo stalinismo di chi - come vaste masse di milioni di comunisti - ha ammirato incondizionatamente «quel meraviglioso» giorgiano, e non ha mai cessato di ammirarlo prima, e di pensarlo con nostalgia dopo. Un misto di amore per il leader forte - uomo, più o meno, della provvidenza - e per il leader potente, capace di rappresentare in sè tutte le speranze di riscatto dell'umanità subalterna e sofferente. C'è lo stalinismo dei «giustificazionisti», quelli che, seguendo pedissequamente i dettami crociani, giurano sul fatto che la storia non si fa con i "se", e dunque che tutto ciò che è reale è razionale - anche i gulag, le purghe e il terrore essendo un portato inevitabile della storia e della costruzione del socialismo.
E c'è lo stalinismo come eredità, «metabolizzata» ma mai davvero messa in discussione, del fare politica: quella che attribuisce al potere, alla sua conquista e al suo mantenimento un ruolo così privilegiato, da considerare «minore», rispetto all'orizzonte del comunismo, la dimensione della trasformazione sociale, culturale, interpersonale. Non tutti i cultori del primato del potere politico, ovviamente, sono stalinisti. Così come, del resto, non tutti gli «statolatri» sono, al tempo stesso, fautori di una concezione brutale e autoritaria del ruolo dello Stato. Tuttavia, è proprio qui che si annida quella degenerazione che - nel regime staliniano - si fa errore sistematico ed orrore: è nell'assolutizzazione della sfera del potere, è nella separazione permanente tra fini e mezzi, tra il luogo unico della «coscienza» (il Partito) e dunque della verità, e i molti luoghi del disordine (la società), della parzialità, del non sapere. Sì, la nostra rivoluzione è tornata ad essere di pienissima attualità. Sarà bene, questa volta, vincerla davvero, nel politico e nel sociale.
Senza partiti unici e senza depositari della coscienza esterna (esterna a chi?). Possibilmente, con le masse.

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Pierre Rousset: Comunismo e stalinismo, una antitesi

Come comprendere il XX secolo, con la sua commistione di ricchezze e di grandi possibilità da un lato e la disumanità delle loro convulsioni, dall'altro? Dal punto di vista cronologico, malgrado quel che ne dicono gli ideologhi della destra, la risposta non può essere ricercata in primo luogo nell'ideale comunista, o nella realtà dello stalinismo, ma in quella dell'imperialismo.
Il corso del secolo non è stato forse per prima cosa segnato dall'immenso macello del 1914-18, dalla guerra imperialista per eccellenza? La sua disumanità non è forse esemplificata dal sistema concentrazionario che il regime nazista ha portato al suo parrosismo?
Perfino le responsabilità del movimento operaio e socialista nei confronti dei disatri del secolo sono cominciate ben prima della Rivoluzione russa, fin dal 1914 e in ogni caso dal momento in cui i vertici della socialdemocrazia hanno, un paese dopo l'altro, votato i crediti di guerra, tradendo gli impegni democratici e internazionalisti. Non si può rendere responsabile il bolscevismo dell'esplosione delle prima guerra mondiale, e nessuno potrà fingere di ignorare il ruolo disastroso svolto in quell'occasione dai dirigenti riformisti della Seconda internazionale. Eppure , nelle attuali polemiche su comunismo e stalinismo, i laudatori del liberalismo e della socialdemocrazia proferiscono dimenticare quel "dettaglio" della storia che è stato il 1914.

Stalinismo e comunismo, una antitesi
Neppure é possibile rivisitare l'Ottobre 1917, tracciare un bilancio del bolscevismo o studiare le condizioni dell'emergere del regime staliniano senza ricordare la doppia rottura rappresentata, nella storia europea, dalla prima guera mondiale e, nella storia della socialdemocrazia, dal tradimento del 1914.
Il fallimento, nel periodo 1918-1923, delle rivoluzioni nell'occidente europeo determinò le condizioni per una terza rottura, drammaticamente precoce ñ questa volta nella storia del giovane movimento comunista internazionale ñ rivelatasi nelle sue implicazioni altrettanto profonda quanto le due precedenti. Lo stalinismo non è un funesto svolgimento del marxismo ñ di una teoria o di un impegno ñ quanto piuttosto un effettivo sconvolgimento sociale: il sorgere di una burocrazia statale in una società di transizione.
La vittoria dello stalinismo è il risultato di una contro-rivoluzione sanguinosa, di cui è facile cogliere lo sviluppo nel corso degli anni. Il partito, all'inizio degli anni Trenta, non era già più quello dell'Ottobre del 1917, il partito leninista i cui quadri saranno nella maggior parte uccisi, deportati, esiliati. La collettivazione forzata delle campagne, cominciata nel 1929, aprì un primo ciclo di terrore burocratico e di deportazioni in massa; le grandi purghe politiche del 1936-38 produssero, secondo le stime, quasi 700.000 vittime, decimando in particolare i ranghi del Partito comunista e dell'Esercito rosso; la politica dell'industrializzazione forzata facilitò le deportazioni autoritarie di intere popolazioni e il rafforzamento del controllo sociale in un paese in piena trasformazione. La pratica politica divenne sempre più dittatoriale, mentre il numero dei funzionari esplodeva e nuovi privilegi si codificavano e si cristallizzavano. La burocrazia di Stato che era cresciuta nell'ombra nel corso degli anni Venti, non esitava più ad affermare le proprie ambizioni e il suo potere.
Fin dagli anni Venti, alla fine della guerra civile, non si potevano più negare l'estensione della repressione e le limitazioni alle libertà pubbliche, ma con il fenomeno staliniano, si cambiava di scala, quantitativamente e qualitativamente. Era nato un nuovo ordine e la rottura si manifestava in ogni campo: dalla sperimentazione sociale alla cultura, nell'arte come nell'urbanizzazione- La scienza sovietica continuava a progredire ma era ormai imbavagliata: era finito il tempo in cui i ricercatori esploravano liberamente nuove vie, come era avvenuto con l'ecologia sovietica degli anni Venti. La diffusione delle scoperte era ormai sottoposta a censura politica; per ossequiare ai nuovi padroni dello Stato, il riferimento al marxismo si ossificava in un dogma morto .

Tra bolscevismo e stalinismo non c'é continuità, ma opposizione.
Non è questa una confortevole teorizzazione a posteriori. Pochi sono i rappresentanti bolscevichi che, a quel tempo, abbiano sostenuto - come Stalin ñ che il regno della burocrazia corrispondeva alla realizzazione degli obiettivi dell'Ottobre, al socialismo. Fin dal 1923, Lenin, irrimediabilmente ammalato (morrà nel gennaio del 1924), presentiva la catastrofe e ingaggiava la sua "ultima battaglia" (per riprendere l'espressione di Moshe Lewin) per tentare di contrastare l'ascesa di Stalin al potere, moltiplicando gli avvertimenti politici, impegnandosi in un nuovo sforzo di riflessione teorica su problemi di fondo come la questione nazionale e quella contadina-): Bukarin esplorava la possibile evoluzione dei rapporti città-campagna; Rakowski esaminava i "pericoli professionali del potere"; insieme ricercavano, per tentativi, vie alternative a quella del segretario generale. E pagarono il tentativo con la vita! Toccò a Trotskji, salvato a tempo dalla morte con l'esilio, di offrire, negli anni Venti con Nuovo corso, e poi nel 1936 con La rivoluzione tradita, una prima analisi sistematica della contro-rivoluzione staliniana.
Questa contro-rivoluzione non si impose d'un colpo. Maturò a lungo prima di prendere l'offensiva della repressione. Il pericolo burocratico si era manifestato ben presto nella Rivoluzione russa e la minaccia era tanto più chiara dal momento che i dirigenti dell'Ottobre sapevano che la sorte della loro rivoluzione si giocava in gran parte altrove, in Europa, e che là le sconfitte rivoluzionarie si susseguivano, lasciando la Russia esangue e drammaticamente isolata. Eppure essi si impegnarono con ritardo e in modo disorganizzato. nel contrastarla; molti dei provvedimenti presi subito dopo la guerra civile nei fatti rafforzarono il pericolo burocratico: la restrizione dei diritti democratici all'interno del partito al tempo del X congresso; lo sviluppo ipertrofico della Ceka in risposta ai bisogni della lotta contro gli oppositori.

Una contro rivoluzione -non borghese
Nei confronti del processo di burocratizzazione, il successo restava incerto per circostanze obiettive (prolungato isolamento internazionale, mantenimento delle pressioni imperialiste, esistenza di profonde tradizioni autocratiche, arretratezza delle campagne e ampie distruzioni dell'economia, disorganizzazione della società, esaurimento nel paese della dinamica rivoluzionaria-). Per di più, l'apparato dei quadri bolscevichi fu politicamente distrutto dalla frazione staliniana, ancor prima che riuscisse a comprendere la natura del pericolo: una contro-rivoluzione li minacciava, ma non era di natura borghese.
Poiché la rivoluzione russa era stata la prima a trionfare in epoca imperialista, il partito bolscevico non poteva nutrire la sua riflessione con alcun precedente,. e l'esperienza della doppia rottura del 1914 non preparava a cogliere l'originalità del fenomeno staliniano.
Malgrado troppo rare eccezioni, i militanti rivoluzionari dell'epoca si erano resi conto del pericolo rappresentato per il movimento operaio dal processo di burocratizzazione solo con l'esperienza traumatica del tradimento dell'agosto 1914. Se tanti dirigenti socialdemocratici si erano resi complici della marcia verso la guerra ed erano divenuti (come nella Germania del 1918/19) gli agenti diretti della contro-rivoluzione per poi lealmente gestire il capitalismo, questo era avvenuto proprio perché si erano integrati nelle élite della società borghese. Analogamente, la linea di frattura tra la Seconda e la Terza internazionale si inscriveva in uno bipolarizzazione conosciuta: la stessa incarnata da Noske, l'assassino socialdemocratico di Karl Liebnecht e di Rosa Luxemburg. La contro-rivoluzione manteneva il suo carattere borghese.
Lo stalinismo appariva invece come una "figura storica" nuova, del tutto imprevista per i marxisti come del resto, per gli altri. Sarebbe stato possibile coglierne prima l'originalità?Se se può dubitare tanto il processo di burocratizzazione in una società di transizione era estraneo ai canoni d'analisi in vigore, mentre la minaccia classica della contro-rivoluzione borghese restava ben reale e monopolizzava l'attenzione. In tali condizioni, le frazioni antistaliniane del partito bolscevico non seppero unirsi prima che fosse troppo tardi. Nessuno seppe presentare un programma alternativo complessivo veramente coerente. La sinistra del partito, per esempio, interpretò l'alleanza congiunturale tra staliniani e bucariniani, contadini ricchi e imprenditori, semplicemente come l'espressione della pressione crescente del capitalismo; restò politicamente disorientata quando Stalin brutalmente si rivoltò contro i suoi alleati, sostenendo la collettivizazione forzata.
In quanto dittatura burocratica che generava una nuova gerarchia sociale, lo stalinismo era l'antitesi del comunismo. Ma non era un'antitesi capitalista: la burocrazia staliniana assicurava il proprio potere attraverso il controllo dispotico esercitato dallo Stato in una società di transizione, differenziandosi quindi dalle tradizionali burocrazie cooptate dalle èlite dello Stato borghese. Questo ha permesso a Stalin di pretendere di rappresentare la continuità della rivoluzione anticapitalista dell'Ottobre. Questo spiega anche come, pur divenuti riformisti, i partiti staliniani continuarono a essere considerati come "corpi estranei" dalle borghesie europee. Anche nei giorni migliori della coesistenza pacifica, quando Mosca aveva già collaborato alla sconfitta di molte rivoluzioni, lo scontro tra i blocchi (sovietico e occidentale) fu ben reale, strutturale nell'arena internazionale. Occorrerà attedere mezzo secolo e l'implosione dell'Urss, minata dalle proprie contraddizioni, perché una parte della burocrazia sovietica si impegnasse in una complessa transizione a ritroso, perché un Boris Eltsin divenisse l'enfant chéri di Washington e del FMI.

Ragionare senza anacronismi
Lo studio retrospettivo della Rivoluzione russa non è cosa semplice, almeno se si vogliono evitare anacronismi. Forgiati nel pieno della battaglia, spesso confrontati a eventi inattesi, dipendenti dalle situazioni e dalle conoscenze del momento, gli orientamenti del partito bolscevico non si lasciano mai rinchiudere in descrizioni sempliciste; le opinione difese da ciascuna delle sue corenti o dei suoi dirigenti hanno oscillato nel corso degli anni. La critica diviene prudente perché coglie il movimento di un'intelligenza politica e di una qualità rivoluzionaria eccezionale anche se il partito bolscevico non ha mai corrisposto alla figurina convenzionale che ne hanno diffuso poi gli staliniani. I bolscevichi non hanno mai scelto le condizioni in cui si svolgeva la loro lotta, come la rovinosa guerra civile cominciata nel 1918, imposta loro dalle potenze imperaliste. Eí altrettanto evidente che negli anni Venti non era concepibile, visto il contesto nazionale ed europeo, una rimessa in discussione del potere per via elettorale, "alla nicaraguense", anche se non si può non sottolineare che i bolscevichi - e Lenin - abbiano sottovalutato, al tempo del dibattito sulla Costituente, i problemi relativi alla democrazia politica e al rapporto conflittuale sorto dalla legittimità dei soviet e da quella del suffragio universale. Ma non si potrebbe rimproverare ai russi di non aver saputo pensare lo stalinismo prima di averne sperimenata la realtà.

Ma una scelta è possibile
Ma nell'eredità del bolscevismo deve essere fatta una selezione dell'esperienza compiuta, cominciando con lo scartare le teorizzazioni più disastrose sorte durante la guerra civile: la riduzione della dittatura del proletariato a quela del partito; il ricorso a un impossibile monolitismo politico nella speranza di "unificare" la classe e di consolidare la rivoluzione; l'idealizzazione del "comunismo di guerra" al punto di sostenere una ulteriore militarizzazione dei sindacati nella battaglia economica; la svalutazione del pluripartitismo e del pluralismo rivoluzionario di cui pure l'Ottobre era stato ricco-
Ironia della storia, Trotskij - e se ne pentirà ñ porta buona parte della responsabilità nella teorizzazione alla quale Stalin si rihiamerà per coprire la propria dittatira.
Lo stesso si può dire del "terrorismo rosso". Eí difficile giudicare se i bolscevichi durante la guerra civile potessero evitare di contrapporre il terrore rosso allo scatenarsi del terrore bianco, vista la debolezza del loro radicamento nelle campagne e il fallimento (probabilmente per colpe reciproche) della loro allenaza con i socialisti rivoluzionari di sinistra (e con i movimenti anarchici in certe regioni). Qui siamo di fronte a uno dei maggiori fallimenti del bolscevismo di prima del1917. Malgrado tutta l'attenzione di Lenin a questi temi, il partito non ha saputo radicarsi abbastanza nel mondo rurale (cosa forse non impossibile, come hanno dimsotrato esperienze successive, in particolare quelle cinesee vietnamita). Il ricorso al contro-terrore rinvia certo al contesto dell'epoca (con l'eredità mentale del massacro del 1914-18) e il degradarsi dei rapporti di forza (quando la rivoluzione si è trovata con le spalle al muro), ma riflette anche l'isolamento sociale. Misura disperata, il terrore è l'antitesi di una vera politica militare rivoluzionaria che deve provare, nella quotidianità della guerra civile, che i Rossi si battono per altri ideali, e quindi in modo diverso, rispetto ai Bianchi (nella protezione dei civili, nel trattamento dei prigionieri, eccetera). Eppure questa politica del terrore rosso è stata talvolta teorizzata, valorizzata. E anche questo è stato utile a Stalin negli anni Trenta.
La guerra, civile o internazinale, rende aleatorio il pluralismo e restringe il campo di applicazione del diritto, parzialmente occupato dalla politica. Al ritorno della pace, la sua tradizione è cattiva consigliera, poiché in un un regime democratico socialista importa che i governi siano sottoposti a regole istituzionali e a un dritto conosciuto da tutti. Tra guerra e stalinizzazione, la riflessione su questo problema è stata solo accennata.
Fortunatamente, la storia del bolscevismo contiene anche molte contraddizioni. Fino alla metà degli anni Venti, il partito è stato teatro di polemiche e di costanti dibattiti, di grande ricchezza, è riuscito anche a tessere legami complessi di interdipendenza con i movimenti sociali, a dare prova di una vera immaginazione creatrice, ad aprire una breccia di importanza storica. Il bolscevismo ci offre ancora più lezioni positive che negative e resta l'antitesi vivente dello stalinismo ossificato.

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