NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Togliatti e sul togliattismo
in costruzione


Rossana Rossanda: I silenzi di Togliatti, quarant'anni dopo (il manifesto, 19.08.2004)

Sarebbe stato meglio se Togliatti non fosse tornato in Italia nel 1943 e il Partito comunista italiano non fosse esistito? A questa domanda non dovrebbero sottrarsi coloro - anche molti ex comunisti - che imputano al leader del Pci di aver celato la verità sul conto di Stalin. Per cui la vicenda del Pci sarebbe stata non solo un «grande abbaglio», secondo l'espressione di Rita Di Leo, ma un «grande inganno», secondo la vulgata attuale. Domenica saranno quarant'anni dalla morte di Togliatti a Yalta. Allora ebbe l'omaggio di tutto il paese. Quest'anno non sarà così. Non è così dal 1989, come se la caduta dell'Urss trascinasse con sé non solo quella dei partiti comunisti ma l'idea stessa del comunismo. Anche quello che prese corpo in un partito d'opposizione in Italia. E' una ricostruzione ex post storicamente corretta? Non lo credo. Altri argomenti possono essere addotti contro Togliatti in un bilancio severo della sua persona e di quel che fu il Pci. Non questo.
Egli rilanciava nel 1943 il Partito comunista in Italia stabilendo una continuità con l'esile gruppo interno sopravvissuto al fascismo e dando espressione alla leva della resistenza. E' inimmaginabile che lo facesse dichiarando una separazione dalla Rivoluzione d'ottobre e dall'Urss. L'Urss era stata fondamentale nella seconda guerra mondiale, aveva retto, sola con la Gran Bretagna, il peso della Werhmacht fino all'apertura del secondo fronte nel giugno 1944 con lo sbarco americano in Normandia, e Stalingrado era stata per tutti una svolta decisiva. Alla fine del conflitto le perdite umane sovietiche si sarebbero contate in almeno 22 milioni di persone, ed era difficile credere che un paese strangolato dal terrore bolscevico avrebbe contrastato così aspramente un'invasione antibolscevica. Nessuno avrebbe capito un partito comunista che venisse al mondo prendendone le distanze.
Nel suo primo discorso in Italia, Togliatti rendeva omaggio all'Urss, ma affermava che il partito italiano avrebbe perseguito un diverso modello. Non andò oltre. Sapeva che cosa si era lasciato alle spalle, e - a mio avviso proprio perché lo sapeva - tentava di dar vita a un partito diverso dagli altri partiti comunisti. Senza andare a una rottura con l'Urss, che avrebbe esposto la nuova aggregazione, prima ancora che prendesse consistenza, all'attacco del Pcus. Costruiva dunque su una reticenza - e forse più che una reticenza, su un suo giudizio del valore storico dell'Ottobre nel quadro mondiale - il partito nuovo che un giorno definì la «giraffa» per la sua inedita natura. Il tentativo era reso possibile dal trovarsi dall'altra parte del mondo deciso a Yalta, la parte d'Europa non occupata dall'Urss. L'Urss di Stalin avrebbe dovuto sopportare, perché le sarebbe stato utile avere in occidente, oltre al Pcf, un altro partito amico e forte.
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Avrebbe dovuto proporre un partito socialista? O portare il Pci a questo esito il più rapidamente possibile? Questo pensò e disse Giorgio Amendola immediatamente dopo la sua morte, considerando una disgrazia la rottura fra socialisti e comunisti avvenuta nel congresso del 1921 e proponendo la riunificazione dei due partiti. Subito battuto all'interno del Pci, fra le contraddizioni della sua figura è l'essere divenuto da allora uno dei più duri avversari di chi criticava l'Urss, da lui considerata non un modello per noi ma la grande potenza che nel quadro geopolitico il movimento operaio aveva alle spalle: «Loro hanno gli Stati uniti, noi l'Unione sovietica». E non cedette su questo punto finché visse.
Ma un partito socialista avrebbe raggiunto le dimensioni e svolgere il ruolo del Pci dal 1943 al 1989? Oppure è proprio questo ruolo che va considerato funesto? Nessuno, a dire il vero, lo sosteneva fino a poco tempo fa. Oggi lo sostengono in molti, inclusa la direzione dell'Istituto Gramsci: quel che sarebbe occorso al paese nel 1946 era un interlocutore riformista della Democrazia cristiana. Togliatti non lo capì e questo errore si sovrappone - se non è addirittura la stessa cosa - al silenzio su Stalin.
Che cosa è stato esattamente quel partito? Un partito staliniano? Un uso corretto di questa definizione implica che fossero in sue mani gli strumenti repressivi di uno stato. Fu partito leninista? Neppure. Non era un partito di quadri, professionisti della rivoluzione, limitato e selettivo; si proponeva come un partito di massa, reclutava la sua base senza troppi preliminari, e infatti ebbe sempre almeno quattro volte gli iscritti del Partito comunista francese. La verticalità dell'apparato e le regole interne ne facevano una organizzazione dichiaratamente centralizzata, ma dirigere una massa di alcuni milioni di persone implica starne in ascolto, registrando, elaborando e orientando. E trarne alcuni obblighi, fra i quali concedere poco a sanzioni ed espulsioni di natura politica (lo dice una che ne è stata oggetto, le si può credere). Fu sicuramente il partito comunista meno settario. Ed è stata la sua capacità non solo di ridare un senso di sé agli sfruttati, ma di interrogare il bisogno di rinnovamento e modernità di una cultura rimasta conservatrice e chiesastica, che è alla base di quella egemonia che molti amaramente lamentano.
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Detto questo, non avrebbe potuto e dovuto questo partito, una volta consolidato, affrontare la questione dell'Urss? Essa era stata rivelata con dovizia di particolari nel XX Congresso del Pcus dal Rapporto segreto, che era stato fatto arrivare in occidente. Era la testimonianza della direzione del partito sovietico, non lo sfogo di un dissidente, che peraltro si era sentito più di una volta. Il fracasso fu enorme. Togliatti disse: non sapevamo. Mentiva. Mentiva per sé, non fosse che per essere stato nell'esecutivo dell'Internazionale e molto sapeva. Mentiva per gli altri, perché se la base del partito o gli intellettuali ringhiarono, non ringhiò nessuno della segreteria: con il suo «non sapevamo» offriva a tutti una assoluzione. Perché allora sapevano o avrebbero potuto sapere e anche da prima - se sapeva una pedina come me, sapevano anche i dirigenti. Non avevano voluto dire, forse neanche a se stessi, nella speranza che quella Urss lontana potesse essere evacuata dalla nostra esperienza e storia in Italia.
Nel medesimo tempo, nessuno dei ringhiosi fu cacciato - la segreteria fece dire che si trattava di un comprensibile problema di coscienza e non si dovevano prendere «misure amministrative». Nessuno fu cacciato, tutti stancati. L'esperienza più drammatica deve essere stata quella di Di Vittorio, che restò, e la più emblematica quella di Antonio Giolitti, che se ne andò.
Nello stesso tempo Togliatti apriva su Nuovi Argomenti una riflessione sulle «degenerazioni nel sistema» (Nenni avrebbe corretto: «del sistema»), che non uscirono su l'Unità perché alla direzione non piacevano. La medesima direzione non era stata contraria a che nel 1951 Stalin lo sfilasse dall'Italia per fargli dirigere una istituzione nata morta come il Cominform. Quella volta egli rifiutò: la storia fu raccontata da Nilde Jotti e Luigi Longo dopo la sua morte. Togliatti puntava all'ottavo congresso, con la sua tesi della «unità nella diversità», la stessa per cui pubblicava Gramsci ed elogiava Zdanov. Non rompere mai e praticare scelte diverse. Nel 1956 quel metodo apparve assai discutibile e il partito ne pagò il prezzo, ma dovette reggere proprio su questa ambiguità, tacitando, rafforzando e aprendo, con grande collera dei comunisti francesi. Come avrebbe tentato di fare, su un altro continente e su un altro versante, Mao Tze Tung.
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Nessun altro dirigente italiano si inoltrò nel prudente varco che Togliatti indicava. Neanche nel 1964 quando il leader del Pci aprì provocatoriamente tutto il dossier di Gramsci del 1926. Era il momento meno acceso della guerra fredda, dei grandi terremoti ideali, il partito era fortissimo, i socialisti nei guai col primo centrosinistra, la chiesa terremotata. Si poteva fare.
Ma nella base seguì un grande silenzio, perché era una storia «di prima»; e quanto al gruppo dirigente non aprì bocca. Né intervenne sulle note che egli aveva preparato per l'incontro con Krusciov a Mosca, che non avrebbe avuto, ma per il quale avevano insistito i compagni della segreteria, ai quali premeva che si arrangiassero le cose con il Pcus dopo che il Pci aveva rifiutato la conferenza internazionale dei partiti comunisti che l'Urss voleva per condannare la Cina. Così Togliatti mi disse il giorno prima di partire. Non aveva voglia di andarci, in Urss, non apprezzava Krusciov, avrebbe preferito rifugiarsi come ogni estate a Cogne.
Come è noto da quel viaggio non tornò vivente. Mi strinse il cuore veder spuntare all'orizzonte su Ciampino l'apparecchio dell'Aeroflot che ne portava la salma, l'involucro di quell'Urss che aveva segnato la sua vita fra appartenenza e distanza. La segreteria si oppose alla pubblicazione di quelle note, che uscirono per volontà di Longo e qualcuno di noi trasmise, con il suo accordo, a Le Monde. E' curioso che a capire che il socialismo reale si trovava in una crisi lenta ma ineludibile siano stati due vecchi.
Su quel testo, che è interessante vedere nella versione originale con alcune correzioni dolcificanti nel consueto inchiostro verde, nessuno dei giovani leoni del Pci, che oggi chiosano Togliatti con furia, sia andato avanti. E nessuno, salvo Bruno Trentin, offrì neanche un modesto appoggio al dissenso anche di sinistra che allora cominciava a profilarsi all'Est. Nel 1968 l'invasione della Cecoslovacchia trovava ancora una volta furibondo Luigi Longo e prudente la direzione. Il Pci non avrebbe mai aperto a fondo il discorso sull'Unione sovietica e nel 1989 si sarebbe spento con essa.

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Gianpasquale Santomassimo: La virtù repubblicana di Togliatti (il manifesto, 31.08.2004)

La distanza dovrebbe favorire un bilancio distaccato dalle passioni del tempo, il che solo in parte avviene, e per molte ragioni. Il giudizio storico sul comunismo, nel suo impasto variabile di grandezza, tragedia e meschinità, è uno dei temi - e soprattutto in Italia - che non si sono mai «raffreddati», e sembrano ancora influire nel dibattito politico e nel discorso pubblico attorno alla storia. Si aggiunga che il giudizio su Palmiro Togliatti è assai più complesso che per altri personaggi del Novecento, e della storia del comunismo in particolare. Perché Togliatti fu uomo di molte stagioni (e di molte latitudini), e seppe vivere da protagonista una storia, grande e terribile, che nei suoi tornanti travolse molti altri.
Dopo aver mostrato attitudine a saper volgere le traversie in opportunità, e a saper cogliere elementi positivi di sviluppo anche dalle politiche non condivise, il personaggio trovò infine la sua piena valorizzazione nella stagione dei Fronti popolari, a cui partecipò, come oggi sappiamo più chiaramente che in passato, non solo come dirigente dell'Internazionale comunista, ma anche come responsabile e dirigente effettivo dei comunisti spagnoli nel quadro della disperata difesa della repubblica. Da quella esperienza e da quella sconfitta trasse le convinzioni che lo portarono a radicare attorno a un grande partito di massa (inedito nelle sue forme nella tradizione comunista) i termini concreti di un superamento del tradizionale sovversivismo dei ceti popolari e la sua conversione dentro un progetto politico di costruzione di una democrazia, critica dell'esistente ma non eversiva, mediata da una costituzione programmatica, che guardava e guarda al futuro.
Anche qui, come già in passato, Togliatti dovette far fronte a un improvviso e imprevisto dissolversi del quadro di lungo periodo in cui la sua azione si era inscritta, con il crollo della grande alleanza antifascista e la divisione del mondo in blocchi, non solo militari, contrapposti. Salvando il salvabile nella situazione data e guadagnando tempo per il dopo, con compromessi e adattamenti certo suscettibili di critica e di riflessione. E' più che giusto, pertanto, che proprio attorno all'ultima parte della sua attività, quella di Togliatti e non di Ercoli, del partito comunista di massa e del suo ruolo nella storia repubblicana, si esprimano i termini di un dibattito storico che sembra oggi, comunque, partire dal riconoscimento della portata della sua opera, discutendone, come è lecito, meriti e limiti.
Apparentemente, poco o nulla di questo sembra filtrare nel discorso pubblico, che riproduce i toni di quella guerra civile fredda che su questo versante ha accompagnato tutte le fasi dell'esperienza repubblicana. La «leggenda nera» su Togliatti, che gli attribuisce in tono inquisitorio tutte le nefandezze immaginabili, piccole e grandi, è inossidabile nel tempo, e si arricchisce a volte di nuovi e fantasiosi capitoli. Dalle pagine del Candido e del Borghese è tracimata sulle pagine della «grande stampa», guadagnando in audience ma non in qualità.
Eppure, nel dibattito storico che veramente conta, bisogna segnalare che alla fine il tempo è stato galantuomo. Basti pensare a quali erano le querelles più ricorrenti attorno a Togliatti fino a non molti anni addietro: le polemiche sulla svolta di Salerno, sulla caduta del governo Parri, sull'amnistia ai fascisti, sull'articolo 7, ecc. Era l'immagine di un Togliatti impegnato costantemente a tarpare le ali a una rivoluzione che si asseriva a portata di mano (anzi, di mitra), proposta da tradizioni diverse ma convergenti di azionismo e insurrezionalismo comunista, con generosi ma sterili rimpianti su «occasioni mancate», che oggi comprendiamo, con più chiarezza di un tempo, non essere mai esistite (o che comunque erano incredibilmente minoritarie nella coscienza degli italiani).
L'approdo costituzionale di una lotta politica asprissima che in molti momenti avrebbe potuto risolversi in tragedie di tipo «greco», e di una guerra civile non solo metaforica, è un dato storico di civiltà che va messo all'attivo dei suoi artefici.
Nella suggestione delle ricorrenze, è significativo il parallelismo, istituito da molti, tra gli anniversari molto vicini del quarantesimo della scomparsa di Togliatti e quello, quest'anno assai più celebrato, del cinquantesimo di De Gasperi.
Rubricare entrambi sotto la qualifica, molto affollata, di «padri della Repubblica» è atto dovuto ma di per sé poco più che una constatazione. Vale più notare che, se la Repubblica ha avuto molti padri, indubbiamente i due antagonisti in questione concorsero a darle le caratteristiche più radicate e durature.
Nei termini di una «civiltà repubblicana» che è sempre stata precaria e insidiata, ma che ha costituito una cornice positiva di crescita e di sviluppo che la nostra storia non aveva conosciuto in termini analoghi.
Tra le tante suggestioni che può evidenziare il porre in parallelo opera e lascito di questi due uomini, è opportuno riproporre quella constatazione, già fatta molti anni fa, di quanto poco «italiani» fossero, per formazione, trascorsi, punti di riferimento, i massimi protagonisti della fondazione dell'Italia repubblicana, e di come la loro stessa esperienza li avesse posti al riparo da alcune delle caratteristiche della retorica (e dell'approssimazione) più tipiche dello stile nazionale.
Non trovo giusto il rilevo su un tentativo di «appropriazione» da parte della sinistra della figura di De Gasperi, che, a parte eccessi di zelo, di fatto non c'è stata. Dove c'è invece il giusto riconoscimento della statura dell'uomo, di serietà e riservatezza del politico, tanto più avvertibili e degne di rimpianto nel tempo in cui si è governati da un pagliaccio con la bandana. Ma anche il giudizio storico su De Gasperi si era con gli anni precisato e sfumato, e, se non era giunto a quella «equanimità» invano tentata dallo stesso Togliatti, aveva comunque ricondotto i termini della figura di De Gasperi non solo ai governi di rottura dell'unità nazionale, ma anche ai governi unitari che l'avevano preceduta, alla scelta - concorde, con Togliatti - della collaborazione costituzionale, e agli ultimi anni di una resistenza, più ferma e sofferta di quanto si sapesse, rispetto alle forti pressioni, di oltre Atlantico e di oltre Tevere, tese a stravolgere lo stesso spirito costituzionale e spingersi oltre le soglie della guerra civile.
Al fondo, può dirsi che per De Gasperi come per Togliatti grandezza e limiti consistono nell'aver saputo trarre tutto il positivo possibile da una situazione di per sé proibitiva, salvaguardando quasi tutto ciò che era possibile della convivenza civile in tempo di guerra fredda; ma, al tempo stesso, di non aver fatto quanto forse era possibile per uscire da quella logica e dalle sue implicazioni.
Se Togliatti è il «fondatore di una sinistra nuova nella storia nazionale», e proprio per le caratteristiche già dette, come dichiara Piero Fassino in una intervista molto sobria e controllata (Corriere della Sera, 21/8/2004), è giusto che nel riconoscere la portata di questa costruzione ci si interroghi sui limiti di quell'impianto. E non è un caso che alcuni interventi ripropongano il nodo del '56 e le molte implicazioni, immediate e complessive, che quell'anno fece drammaticamente emergere.
La storia controfattuale, per quanto scivolosa e precaria, non è esercizio ozioso se si mantiene entro i confini del plausibile. La tesi che ripropone Mario Pirani (La Repubblica, 20/08/2004), di un Pci che non seppe cogliere l'occasione di una rottura con l'Urss per riconvertire a una pratica e una ideologia compiutamente socialdemocratiche il grosso del movimento operaio italiano, è probabilmente quella che appare a molti, e non da ora, più accattivante col senno di poi. Va detto che ostavano non solo le tanto spesso invocate «condizioni oggettive», ma anche, e in primo luogo, quelle «soggettive»: nel senso che non solo a Togliatti ma anche a gran parte del quadro dirigente e delle masse comuniste appariva improponibile per cultura, mentalità, sentimenti profondi, una scelta che si sarebbe tradotta in un «passaggio di campo» di fatto obbligato. Ma tra salto della barricata e accettazione del fatto compiuto esisteva un'infinità di sfumature intermedie - alcune delle quali realmente rappresentate anche all'interno del Pci da uomini come Terracini e Di Vittorio - che avrebbero potuto essere acquisite. Fedeltà obbligata al campo «socialista» e accentuazione della critica alle connotazioni di quello che negli anni a venire sarebbe stato definito «socialismo reale» erano esigenze che potevano convivere, in maniera tormentata ma probabilmente feconda.
Il tema introdotto da Rossana Rossanda su questo giornale (19/08/2004), della reticenza nei confronti dell'Urss, e di ciò che realisticamente si sapeva su quella esperienza, attribuibile certamente a Togliatti - che pure formulò critiche all'epoca ritenute coraggiose - e ancor più al gruppo dirigente meno legato per formazione e cultura a quel mondo, è senza dubbio un rilievo più che lecito. Proprio perché avrebbe spinto in direzione di quella accentuazione degli elementi di critica e di ricerca di una autonomia possibile che vennero faticosamente e con troppa lentezza acquisiti nel corso degli anni a venire, impedendo di trarre tutte le implicazioni - a quel punto anche «soggettivamente» possibili, e avvertite come tali - dalla crisi del '68 praghese che fu l'effettivo estinguersi di quella esperienza complessiva.
Quarant'anni dopo, sopravvive molto poco del mondo di Palmiro Togliatti. Non solo non esistono più i soggetti storici che lo animarono, ma le stesse coordinate di quel mondo si sono dissolte. L'eredità più corposa nella storia italiana, la tradizione di un partito di massa capace di rappresentare popolo e di fare politica, si è assottigliata fino a divenire esangue, e lo stesso quadro di riferimento di una democrazia costituzionale, aperta alle riforme sociali, sopravvive a stento.
Di quel partito ormai disfatto non c'è in realtà moltissimo da rimpiangere, se si guarda freddamente, né si può pensare di riproporre ciò che è irreversibilmente alle nostre spalle. Altre sono, con ogni evidenza, le strade da percorrere. Eppure, resta il rimpianto, inevitabile, per quella capacità collettiva di analisi concreta su cui si basavano le scelte politiche, per quella attitudine all'analisi differenziata e attenta della società che pare ormai smarrita da almeno vent'anni. E anche, correlata ad essa, quella capacità di esprimere una autonomia di classe - termine anch'esso consapevolmente desueto - che significava capacità di fare le proprie scelte al di sopra dell'effimero, senza farsi suggerire la linea dal circolo del bridge di pochi opinionisti e manipolatori di sondaggi.
Ma la sinistra di oggi non viene più da lontano e presumibilmente non va da nessuna parte.

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Intervista a Piero Fassino: «Togliatti un padre della Repubblica e fondatore di una sinistra nuova» (a cura di Paolo Franchi, Corriere della Sera, 21.08.2004)

«Incancellabile responsabilità su Ungheria e stalinismo. Una lezione: un partito si fonda sulla sua funzione nazionale» È possibile, a quarant’anni dalla morte, formulare un giudizio equilibrato su Palmiro Togliatti , o almeno sul Togliatti «italiano» del periodo 1944-64? E può tentarlo, questo giudizio, il segretario di un partito nato sulle ceneri del vecchio Pci? Piero Fassino pensa di sì. Ma a due condizioni. «La prima: non piegare la valutazione storica alle contingenze della politica attuale. La seconda: guardarsi dalla tentazione di rimuovere, perché nessuna nazione e nessun partito possono avere un futuro se recidono le proprie radici».

Cosa rappresenta Togliatti per la democrazia italiana?
«Come De Gasperi, Nenni, Saragat e La Malfa, Togliatti è stato un padre della Repubblica. La svolta di Salerno ha cementato l’unità antifascista, decisiva per la scelta repubblicana e la Costituzione. Il sì all’articolo 7 ha posto le basi per superare una contrapposizione ideologica fortissima in un Paese segnato dalla questione cattolica, l’amnistia ai repubblichini ha contribuito a voltare pagina e andare oltre...».

È d’accordo con chi sostiene che il comunista Togliatti è riuscito dove avevano fallito i socialisti, a costituzionalizzare un movimento operaio intriso, ben prima del ’21, di sovversivismo e di estremismo?
«Sì. E direi anche che, in qualche modo, Togliatti ha ripreso il grande disegno di Turati e Giolitti, spezzato dalla prima guerra mondiale e dal fascismo. E alla tradizione riformista Togliatti si è rifatto, in alcuni casi anche esplicitamente, nella lotta politica condotta all’interno stesso del Pci nel ’45 contro chi voleva "fare come in Grecia"».

In questo senso, si potrebbe anche dire che Togliatti è stato un rifondatore. Forse l’unico nella storia del Pci.
«Forse, considerando il suo tempo, è stato anche qualcosa di più, il fondatore di una sinistra nuova nella storia nazionale. Il suo Pci, il "partito nuovo", non è più quello della clandestinità e della cospirazione. È un partito di massa, radicato in una società che si sforza di interpretare e di rappresentare. È un partito che diventa rapidamente il punto di riferimento di una parte grandissima dell’intellettualità. E non è un partito ideologico. Il primo volume pubblicato dagli Editori Riuniti non è Il Capitale di Marx ma il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Prefato da Togliatti».

Non teme che le piovano addosso accuse di continuismo, o addirittura di apologia per un leader comunista che è stato tra i principali collaboratori di Stalin?
«Quello che sto dicendo su Togliatti lo potrei dire, in ambiti diversi, per tutti gli altri padri fondatori della Repubblica, a cominciare da De Gasperi. Ciascuno di loro, all’indomani della guerra, ha ricostruito la propria parte politica con l’ambizione di darle una funzione nazionale, e sapendo bene che in nessun modo sarebbe bastato rifarsi alle esperienze e alle identità dell’Italia prefascista. Anche per questo tutti i partiti democratici, che sono stati grandi scuole di formazione delle classi dirigenti, hanno contribuito in misura determinante a incivilire l’Italia».

A differenza dagli altri padri fondatori, Togliatti fu, e si considerò sino ai suoi ultimi giorni, un autorevolissimo dirigente del movimento comunista internazionale. E le sue scelte, e le sue svolte, non erano affatto in contraddizione con la strategia di Stalin e dell’Urss.
«Sì, il Togliatti "italiano" coesisteva con il Togliatti esponente di primo piano del comunismo internazionale. Ma proprio questa contraddittoria coesistenza precluse al Pci la possibilità di essere una credibile alternativa di governo. Togliatti cercò di limitarne i danni: la teoria dell’"unità nella diversità" e del policentrismo, elaborata a cominciare dal ’56, vanno lette anche in questa chiave...».

Il ’56 è l’anno del XX Congresso, e della denuncia, da parte di Krusciov, dei crimini di Stalin: ma Togliatti non apprezzava affatto né Krusciov né la destalinizzazione. Il ’56 è anche l’anno della sanguinosa repressione della rivoluzione ungherese: ma Togliatti apprezzò, anzi, a dire il vero, invocò, il secondo intervento dell’Armata Rossa a Budapest.
«È verissimo, la diffidenza verso Krusciov e la destalinizzazione, e l’atteggiamento sull’Ungheria, sono una terribile e incancellabile responsabilità di Togliatti. In realtà è solo dopo la rottura tra i sovietici e i cinesi, tra il ’62 e il ’64, nei suoi ultimi anni di vita, che Togliatti pone con più forza, come dimostra il Memoriale di Yalta, la questione dell’autonomia. Non bastava davvero. Il tentativo fallì definitivamente nel ’68, con la "normalizzazione" della Cecoslovacchia di Dubcek e la teoria brezneviana della "sovranità limitata". Fu allora che Longo, con la condanna dell’intervento, superò di fatto l’"unità nella diversità". E iniziò un cammino che avrebbe portato il Pci prima all’eurocomunismo, poi allo "strappo" di Berlinguer con Mosca, nell’81, e infine, alla svolta di Occhetto».

Riconoscerà che 21 anni sono molti, per prendere atto dell’irriformabilità di un sistema resa evidente già dalla repressione del tentativo di «riforma dall’interno» di Dubcek.
«È vero, il cammino è stato troppo lento. La svolta avremmo potuto farla già nel ’70, di fronte alla prima crisi polacca; alla fine di quel decennio, di fronte all’intervento sovietico in Afghanistan; nell’81, di fronte al golpe militare a Varsavia. Di volta in volta, Berlinguer accentuò la durezza delle critiche, ma non le portò alle estreme conseguenze, nella speranza che, in un mondo meno segnato dalla guerra fredda, quelle critiche potessero aiutare, a Est, le forze più riformatrici».

Non crede, dunque, che sia stata determinante la preoccupazione per la reazione di militanti e simpatizzanti ancora molto legati al mito dell’Urss?
«Una preoccupazione di questo tipo la nutriva già Togliatti, che pure con l’Urss non intendeva affatto rompere: e infatti cercò costantemente di far sì che nessuna novità della sua politica potesse essere vissuta da una parte importante del partito come uno smarrimento di identità. Berlinguer non poteva e non voleva tornare all’antico. L’eurocomunismo, l’intervista sulla Nato, il voto unitario sulla mozione di politica estera di tutti i partiti dell’arco costituzionale: tutto questo appartiene agli anni della solidarietà nazionale. E tuttavia anche Berlinguer è frenato dalla paura di smarrire le radici. Quando denuncia l’"esaurimento della spinta propulsiva" del modello sovietico, il compromesso storico è già entrato in crisi, e la politica del Pci si indurisce anche per rassicurare il partito: l’ulteriore presa di distanze da Mosca non comporta "cedimenti" in Italia».

E siamo alla «svolta di Occhetto». Che avviene un minuto dopo la caduta del Muro, non un minuto prima.
«Ma era in incubazione dall’autunno dell’88. E, se fossimo stati meno autoreferenziali, e più capaci di metterci in sintonia con i tempi della storia e della politica, avremmo potuto farla sei mesi prima, dopo Tien An Men. Ciò non toglie che si trattò di una rottura di continuità vera: così vera che una minoranza importante del Pci non la condivise, e ci fu una scissione. Non cambiammo solo il nome. Mutò la forma del partito, con l’abbandono del centralismo democratico. Mutò, con l’adesione all’Internazionale socialista, la sua collocazione internazionale. Non sapemmo, è vero, indicare con nettezza l’approdo socialdemocratico cui doveva giungere il nostro lungo percorso: lo abbiamo fatto negli anni successivi».

E di Togliatti, cosa resta?
«Viviamo in un’epoca, in un mondo e in un’Italia del tutto diversi, è quasi inutile dirlo. Ma una lezione, di sostanza, non di metodo, resta viva. E cioè l’idea che un partito non si fonda sull’ideologia, ma sulla sua capacità di mettere radici nella società, e di esercitare una funzione nazionale. Al governo come all’opposizione. Nel ’44 Togliatti lavorò per una sinistra capace di concorrere alla costruzione della democrazia, e si inventò per questo un partito nuovo. Oggi, in tempi di bipolarismo, al più grande partito della sinistra spetta il compito decisivo di concorrere alla riorganizzazione del centrosinistra, creando, con la federazione dell’Ulivo, una forte guida riformista. Sarà il tema del nostro Congresso».

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POLITICA
L'intervista: Cossutta replica al leader ds, «Togliatti innovò grazie ai legami con l'Urss» (a cura di Antonio Carioti, Corriere della Sera, 22.08.2004)

Fassino ha almeno frenato il revisionismo dei Ds La lezione di Togliatti ci insegna anche a tener fermo l’indirizzo di fondo verso il superamento del capitalismo, le cui contraddizioni non sono affatto superate». Armando Cossutta, come ribadisce il titolo del suo libro in uscita per Rizzoli, Una storia comunista , non ha rinunciato agli ideali della sua giovinezza. Per questo l’intervista su Togliatti rilasciata al Corriere da Piero Fassino lo convince poco: «Si tratta di una riflessione attenta, che evita di prestare ulteriormente il fianco alla campagna revisionista sulla storia del Pci. Ma contiene anche gravi errori».

A che cosa si riferisce?
«Fassino sbaglia quando individua nelle posizioni di Togliatti, in particolare nel "legame di ferro" con Mosca, la causa principale del mancato accesso dei comunisti al governo. In realtà il Pci, che era nei fatti un partito riformatore, non poteva governare perché subiva una conventio ad excludendum, una pregiudiziale che non derivava dal suo rapporto con l’Urss, ma dal suo rifiuto della sudditanza nei riguardi degli Stati Uniti. In epoca di guerra fredda, nessun partito socialista europeo riuscì ad andare al governo contro il volere di Washington. Solo de Gaulle affermò una certa autonomia della Francia. Ma in Italia i settori più avanzati della Dc pagarono amaramente tentativi analoghi: prima con la mortificazione di Fanfani e poi con l’assassinio di Moro».

Torniamo a Togliatti: come giudica il suo ruolo nel dopoguerra?
«E’ stato con De Gasperi il più grande artefice dell’Italia democratica: il leader democristiano portò nelle istituzioni i cattolici, che erano stati ostili al Risorgimento, e Togliatti fece lo stesso con il movimento operaio, che era rimasto estraneo allo Stato liberale prefascista. Così venne superato il massimalismo, vizio profondo del vecchio Psi, e i lavoratori acquisirono un nuovo senso di responsabilità verso l’interesse generale del Paese».

Ma non c’era una contraddizione, come nota Fassino, tra la vocazione nazionale del Pci e il suo allineamento con Stalin?
«Qui Fassino sbaglia ancora, perché i due aspetti fondamentali della politica di Togliatti - vale a dire il legame con l’Urss e il rinnovamento della sinistra - non sono separabili. Il Pci non si sarebbe radicato in modo così saldo, se non avesse avuto una caratterizzazione, per usare una parola in disuso, "antimperialista", se non avesse difeso l’indipendenza dell’Italia dalle ingerenze degli Stati Uniti. Franco Rodano, che conosceva bene i limiti del modello sovietico, mi ripeteva: guai se non ci fosse il contrappeso di Mosca, che fa da deterrente alla strapotenza americana».

Però il Pci non presentava l’Urss come un semplice contraltare agli Usa, ma come un esempio riuscito di società socialista.
«Ripeto: il nostro partito non sarebbe stato tanto forte, se non avesse avuto quel rapporto ideale e politico con un mondo che rappresentava la possibilità di costruire una società di tipo diverso. Togliatti certamente ebbe delle responsabilità, perché non poteva ignorare le condizioni reali dell’Urss e le tragedie avvenute sotto Stalin, ma si trattava di compiere scelte difficili, di portata gigantesca. Alla fine la cosa importante è che grazie a lui il movimento operaio sia diventato un’autentica forza di governo. E che sia stata preservata l’autonomia del Pci».

Ma Togliatti non si differenziò mai apertamente da Mosca.
«Non dimentichiamo i contrasti con Krusciov. Nel Memoriale di Yalta Togliatti rivolse dure critiche al Cremlino. E temo che la tensione nervosa cui si sottopose nello stendere quel documento, che poteva scatenare una polemica aspra con Mosca, abbia contribuito ad affrettarne la morte».

Il Pci non avrebbe potuto distaccarsi dall’Urss nel 1956, sull’Ungheria, anticipando la scelta del 1968 sulla Cecoslovacchia?
«La storia non si fa con i se. A Budapest nel 1956 si era creata una situazione che richiedeva decisioni tragiche, rese necessarie dalla guerra fredda. Ma negli anni il Pci dimostrò un’autonomia crescente: condannò l’intervento sovietico a Praga e poi l’invasione dell’Afghanistan».

Lei però dissentì da Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione bolscevica.
«Come ho detto altre volte, Berlinguer aveva ragione nel suo giudizio sull’Urss, ma io avevo ragione nel sottolineare che era in atto una mutazione genetica nel partito. Infatti poi con Occhetto si è arrivati allo scioglimento del Pci, la più grande tragedia nella storia del movimento operaio italiano. E la deriva moderata non ha certo giovato alla sinistra, che oggi è molto debole e nella sua parte prevalente ha rinunciato al superamento del capitalismo, dimenticando così uno degli insegnamenti più preziosi di Togliatti».

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Raul Mordenti: Togliatti quarant'anni fa. E oggi? (Liberazione, 21.08.2004)

Quarant'anni fa moriva Palmiro Togliatti, il massimo politico espresso dal movimento comunista italiano. Quarant'anni ci separano ormai da quella morte, e dal funerale memorabile che, non a caso, ha ispirato tanti racconti orali e artisti (da Guttuso ai fratelli Taviani).
Chi c'era, in quel pomeriggio d'agosto romano di quarant'anni fa, capì che si chiudeva un'epoca della storia d'Italia, ma soprattutto che se ne era già aperta una diversa. Quella sera il proletariato italiano organizzato dai comunisti si rispecchiò e misurò tutta la sua forza: le Federazioni e le Sezioni comuniste con le loro bandiere rosse; i partigiani e gli antifascisti fondatori della Repubblica; le grandi organizzazioni unitarie di massa; centinaia di comuni di tutta Italia, coi loro sindaci e i loro vessilli (e le loro tante bande musicali); un gruppo dirigente comunista che appariva credibile e unito, e una rete di quadri capillarmente diffusa; e delegazioni venute dal mondo intero, dal Vietnam e da Cuba: sul palco, a S. Giovanni, Breznev e Dolores Ibarruri e Terracini (e qualcun altro) a salutare l'ultimo grande dirigente della III Internazionale, il combattente della guerra di Spagna e il compagno di Gramsci. Ma, soprattutto, dentro quel corteo, e ai suoi lati, milioni di lavoratori, di persone comuni, uomini e donne, che piangevano e si facevano il segno della croce e salutavano col pugno chiuso. Direi che il proletariato comunista si riconobbe quella sera "classe per sé", come mai era stato in precedenza, e poté verificare, quasi toccandola con mano, la distanza immensa fra quello che i comunisti in Italia erano diventati e quello che erano stati in un passato ancora recente, cioè solo plebe dispersa, o ristretta, eroica, avanguardia settaria. Era, insomma, stato costruito un grande Partito comunista di massa, non solo "il più grande dell'Occidente", ma forse il più grande e originale del mondo, se si considera che il PCI non era tutt'uno con lo Stato; di certo era stato costruito il più straordinario partito democratico della storia italiana, l'unico vero "intellettuale collettivo" che sia mai appartenuto al nostro popolo; e una tale impresa era stata compiuta in neppure vent'anni (ancora al momento della "svolta di Salerno" il PCI organizzava poche migliaia di iscritti).
Tutto ciò portava, fondamentalmente, il nome di Palmiro Togliatti.
Quarant'anni non sono bastati perché toccasse a Togliatti un "giudizio equanime" (per riprendere il titolo di un articolo memorabile che lo stesso Togliatti dedicò a De Gasperi, in morte del suo grande avversario democristiano). Troppe ragioni, e non tutte nobilissime, si sono opposte a che quella grande lezione politica fosse approfondita e ripensata, soprattutto dai comunisti. Alla mia generazione del '68 Togliatti parve troppo legato a quello che era diventato il PCI, prima sordo nei confronti del movimento e poi, nel '77, responsabile della bancarotta dell'unità nazionale e del sostegno a Cossiga; altri, troppi, che pure erano stati cresciuti dal PCI, nascosero Togliatti, per accreditare l'affermazione di "non essere mai stato comunista" (e in quella bugia c'è in effetti una grande verità); per altri ancora si trattava di vendicare in modo postumo i propri particolari penati familiari; la stessa cultura "cossuttiana" era, a ben vedere, estranea alla lezione di Togliatti, giacché derivava piuttosto dal suo grande antagonista interno al PCI, Pietro Secchia.
L'esito di questi oblii, così diversi fra loro ma convergenti, è stata una rimozione generalizzata e, per molto versi, imperdonabile.
Infatti non era questo il progetto a cui ci impegnammo quando decidemmo di tentare la rifondazione del comunismo in Italia: noi non volevamo arroccarci nelle rispettive tradizioni e colpirci a vicenda con ridicole scomuniche a posteriori, ma al contrario ci impegnammo a rompere con i nostri piccoli settarismi rileggendo insieme tutta intera la storia del movimento comunista (nelle sue glorie e nelle sue vergogne) e a trarne insieme lezioni per il presente e per l'avvenire della rivoluzione in Italia.
Abbiamo imparato da Brecht che sono felici solo i popoli che non hanno bisogno di eroi; è dunque bene che non si sia manifestato un mito di Togliatti (ed è anzi un grave danno che ciò si sia verificato talvolta per Gramsci, ostacolando la comprensione e l'aggiornamento del suo pensiero rivoluzionario). Ma è davvero paradossale che lo sforzo di rifondare un Partito comunista di massa in Italia abbia fatto a meno della conoscenza, dello studio, e (beninteso) della rilettura critica, proprio della pratica e della teoria del dirigente che un Partito comunista di massa in Italia aveva saputo costruire, e lo aveva fatto (questo si ammetterà, anche dai più ostili) in situazioni storico-politiche non facilissime. E' quasi superfluo dire che non si può considerare una rilettura critica la formuletta vuota e saccente del "politicismo togliattiano", che si sente talvolta ripetere in Rifondazione: quella formuletta non è degna dei critici seri di Togliatti, giacché (si converrà) non si costruisce un Partito con oltre due milioni di iscritti a forza di "politicismo", e si dovrà anche convenire che a Togliatti non capitò né di sostenere un Governo come quello di Prodi né di farlo cadere, in entrambe le circostanze senza la benché minima mobilitazione di massa a sostenere quelle scelte, come a noi è capitato invece di dover fare. Così, in mancanza di un ripensamento autonomo del "problema Togliatti" da parte nostra, si lasciano prevalere gli stereotipi peggiori dell'anticomunismo "anni '50": il Togliatti della "doppiezza", o "servo di Mosca", o "stalinista", e così via. Basti a rispondere a queste sciocchezze l'importante articolo di Rossanda sul "Manifesto" del 19/8; ma certo non andrebbe lontano un movimento comunista che accettasse di leggere la propria stessa storia con le lenti deformanti dei suoi peggiori nemici. Tuttavia oggi Palmiro Togliatti è più presente sulle mura dei nostri Circoli, e nei cuori della base comunista, che non nelle biblioteche dei nostri dirigenti (un fatto su cui, forse, occorrerebbe riflettere).
Io penso (e so bene di essere in minoranza pensando questo) che a Togliatti, come a Mosè, sia toccato in sorte di morire prima di poter entrare nella terra promessa della sua politica, potendola solo guardare da lontano. Togliatti morì infatti prima del '68-'69, cioè prima che la società italiana (fecondata in profondità anche da quella sua grande politica comunista) avesse maturato espressioni autonome di mobilitazione e di lotta della società civile, del tutto assenti nella soffocante Italietta democristiana di quegli anni. In altre parole Togliatti non ebbe la ventura di poter "fare politica" con il Movimento studentesco di massa invece che con l'UGI, con il movimento femminista invece che con l'UDI e (soprattutto) col Sindacato dei Consigli invece che con la CGIL di Di Vittorio o Novella, e così via.
Molti sarebbero i punti da mettere all'OdG di questa discussione libera e comune che mi sembrerebbe necessaria (perché non pensare ad un Seminario di studi?): la politica unitaria e delle alleanze, che consentì la Resistenza e poi la Costituzione, come può vivere oggi? (assumendo naturalmente che l'avversario principale non sia oggi il nazifascismo ma il neo-liberismo guerrafondaio e a-democratico). Che nesso ci fu fra la proposta delle "vie nazionali" e i limiti di autonomia dall'URSS e dalla sua soffocante direzione sul movimento comunista? La democrazia interna, praticata nel PCI di Togliatti in forme non ancora da noi studiate a sufficienza, ha ancora qualcosa da insegnarci, in positivo e in negativo? Cosa significò e comportò la grande "operazione Gramsci" (così vorrei chiamarla, proprio per distinguerla dal pensiero di Antonio Gramsci) che Togliatti seppe costruire in prima persona facendone un fattore formidabile (al tempo stesso) di egemonia in Italia e di autonomia dal PCUS? E come si pone oggi il nesso fra la questione democratica, la difesa della Costituzione e della proporzionale, e la nostra proposta di democrazia partecipativa (non più solo rappresentativa)? E ha qualcosa da dirci la politica togliattiana a proposito del problema, per noi cruciale, del rapporto fra il Partito e l'autonomia del Movimento? Ma fra le questioni una mi sembra che debba prevalere su tutte ed essere posta al centro: la questione del Partito comunista di massa e di cosa questa formula possa significare oggi, nell'inedita composizione di classe dei nostri anni. Sembra proprio che ripensare davvero il problema del Partito di massa comporti la necessità di fare i conti con la lezione di Togliatti e, di converso, che il rifiuto, o l'incapacità, di ripensare Togliatti porti con sé la rinuncia all'idea stessa del Partito di massa.

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Intervista a Victor Zaslavsky: Togliatti, democrazia o rivolta? (a cura di Edoardo Castagna, Avvenire, 11.08.2004)

A 40 anni dalla morte, lo storico Victor Zaslavsky rilegge le scelte del leader del Pci: fu uno "stalinista moderato". "Niente lo lega alla visione di De Gasperi. Non scordiamo che chiese all'Urss di intervenire in Ungheria nel 1956"
"Dire che Togliatti condivideva con De Gasperi un'analoga visione di società è fare un insulto a De Gasperi". Lo storico Victor Zaslavsky non ha esitazioni nel tracciare le debite differenze, ribadite anche nel suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana. Dal mito dell'Urss alla fine del comunismo. 1945-1991 (Mondadori), tra lo statista trentino e Togliatti, del quale in questi giorni cade il quarantesimo anniversario della morte: "Fu un antifascista ardente, come tutti i comunisti, e se appoggiò la democratizzazione dell'Italia fu perché l'indentificava con la caduta del sistema fascista. Al contrario, non condivise mai ciò che definiva 'democrazia borghese' o 'procedurale'. Togliatti per democrazia intendeva altro, intendeva l'Urss: per questo cercò nuove formule, come 'democrazia progressiva'".
Eppure nel 1945 bloccò le iniziative dell'ala insurrezionalista del Pci, capeggiata da Pietro Secchia.
"Sarebbe più corretto affermare che Togliatti guidava l'altra ala del partito, quella moderata. A decidere quale dovesse prevalere fu Stalin, che sempre si riservò la decisione finale. Tanto che all'inizio del 1948 nominò Secchia vicesegretario del Pci, inaugurando un carica fino ad allora inedita".
Nemmeno l'accettazione della sconfitta elettorale, il 18 aprile 1948, può testimoniare un inserimento nelle regole della democrazia "borghese"?
"Dobbiamo ricordare che il 23 marzo di quell'anno, meno di un mese prima delle votazioni, Togliatti chiese all'ambasciata sovietica istruzioni sul da farsi in caso di vittoria della Democrazia cristiana. Si teneva aperta la via insurrezionalista, sebbene propendesse per evitarla. Anche perché conosceva il realismo di Stalin, che considerava l'Italia fuori dalla zona di dominio sovietica. Il 26 marzo, comunque, venne il no di Molotov".
A che cosa mirava, allora, l'azione politica di Togliatti?
"L'obiettivo finale era il socialismo secondo il modello sovietico di Stalin. Dopo la morte del dittatore tentò di elaborare altre proposte, ma sempre nell'alveo marxista. Anche la tanto citata 'Terza via' non era affatto un'alternativa tra capitalismo e comunismo: i termini estremi, tra cui mediare, erano la socialdemocrazia e l'esperienza sovietica. La 'Terza via' non elaborò mai modelli di mediazione verso il capitalismo, neppure con Berlinguer".
Come si potrebbe sintetizzare la sua posizione?
 "Fu sempre uno stalinista moderato. Finché fu vivo Stalin, l'accento va messo sul 'moderato', tanto che a volte arrivò a mettersi in contrasto con il Pcus - senza tuttavia giungere mai a gesti di insubordinazione. Dopo la morte di Stalin, al contrario, io sottolineo lo 'stalinista': era molto più vicino a Molotov che a Chruscëv. Non approvò mai l'operato del nuovo segretario sovietico, e il suo era un dissenso di peso: Togliatti contava molto, all'interno del movimento comunista internazionale".
Ebbe un ruolo attivo anche in occasione della repressione sovietica della rivolta ungherese, il 4 novembre 1956?
"Non soltanto Togliatti l'appoggiò, ma anzi sollecitò l'intervento dell'Armata rossa. Già Ingrao testimonia che Togliatti brindò all'ingresso dei carri armati sovietici a Budapest; da un paio d'anni, poi, è emersa una sua lettera di eccezionale portata, recapitata il 30 ottobre al Politburo moscovita allora in seduta permanente. Quello stesso giorno molti dirigenti sovietici, come l'eroe della Seconda guerra mondiale, il maresciallo Zhukov, ma anche stalinisti di ferro come Molotov, premevano per il richiamo delle truppe dall'Ungheria".
Cosa portò a una così repentina inversione di rotta?
"Due eventi contemporanei. Da un lato, in quel momento inglesi e francesi bombardavano il canale di Suez nazionalizzato da Nasser, privando in tal modo l'Occidente della forza e, soprattutto, dell'autorità morale per intervenire in difesa degli insorti ungheresi. Dall'altro, proprio la lettera di Togliatti. Il comunista italiano definiva quella ungherese una controrivoluzione borghese, e informava i suoi interlocutori sovietici che era concreto il rischio di una scissione all'interno del Pci se non si fosse intervenuti per reprimere la rivolta. Si faceva addirittura il nome di un possibile sostituto di Togliatti, Giuseppe Di Vittorio. Questi due fattori insieme contribuirono in maniera decisiva alla scelta finale del Politburo".
I dirigenti dei partiti "fratelli" avevano così tanta voce in capitolo nelle decisioni di Mosca?
"Questo non fu l'unico caso in cui il Pcus subì un influsso esterno. Non è vero che le direttive erano sempre a senso unico e che il Cremlino era una cittadella isolata: le reazioni dei partiti comunisti occidentali avevano molto peso, soprattutto se si trattava di partiti forti. E il Pci era il più forte di tutti".
Una supremazia che si concretizzava anche in ambito culturale.
"Togliatti seguì con precisione la linea indicata da Gramsci: se non si poteva avere il potere politico, occorreva ottenere almeno l'egemonia culturale. E la ottenne".
Nemmeno negli ultimi anni ci fu un'evoluzione della sua linea politica?
"Rimase costantemente in disaccordo con Chruscëv, e alcuni documenti lasciano pensare che approvò la sua defenestrazione. Ammesso che non sia addirittura intervenuto per fomentarla. Togliatti non tollerava l'ultimo progetto di Chruscëv, che voleva scindere il Pcus in due. Per Togliatti si trattava di un inaccettabile sgretolamento del monopartitismo. E prima di morire, a Jalta, incontrò non Chruscëv, ma Breznev e Suslov, i due leader della congiura antichrusceviana".

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Intervista a Enrico Morando: «Tragici ritardi nella rottura con Mosca, Piero doveva dirlo» (a cura di Monica Guerzoni, Corriere della Sera, 22.08.2004)

Il liberal Morando: «Il segretario poteva usare parole più forti sul fatto che la storia sollecitava il Pci a tagliare quel nodo ma il partito resisteva»
ROMA - «Non basta dire che il cammino che ha portato alla rottura con il comunismo è stato "troppo lento", bisogna ammettere la tragica lentezza con cui si è proceduto». Sul tavolo del senatore Enrico Morando, leader dell’ala liberal dei Ds, il Corriere di ieri con l’intervista a Piero Fassino su Togliatti e la prima pagina dell’ Unità del 7 novembre 1963, 46° anniversario della Rivoluzione d’ottobre. «Siamo nei giorni della formazione del primo governo di centrosinistra - ricorda Morando -. L’articolo di spalla racconta l’esito positivo del colloquio tra il presidente della Repubblica Antonio Segni e Togliatti, spinto da una fortissima sollecitazione sul versante delle riforme. Il contenuto del pezzo stride enormemente con l’editoriale, in cui il partito esprime "congratulazioni" e "auguri fraterni" al Pcus nell’anniversario della rivoluzione». Titolo: «Si affermi sempre più la forza liberatrice del marxismo leninismo». Ecco, in quella «impressionante» prima pagina dell’ Unità Morando vede il vero volto politico del «Migliore»: «Lì c’è tutto Togliatti, il suo rapporto con Mosca che premeva sullo sviluppo del Pci fino ad annullarlo, fino a diventarne fattore di blocco».
A quarant’anni dalla morte del leader del Pci, il segretario della Quercia ha definito Togliatti un «padre della Repubblica» al pari di De Gasperi, Nenni, Saragat, La Malfa, nonché il «fondatore di una sinistra nuova». Il senatore riformista non si stupisce, ma appare perplesso. «Togliatti è stato anche il padre di una Repubblica che a causa del suo ruolo di dirigente del movimento comunista internazionale non poteva conoscere alternativa di governo». Ed è stato uno dei più stretti collaboratori di Stalin... «Da riformista, io sono convinto che si debba parlare anche più esplicitamente di rottura. Ma gli elementi di continuità che Fassino riscontra sono in rapporto alla costruzione, da parte di Togliatti, di una formazione politica che cercasse di portare grandi masse di lavoratori dentro la democrazia in maniera inequivoca. Una grande operazione, che condivido».
E se Piero Fassino ammette che il cammino che ha portato il Pci a rompere con l’Urss è stato «troppo lento», il riformista Morando apprezzerebbe «parole un po’ più forti», una condanna netta della «tragica lentezza» con cui i dirigenti di Botteghe Oscure tagliarono il cordone ombelicale con Mosca: «Troppo tardi, visto che le durissime repliche della storia ci sollecitavano nella direzione giusta, a tagliare quel nodo in maniera chiara affermando che non c’è un antagonismo di sistema di cui siamo portatori».
Il problema della rottura col comunismo internazionale si pone al Pci già dal 1956, l’anno in cui Krusciov denuncia i crimini di Stalin, l’anno in cui l’Armata Rossa spegne nel sangue la rivoluzione ungherese. «E il Pci - ammette Morando - arriva sempre un minuto dopo, anche la svolta di Occhetto si compie quando il Muro di Berlino è già caduto». E non ditegli che il freno era la paura della base, la reazione imprevedibile dei militanti... Vi dirà che è solo una leggenda.
«Erano dirigenti e militanti che si trattenevano da soli in una posizione che condividevano, i cui limiti sono alla base di questa anomalia che è stato il Pci, nel bene e nel male. Quel buono c’era anche perché c’era quel cattivo e viceversa. Il Pci ha avuto una grande funzione positiva, ma il rapporto di Togliatti col comunismo internazionale finiva sempre per trascinare verso il basso il partito, incapace di andare al governo per la sua formazione antisistema».
E il Togliatti che in nome della realpolitik avallò i peggiori crimini di Stalin? «La corresponsabilità è evidente e accertata, ma la condanna da parte dei dirigenti della Quercia - assicura il senatore - è stata durissima -. Piero Fassino accompagnò Natta sulla tomba di Imre Nagy, il primo ministro ungherese impiccato dai russi nel ’56». Né si possono avanzare dubbi che con la svolta della Bolognina e il cambio di nome i Ds abbiano davvero voltato pagina: «La discontinuità di Occhetto fu utile perché ruppe con uno dei topos del togliattismo, il "rinnovamento nella continuità"».
Fu a costo di una scissione dolorosa che l’ex Pci aderì all’Internazionale socialista e ora nessuno, sostiene il senatore, può rimproverare alla Quercia di non aver strappato per sempre le pagine più brutte della propria storia. La questione irrisolta è piuttosto un’altra: riconoscere che anche dal Togliatti della «democrazia progressiva» la Quercia abbia tardato a prendere le distanze. «Il freno all’assunzione di una piena cultura di governo sta ancora nel portato dell’idea di quell’antagonismo di sistema».
E oggi? Non è lento anche il cammino verso quell’approdo socialdemocratico a cui Fassino ha legato la ragion d’essere della sua segreteria? «E’ dal 1996 che ci siamo posti l’obiettivo della federazione riformista, che io preferirei chiamare partito. Otto anni di ritardo che hanno comportato sconfitte e ritardi pagati anche dal Paese».

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Bruno Gravagnuolo: Togliatti, la storia migliore (l'Unità online, 07.08.2004)

Dimenticare Togliatti? Impossibile, malgrado i radicali mutamenti di scenario mondiale che ci separano da quel 21 agosto 1964, data della scomparsa del segretario del Pci a Yalta. E impossibile, ovviamente, non in ragione di un anniversario d’obbligo. Presumibilmente segnato da rievocazioni, polemiche e «rivelazioni». Ma perché tale e tanto fu l’influsso di Togliatti sul movimento comunista del ’900, e sull’Italia del secondo dopoguerra, da poter affermare senza tema di smentite che quell’algido e dimesso intellettuale nato nel 1893 a Genova - figlio di un maestro di scuola emigrato da Coassolo a Torino - è stato uno dei protagonisti attivi del secolo passato.
Senza il quale né la storia comunista mondiale, nei suoi intrecci con l’altra storia, né quella italiana, sarebbero state quelle che conosciamo.
Nessuno, nemmeno i più accaniti detrattori, di destra o di sinistra, potrebbe ragionevolmente disconoscere l’incidenza di Palmiro Togliatti. E la prima cosa da fare è prenderne atto. Contro la demonologia diffusa. E contro le tante leggende nere sconfinanti nel linciaggio morale retrospettivo che ha avuto corso in tutti questi ultimi anni. Un costume che non ha nulla a che fare con un equo e severo bilancio storiografico, teso naturalmente a non far sconti alle colpe anche gravi dell’uomo e agli errori della sua vita.

Le leggende nere
Cominciamo allora dalle leggende nere, almeno da quelle più in voga. Per vedere quanta parte di strumentalismo politico v’è in esse, e quanta parte di verità. Prima leggenda nera: Togliatti parassita politico di Gramsci. Risoluto a mollarlo in carcere per evitare guai a se stesso e impossessarsi della sua eredità culturale. È una vulgata bugiarda. Smentita in primo luogo dai ripetuti tentativi di Togliatti - noti anche a Bucharin - di liberare il prigioniero grazie alla diplomazia degli stati e a uno scambio di reclusi tramite il Vaticano. Tentativi ripetuti, bloccati personalmente da Mussolini. Che impedì al direttore del carcere di Turi di assecondare i contatti con Gramsci dall’esterno, e che voleva che il prigioniero scontasse la pena, a meno che non inoltrasse domanda di grazia. Quella «domanda», non di grazia ma per motivi di salute, fu infine inoltrata con l’ausilio di Piero Sraffa, fidatissimo a Mosca, nel 1937. Ma poco prima della morte del prigioniero. Il quale peraltro (concorde contro Trotszky con Stalin) intendeva tasferirsi in Russia.
Fa il paio con tutto il finto affaire anche la vicenda della «famigerata» lettera del 1928 vergata da Ruggero Grieco. Maliziosamente letta a Gramsci - che non la conosceva - da un giudice istruttore intenzionato a intimidirlo, e che già aveva deciso la condanna da richiedere. Stante che a lui, e al regime, era notissima la posizione del Gramsci segretario dell’esecutivo comunista italiano. E visto che la lettera di Grieco - analoga ad altre a Terracini e Scoccimarro - non conteneva assolutamente nulla di compromettente. Tranne la richiesta di notizie ad Antonio e ragguagli dall’esterno sulla politica comunista mondiale. Ipotizzare perciò che Togliatti avesse tramato con quell’espediente - per interposto Grieco - è infondato e assurdo. Laddove è certo che Gramsci, psicologicamente piegato, arrivò erroneamente a ipotizzare una trama. Ma sulla base di qualcosa di ben più serio. E cioè: il famoso dissidio del 1926 con Togliatti. Il quale non ritenne opportuno inoltrare una missiva di Gramsci al Comintern, che ammoniva Stalin e Bucharin a non procedere autoritativamente contro Trotszky, e a non distruggere così il «lavoro» della Rivoluzione. E qui entriamo davvero nel cuore dell’enigma Togliatti. Di quel Togliatti monaco latino alla corte dei barbari Franchi - come scrisse Giorgio Bocca - che umanizzava e copriva la barbarie. Che dissimulava il dissenso ed esaltava il tiranno. Riservandosi al contempo la facoltà di interpretarlo, in virtù di eccezionali doti di prudenza e di cultura superiore che riscuotevano l’ammirazione dello stesso despota, cioè di Stalin. Togliatti infatti era un «buchariniano». Un gradualista passato dall’«ordinovismo», e dal bordighismo di seconda fila del 1921, a un comunismo non settario e tatticamente aperto alla socialdemocrazia. Alla Rossanda confidò una volta: «Quel Bucharin era un matto. Diceva di voler far fuori Stalin!». E all’interlocutrice che gli chiedeva perché fosse matto - visto che aveva ragione - ribattè: «Era matto a dirlo»
In ogni caso Togliatti nel 1928 aveva in testa alcuni punti chiari. Primo: non ci sarebbe stato nessun inasprimento delle contraddizioni capitalistiche verso la rivoluzione e la guerra. Secondo: il fascismo - che era coacervo di interessi - andava disarticolato dall’interno. Senza rinunciare a coinvolgere la socialdemocrazia in un fronte di alleanze, e passando per una Costituente democratico-borghese. Parola d’ordine tra l’altro in tutto e per tutto coincidente con la linea del Gramsci in carcere. Terzo: decisivo doveva essere l’apporto delle masse contadine. E in uno scenario nel quale le singole realtà nazionali andavano vagliate dai singoli partiti, e non congelate dai diktat del Comintern. Tutte cose che dopo il 1929 Togliatti accettò consapevolmente di ibernare. Fino a lasciarle riemergere nel 1934, con le Lezioni sul fascismo da Radio Mosca . Con il VII congresso dell’Internazionale, e poi con i 13 punti in Ispagna nel 1938 (una rettifica del settarismo repubblicano e comunista fatta a tempo scaduto). Innegabile che dopo il 1929 Togliatti - prodigo di elogi sperticati a Stalin - abbia coperto e avallato le purghe staliniane, sottraendo se stesso alla minaccia continua di venire spazzato via, in virtù di delazioni estorte con tortura. Ma al contempo riuscendo a salvare il Pc.d’I dal destino atroce che toccò ai polacchi (da lui controfirmato). Mantendendo quel partito integro e operativo durante la svolta che estromise Tasca, Tresso, Ravazzoli e Silone. Dopo la sconfitta di Spagna e dopo il Patto Molotov-Ribentropp, che schiacciò in Francia il Pcf.

L’unità antifascista
Altra leggenda nera: Togliatti burattino di Stalin, mero esecutore della Svolta di Salerno del 1944. Una tesi falsa e smentita dai fatti. Ovvio che Ercoli non poteva sporgersi oltremisura al di là dei confini segnati di volta in volta da Stalin. Ma nel caso di Salerno lo fece, salvo ritrarsi. Quando le esigenze della politica estera sovietica gli imposero di fermarsi, in attesa di un chiarimento. Nondimeno già dopo l’8 settembre 1943, Togliatti da Radio Mosca annuncia l’unità antifascista con la Monarchia. Dopo che prima del 25 luglio il partito aveva mandato emissari in Italia, per sondare la disponibilità della Corona a quel tipo di alleanza. Quella linea viene ribadita nel novembre. Suscita sconcerto nel centro interno italiano, e infine si blocca. Per rovesciarsi temporaneamente nel suo contrario. Ma nel febbraio 1944 - a riconoscimento di Badoglio avvenuto da parte sovietica (e preso atto del ruolo britannico in Italia) - Stalin dà il suo placet alla linea voluta da Togliatti. Linea lungimirante sia sul piano italiano che su quello internazionale.
Nasce così l’unità antifascista che mette da parte la questione della forma dello stato, legittima «istituzionalmente» la guerra di liberazione, e pone le basi del primo stato democratico italiano. Stato di lì a pochi anni solidale, sociale, di diritto, pluralista, parlamentare. Basato sull’equilibrio di poteri garantito dalla Corte Costituzionale. Fu una rivoluzione immensa per il nostro paese, che per la prima volta conobbe l’inserzione del suo popolo negli ordinamenti della cittadinanza republicana. Tramite una società civile raccordata ai «rami alti» per via di partiti di massa, associazioni e sindacati. Fu la nostra vera iniziazione alla libertà dei moderni. Aperta verso conquiste ulteriori di giustizia e libertà, al riparo da guerre civili alla greca. E ne fu artefice anche il genio politico di Togliatti. Ovvero la sapienza di quell’intellettuale scostante e prudente, erudito e concreto. Che aveva messo la sua intelligenza di monaco e di «giurista» (così lo chiamavano a Mosca) a servizio di una cruda e totalitaria religione barbarica dell’emancipazione proletaria. Paradosso della storia? Astuzia della Ragione che dal negativo estrae il positivo? Senza dubbio anche questo. Ma c’è dell’altro.

Il «suo» comunismo
C’è la natura del comunismo di Togliatti. Comunismo democratico «doppio» tra idea di nazione e Urss (l’aggettivo era suo!). E però diverso, peculiare, moderato. Per nulla radicale o di sinistra sul piano «sistemico». Ma disposto a contemplare al suo interno la proprietà privata e cooperativa, volte a fini sociali. A riconoscere il pluralismo dell’arte e delle manifestazioni del pensiero, nonché di quelle politiche. Delle forme associative, attraverso le quali scriveva nel Memoriale di Yalta «i lavoratori partecipano di fatto in modo organizzato alla direzione della vita sociale». Non era la teorizzazione del bipolarismo. Ma quantomeno era l’immagine di un socialismo democratico coestensivo alla cornice della Costituzione repubblicana. Che doveva e poteva basarsi sulla libertà. Almeno in Italia. Qui davvero non c’era «doppiezza». Semmai contraddizione irrisolta con il finalismo totalizzante della tradizione comunista, da Togliatti mai revocato in dubbio (e semmai edulcorato e contaminato di revisionismo socialista senza dirlo). E contraddizione stridente inoltre permaneva con la realtà del mondo comunista reale. Che Togliatti intese difendere e storicizzare benevolmente. Anche dinanzi alla ferocia dell’invasione ungherese. Nella speranza di una «coesistenza pacifica» niente affatto per lui tattica o «tregua armata» col capitalismo. Ma occasione salvifica di uno scongelamento dei blocchi geopolitici, capace di scongiurare la minaccia della guerra (ai suoi occhi più importante della lotta di classe internazionale). E di far evolvere il primitivismo del comunismo mondiale di stato.
Resterebbe tanto da dire. Sulla religione, i cui valori Togliatti non reputava frutto di alienazione economica in chiave popolar-marxista. E che semmai nel loro durare esprimevano a suo avviso i limiti del socialismo reale «alienato». Sulla cultura. Centrale per il «passatista» Togliatti che vi imperniò un ambizioso disegno (riuscito) di conquista gramsciana dei ceti colti, «filtri», nella sua visione, tra passato, presente e futuro. Dall’editoria, ai giornali, alle riviste. E resterebbe da dire del partito. Che lui volle di massa, egemonico, pedagogico. Addestrato alla responsabilità, alle alleanze e alla previsione concreta dei «contraccolpi». Fu un partito-scuola quello. Università di democrazia degli umili e del ceto medio estraneo alla politica. Un patrimonio di mentalità sottotraccia. Che ancora vive come risorsa attiva. Ineliminabile come forma dell’agire collettivo dopo tante «svolte», in epoca di partiti personali e aziendali. Ma c’è un ultimo elemento da ricordare: l’influsso togliattiano sulle generazioni kruscioviane. Grazie al gesuitismo di quel genio «realistico» e «totus politicus» (per dirla con Lukàcs e Croce) - che non amava non riamato Krusciov - penetrarono in Urss pensieri corrosivi e dirompenti. Pensieri eterodossi. Che sul lungo periodo colpirono al cuore e indebolirono la Chiesa madre. Non era proprio quello che il monaco voleva. Ma ancora una volta, per vie traverse, accadde l’impensato.

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