NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Su Mario Tronti: La politica al tramonto (Einaudi, Torino 1998)
in costruzione


Una selezione di brani
[in preparazione]

Una breve antifona (introduzione)

Questo è un libro che nasce da dentro. Per un discorso di filosofia politica, la cosa non è normale. Ma il pensiero, su questo terreno, vive un suo particolare stato d'eccezione. Adesso si tratta di pensare non la politica ma la crisi della politica. Una condizione in gran parte inedita. Da affrontare con inedita forza di argomentazione. Questa si rende necessaria di fronte all'opacità - il grigio della rappresentazione - con cui si esprime oggi il crollo dell'agire politico. Di qui, una tonalità del testo, e un'ossessività di motivi, e una ripetizione, variata, del tema, che sono risultate alla fine volute e obbligate. Possono disturbare: perché dissonanti rispetto al comune senso intellettuale. Ma in sé lo stile spezzato della ricerca insegue un'impossibile armonia dell'impianto. Leggere nella lingua dei classici il libro degli eventi contemporanei, è una contraddizione che l'autore si porta dietro da sempre. E' tardi per cambiare.
Vorrei comunicare uno stato di disperazione teorica. Credo di esserci riuscito per eccesso. Ma sta bene così. La massima è sempre quella: nel punto del più grave pericolo, c'è ciò che salva. Questo fondo dell'anima nella storia del movimento operaio va toccato con le sonde del pensiero: costi quello che costi nella cruda forma che necessariamente assumono l'uso dei concetti e la resa delle parole. Emerge il criterio dell'onestà: a un certo punto senti che devi sapere - o almeno cercare - come sono andate effettualmente le cose. Di lì ripartire, non più per tornare a sperare, forse per ricominciare a fare. Su questo delicato punto di snodo, che attiene a un dato di esistenza, è facile cogliere un'oscillazione tra Kulturpessimismus e volontà di potenza. Per la cultura della crisi un amore coltivato nell'intimo, per l'organizzazione della forza una tentazione imposta dall'esterno.
Ognuno di noi porta, nella propria persona, la storia. Non è la storia di sé. Di questa - la biografia - non ce ne importa proprio niente. Si tratta della storia grande, quella degli uomini e delle donne che si riuniscono e si dividono nella società, e nella autocoscienza di questa, che è stata fin qui la politica. Di essa introiettiamo e analizziamo in modo diverso passaggi e stadi e luoghi e tempi diversi. Più di altre epoche ci spinge a questo il novecento: un secolo di cui si può dire che a tale livello e con tale intensità ha prodotto storia che alla fine si spegne consumato e vuoto. Sulla sua periodizzazione, una battaglia di interpretazioni. Questo libro non si sottrae, fa le sue scelte, discutibili, soggettive, funzionali alla logica interna del discorso e solo per questa via preoccupate di andare ad attingere verità parziali. Credo ci sia una differenza maschile del partire da sé. Tutta ancora da indagare. Una misteriosa caverna, dove si confrontano e si confondono concreto vivere e tempo storico, idee e ombre, eterni eventi e contingenze immediate. Un groviglio che si complica con l'esperienza che si accumula. Interviene allora il pensiero per suo conto a decidere.
Ecco, questa decisione tutta di pensiero politico e quasi per niente politica, essa, va giudicata. Qui c'è un "che dire?", non un "che fare?". Uno scarto all'indietro, imposto dalla fase. Sia chiaro che questo, chi scrive, lo sa. Il "distacco" è una condizione mistica del politico moderno. Lampi di luce di lì bisogna provare a gettare sulla notte della politica attuale. Non si vuole rischiarare, "illuminare", si vuole capire, "comprendere". Questo è un tempo politico senza conoscenza di sé: una tomba posta sul passato, e come futuro quello, l'unico, che il presente ti concede. Non possiamo.
A guardarlo dalla fine del novecento, il tempo della politica che hai attraversato ti appare come un fallimento storico. Non erano troppo alte le pretese, erano inadeguati gli strumenti, povere le idee, deboli i soggetti, mediocri i protagonisti. E la storia, a un certo punto, non c'era più: solo cronaca. Niente epoca: giorni, e poi ancora giorni. Il miserabilismo dell'avversario ha chiuso il cerchio. Non c'è grande politica senza la grandezza del tuo avversario.
Adesso si ha paura del criterio del politico. Ma l'amico/nemico non va soppresso, va civilizzato. Civiltà/cultura nel conflitto. Lotta politica senza la guerra: nobiltà dello spirito umano. Il messaggio dunque c'è. Nella bottiglia di questa allusiva sinfonia di salmi.

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Ida Dominijanni: Il grande e il piccolo novecento (il manifesto, 4.12.1998)

Siccome siamo di fronte a un testo musicale, nell'architettura dell'indice (antifona, tema con variazioni, intermezzo, movimenti, motivo finale), nel ritmo che rinvia al passaggio storico racchiuso fra Wagner e Mahler e Schoenberg, nella parola che risuona di tensione teorica e esistenza politica, converrà tenere basso il tono di questa presentazione: nulla più che un invito alla lettura, non una recensione che la sostituisca, giacché questo è un libro che implacabilmente domanda di essere per intero letto, e lentamente digerito, e ruvidamente discusso. Sottotono dunque diremo, di La politica al tramonto di Mario Tronti (Einaudi, 209 pagine, 22.000 lire), l'inattualità - quella che colpisce dritta al cuore del presente - e lo scandalo - di quelli che opportunamente talvolta devono avvenire.
Si tratta, in questa considerazione inattuale contro i tempi nostri, della fine della politica, che fa tutt'uno con la fine del Novecento, che fanno entrambi tutt'uno con la fine del movimento operaio e dei suoi esperimenti realizzati, nello stato sovietico a Est ma anche nelle socialdemocrazie a Ovest. E' un libro sul secolo, un'elegia alla sua passata grandezza; ma è anche un libro contro la fine piccola del secolo, o meglio contro il modo in cui essa - l'Ottantanove - è stata fin qui raccontata e tradotta in ideologia, come se la caduta del Muro spalancasse le porte al migliore dei mondi possibili. Invece, con l'89 "un ritorno di Ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo", e "il secolo muore, si spegne il millennio, senza messianici annunci di salvezza".
Basterebbe questo per dire dell'inattualità; senonché essa viene più volte ribadita. Contro il buonsensismo imperante ("solo le domande insensate - senza buon senso - possono ormai aggredire il senso comune e scuoterne le ragionevoli certezze"); contro "la generazione di piccoli uomini" venuta a tagliare i ponti con le epoche grandi; contro "l'utopia liberale diventata la pratica quotidiana delle banche e delle borse, il Vangelo dei politici senza politica"; contro la contemplazione del "trionfo dell'apparenza" di un universo post-moderno senza memoria del moderno.
In siffatto universo, scandalosa è di per sé la posizione di chi si volge a guardare indietro - con le spalle al futuro, secondo il titolo del precedente libro di Tronti, che con questo andrebbe in sequenza riletto - quella modernità che un resuscitato mito del progresso ci presenta oggi solo come innovazione futuribile, e che invece "è anche accumulo di materiali del passato, civiltà sepolte, città cancellate, storia trascorsa". La fine della politica è parente stretta della perdita di senso della storia; e invece - alla Benjamin - è proprio e solo da qui, da questa fine, che il senso del Novecento può essere ritrovato e ricompreso.
Della tesi centrale - fine della politica moderna nel suo apogeo novecentesco culminato nella vicenda comunista - abbiamo detto. Ma essa comporta, per essere dimostrata, una serie di eresie, ciascuna scandalosissima nel panorama culturale che ci circonda. Eretica è la periodizzazione del secolo che Tronti propone: un grande Novecento, che comincia nel '14 ma si annuncia prima, con la rottura delle forme nelle arti e nella scienza, e un piccolo Novecento, che avanza "quando il tutto non viene più da quella origine". Nel secolo grande, la grande politica che si impone contro la lunga durata della storia e la piega, nel secolo piccolo la rivincita della storia contro la politica. Di là lo spirito di scissione di una parte contro l'altra - movimento operaio contro capitale -, il mondo diviso in due blocchi, lo stato d'eccezione di tre guerre mondiali (guerra fredda compresa), l'esperimento sovietico che compete col capitalismo americano e lo costringe a invertire temporaneamente il rapporto fra economia e politica; di qua, al tramonto, la vittoria pacifica dell'occidente sull'est europeo, la politica riconsegnata al capitale, e "fini, strumenti, soggetti ridotti, orizzonti cancellati".
Eretico è lo spartiacque fra il secolo grande e il secolo piccolo, quel '68 che ci abbagliò ma "non era l'aurora, era il rosso di un crepuscolo", originato paradossalmente dall'attacco all'autorità e destinato a perdere dal mancato incontro fra contestazione e conflitto operaio. Eretica, nella rimozione imperante dall'89 e seguenti, è la convinzione che la storia del socialismo realizzato resti il grande impensato del secolo ("ogni volta che si cerca di capire si viene accusati di giustificare"). Eretica, in tempi di latenza dello spirito pubblico, è la nozione di politica che qui viene rimessa in campo - politica come appartenenza, punto di vista parziale, militanza intellettuale, scelta d'esistenza - ed eretica è la diagnosi della sua fine (non della sua crisi, che ormai è un innocuo ritornello): nel sistema-mondo unico che l'89 resuscita "non c'è il passaggio pacificante a un'età post-politica, ma il salto regressivo a un'età pre-politica. Dagli anni settanta in poi, "una lunga decadenza, una interminabile deriva, una collettiva inconsistenza di ceti politici, istituzioni, programmi, interventi, senza pensiero, senza futuro" - anche e tanto più nel laboratorio italiano, dove la caduta della politica si è vista bene nel partito-azienda, nella spoliticizzazione di massa, nel sentimento antipartito, in una sinistra "tutta occupata a far dimenticare se stessa". Fine del Novecento, ritorno d'Ottocento: "non c'è più uso possibile delle contraddizioni del moderno. Ma senza uso delle contraddizioni, non c'è una politica impossibile?".
Tesi ruvide, domande dure, che domandano una discussione senza rete. Purché si sgombri in partenza il campo dall'accusa di nostalgica chiusura che questo libro, c'è da giurare, si attirerà subito. C'è nostalgia, sì, del grande 900, "le epoche che non si sono potute vivere". C'è nostalgia, sì, di quello che il movimento operaio non ha saputo fare: riformare l'esperimento
sovietico quando era in tempo, estendere all'epoca di pace il governo dello stato d'eccezione, impadronirsi fino in fondo delle categorie del politico moderno, forzare più sulla critica della politica che sulla critica dell'economia. Quanto a quello che invece ha fatto, qui non c'è la dolcezza della nostalgia ma la durezza dell'elaborazione del lutto: la lucidità nichilista che sola consente di dire "questo è stato", restituendo esistenza a una vicenda nel certificarne la fine. Senza ritorno: "Quella era un'epoca. Questa è un'altra". Ma sapendo che solo un attraversamento senza sconti del passato consente una apertura sul futuro.
Quale? Non fa sconti, Mario Tronti, neanche a se stesso e alla sua propria vicenda politica e teorica. In questo testo dove tutti i suoi motivi ritornano - il mancato incontro della "rude razza pagana" con l'avanguardia borghese, il paradigma dell'autonomia del politico come nome della politica moderna, il binomio realismo e utopia e politica e profezia, l'accostamento blasfemo di Marx e Schmitt e tutta intera la genealogia dei suoi autori preferiti -, c'è consapevolezza piena degli inciampi e degli scacchi: l'impraticabilità del concetto dell'autonomia del politico nella "normalità" degli ultimi decenni, l'impraticabilità della divaricazione fra radicalità del pensiero e moderatismo politico a fine anni 80, quando già s'era perso il punto di vista di parte e mancava il carisma necessario a sostenere questo strabismo.
Non c'è, al tramonto della politica, una proposta politica pronta per l'uso. Eppure il pensiero non rinuncia, né potrebbe, a darsi un compito e una prospettiva; se sono inutilizzabili le contraddizioni che hanno fatto la grandezza del moderno, altre se ne aprono alla sua fine. La più grossa - la più scomoda, per "l'inconscio collettivo della sinistra europea" -, si spalanca sul crinale democrazia-libertà. Perché è stata la democrazia ("democrazia assoluta, come la monarchia di un tempo") a sconfiggere la lotta di classe, più che il capitale, che se ne è dovuto far modificare. Ma è una democrazia che manca la sua promessa principale, quella della libertà:
"il secolo della democrazia, che in guerra vince sulle dittature, in pace non dà libertà". E genera, invece che l'individuo libero della sua mitografia, quell'homo oeconomicus-democraticus che Tocqueville aveva saputo presagire nel futuro antipolitico della società americana. "Il vero Dio che è fallito, nel secolo, è nella promessa e nella irraggiunta libertà umana, per ognuno e ognuna, per tutte e tutti. Questa libertà in interiore homine, bisogno e negazione, occorre andarla a cogliere nella storia tragica del 900, e da qui ripartire: non da nuovi inizi, ma dai sentieri interrotti".
Qui infatti s'è fermato, su questa soglia, il "punto di vista di parte": di fronte alla necessità di pensare "un'idea di libertà a contrasto con la pratica dell'homo democraticus, un'idea di democrazia a contrasto con la pratica dell'homo oeconomicus". S'è fermato di fronte alla necessità di spezzare il matrimonio, storico ma fallace, fra capitalismo, democrazia e libertà, e di riscrivere il secondo e il terzo termine da quest'altra parte del campo: così suggerì Tronti in un seminario fra amici - era l'88, tempi non sospetti, quel matrimonio stanco non si era ancora ricelebrato nel campo unico del dopo-89, "per la critica della democrazia" era un programma già all'ordine del giorno che oggi si fa più urgente. Adesso, aggiunge Tronti che per portarlo avanti ci vuole, con quella filosofia della libertà che il marxismo non ha saputo darsi, anche una nuova antropologia, oltre l'individuo "isolato e massificato, globalizzato e particularizzato", cui si è ridotta la finzione dell'individuo che regge il paradigma del politico moderno. Sostiene Tronti, uno dei pochi intellettuali italiani che dal pensiero della differenza sessuale si è lasciato interrogare, che a questo pensiero che pure è carico di premesse "è mancata l'epoca", e che poco anch'esso può fare nel tempo della fine della politica. Ma nel pensiero della differenza di questo in primo luogo si tratta: di una nuova antropologia che spezza, alla radice del paradigma politico moderno, la finzione dell'individuo uguale e libero che non è in realtà né uguale né libero. Non sappiamo, donne e uomini, se e quale politica c'è oltre la politica moderna, ma su e oltre questa sua antropologica radice conviene ancora applicare il pensiero e la pratica.

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Intervista a Mario Tronti: Il destino della politica (a cura di Ida Dominijanni, il manifesto, 6.12.2001)

Oggi pomeriggio Mario Tronti pronuncerà la sua "Lezione magistrale" all'università di Siena, che lascia dopo trent'anni di insegnamento. Come cominciò merita di essere raccontato. Fu Ugo Spirito, maestro d'università con cui un giovane Tronti aveva discusso la sua tesi di laurea sul giovane Marx, a convincerlo a partecipare al concorso per ottenere quella che allora si chiamava libera docenza. L'allievo la ottenne presentando nel '68 a una commissione non propriamente sovversiva, di cui facevano parte lo stesso Spirito e Nicola Abbagnano, Operai e capitale, quel "prologo nel cielo" della lotta di classe che sarebbe diventato il libro-cult dell'operaismo italiano. I corsi universitari a Siena cominciano nel '70 e costeggiano per tre decenni la vicenda politica contemporanea. Pensiero e politica, per Mario Tronti, sono stati sempre la stessa cosa, anche quando ha teorizzato che dovessero scientemente scindersi, il massimo dell'azzardo teorico da una parte e il massimo della mediazione pratica dall'altra. Di sé stesso professore dice: "Non mi sono mai considerato un docente, semmai un maestro. Il docente trasmette un sapere, riempie gli allievi di una disciplina da fuori, il maestro tira fuori da un giovane quello che ha dentro... La cultura è questo, non passa da libro a libro ma da persona a persona, nel confronto con il presente: è lì che si accende la scintilla della scoperta. Questo spiega perché non ho mai fatto le note a margine", imperdonabile omissione che la gerarchia accademica non ha mai gradito. Questo spiega anche perché l'amicizia sia per Mario Tronti, con la filosofia e la politica, il terzo vertice di un triangolo esistenziale, e perché Mario Tronti sia considerato da tanti un maestro, dentro e fuori l'accademia, senza avere mai fatto scuola. L'incontro di oggi e domani infatti è una festa voluta da amici e allievi. Questa intervista, con la sottoscritta che a sua volta è un'amica e anche un'allieva, fa parte del brindisi.

Perché hai scelto questo titolo, "Politica e destino", per la tua lezione di saluto?
"Destino" è una parola-chiave che ritorna in vari passaggi del mio percorso, e si può coniugare in due modi con "politica". In senso esistenziale, intendendo la politica come destino: della mia biografia potrei dire che è stata bene o male destinata, "vocata" alla politica. Ma non insisterò su questo a Siena, fuggire dalla biografia rimane una mia ostinata regola interiore; parlerò del rapporto fra destino e politica in un altro senso. Quella di "destino" è una categoria hegeliana, che più o meno corrisponde alla storia, e a una storia che, per quanto noi ci possiamo intervenire, si fa in gran parte da sé. Per di più noi sappiamo che il percorso della storia non è né lineare né progressivo, procede per strappi, stasi, salti, ritardi; la storia gira, si ferma, corre, avanza a piccoli passi, torna indietro; e non è fatta solo di dati aperti, chiari, riconoscibili, ma anche di dati oscuri, che non si riesce a fare emergere. Dunque acchiapparla è molto complicato, ben più complicato che se si muovesse sempre in avanti e in trasparenza. Ed è qui che si apre lo spazio della politica. La politica ha il compito di capire questo lato destinale della storia, di prevederlo, di agire dentro e in contrasto con esso. Ha da lavorare dunque molto col pensiero, perché malgrado le sue attuali misere sembianze la politica resta un luogo privilegiato del pensiero. E infatti tutta la grande filosofia, da Platone in poi, si è sempre misurata con la politica; e forse il destino della politica coincide con il destino della filosofia. Ecco, nella lezione proverò a mettere a fuoco questi temi. Per chiedermi, e chiedervi, se la politica moderna ha ancora un suo destino: cioè una capacità di contrasto del destino inscritto nella storia.

Questa concezione della storia, e del rapporto fra storia e politica, forse ha qualcosa di marxiano, certo poco di marxista. Nella tradizione marxista, italiana in particolare, la storia è ben più lineare, è sempre gravida di promesse, le contraddizioni prima o poi maturano, i conti prima o poi tornano...col risultato che quando la storia salta, la politica, presa alla sprovvista, si immobilizza.
Infatti i miei corsi universitari hanno attraversato tutto intero il continente del pensiero politico della modernità, da Machiavelli a Weber. Anche Marx: l'hanno attraversato, e ne sono stati attraversati. Ma l'intenzione di fondo era precisamente quella di coprire un buco della tradizione marxista nella lettura del pensiero politico moderno; di fare i conti, dal punto di vista antagonista, con i classici della politica. Nei quali a mio avviso c'è tutto quello che serve per capire la contemporaneità. Non so quanto questa scelta sia condivisa, certo per me è stata molto feconda. Anche se l'ultimo decennio mi ha fatto vedere un limite della razionalità politica che prima non vedevo. Non tutto è razionalizzabile in politica, come non tutto è razionalizzabile nella comprensione storica. A quel dato oscuro della storia che dicevo poc'anzi fa riscontro un limite della razionalità politica: di mezzo c'è effettivamente una dimensione inconscia, che non è solo degli individui ma anche dei processi storici e politici.

Questa sì che è una buona notizia, finalmente Freud nella galleria dei classici del pensiero politico... Eppure hai resistito tenacemente a questa idea, quante volte mi hai detto che non ti pareva rilevante?
Hai ragione, ma resistevo razionalmente appunto, inconsciamente forse meno, altrimenti come mai sarei arrivato da Machiavelli a Nietzsche?

Nei classici, dicevi, c'è tutto quello che serve per capire il presente. O c'era? Saltiamo nel presente-presente. Dopo l'11 settembre, si dice, tutto è cambiato; il mondo globale si è manifestato in tutta la sua discontinuità rispetto al mondo moderno, e questa rottura domanda anche uno scatto del pensiero. Ci serve, la bussola dei classici, per viaggiare nella globalizzazione?
Non ho mai creduto nelle categorie politiche pigliatutto, e "globalizzazione" è una tipica categoria politica pigliatutto. A me è sempre interessato mettere afuoco una cosa precisa, il rapporto di forza fra soggetti antagonisti; e più che preparare ricette per la cucina dell'avvenire, capire come dentro quel rapporto di forza si potesse, al presente, organizzare conflitto. E' questo il cuore del pensiero politico che ho coltivato, ed è questa la domanda che ho rivolto ai classici. Certo, oggi non mi metto a difendere una trincea ortodossa: vedo bene che molte di quelle categorie classiche rischiano a loro volta di non prendere più niente, perché erano costruite su quella ipotesi di conflitto dicotomico, che è caduta.

E anche su un'ipotesi di ordine, che è caduta.
Ovviamente, perché ordine e conflitto si rinviavano a vicenda: il conflitto si dava dentro un ordine, l'ordine regolava il conflitto. L'uno e l'altro sono cambiati, e con loro cambia tutta la mappa della politica e dei concetti politici. Ma non perché l'11 settembre segni un'epoché fra l'ante e il post, neanche fosse la nuova nascita di Cristo...Non mi convince questa cronologia trionfante e trionfale. Credo più a uno smottamento lento che si produce nella realtà che non a grandi rotture simboliche concentrate in un evento epocale.

Beh, bisogna intendersi. Non è tutta cronologia trionfale quella che dice che dopo l'11 settembre più niente è come prima. C'è chi lo dice per sottolineare l'offesa, e legittimare la vendetta, dell'Occidente. E c'è chi lo dice, io con loro, per sottolineare che quell'evento ha illuminato la realtà in modo nuovo; ha rivelato il cambiamento, l'ha fatto vedere e l'ha imposto, più che produrlo. Un evento simbolico, del resto, questo è: un evento che cambia la percezione e l'interpretazione della realtà, e dunque modifica il nostro rapporto con la realtà, e da qui anche la realtà stessa...
Messa così sì, sono d'accordo. Ma allora bisogna sapere leggere che cosa esattamente rivela quell'evento. Bisogna avere la forza di interpretarlo non tanto come aggressione esterna, quanto come implosione interna all'Occidente.

E come, se no? E' la forma stessa dell'attentato alle Torri che ci porta su questa strada. L'uso sapiente del know-how occidentale, la mira precisa sull'immaginario occidentale, la strana figura di un bin Laden che si presenta come l'alieno assoluto ma è noto quanto sia stato prossimo e familiare all'Occidente: tutto allude a un'azione che sembra dettata dal massimo di esternità al nostro mondo ma ne incorpora invece molti dati interni e molte fantasie interiorizzate, tant'è che abbiamo dichiarato guerra ai fantasmi...A ogni modo, secondo te che cos'è che implode, precisamente?
Implode la contraddizione di un ordine che, malgrado l'ideologia conquistatrice della globalizzazione, non riesce a possedere tutto il mondo. Un limite dell'onnipotenza occidentale, paradossalmente inscritto nella vocazione onnipotente del suo processo di secolarizzazione. Progressivamente, nella seconda metà del Novecento, l'idea di Occidente si è ridotta a questo: onnipotenza della tecnica e laicizzazione estrema dei comportamenti. La cultura europea aveva tutte le carte per opporsi a questo riduzionismo, ma non l'ha saputo fare. Ora, non è detto che questo processo sia stato solo negativo: probabilmente ha avuto il merito di acutizzare le contraddizioni del modello occidentale. Ma queste contraddizioni non trovano più, all'interno di un ordine politico ormai compiutamente autoreferenziale e aopologetico, le forze in grado di esprimerle, organizzarle, politicizzarle. Perciò esplodono, per così dire, su un bordo interno-esterno. E le Torri gemelle cadono non per l'urto di chi ci lavorava dentro, ma per l'urto "esterno" dei due aerei. Siccome però non è chiaro che cosa sia questo "esterno", ecco che bisogna costruirlo, caricarlo d'immaginario, marchiarlo di fondamentalismo, personalizzarlo. Ormai funziona così, c'è bisogno di personalizzare non solo il candidato di collegio ma anche il Nemico Universale.

Mettiamola così allora: l'11 settembre come grande rivelatore. Di tendenze che peraltro, nei tuoi ultimi libri, avevi messo a fuoco. Trionfo della tecnica e tramonto della politica; fine dell'ordine della Guerra fredda e fine dei concetti del Politico moderno: il discorso c'era già tutto ne "La politica al tramonto" del '98, e in parte anche in "Con le spalle al futuro" del '92. Adesso però questa consapevolezza del collasso dell'ordine politico moderno si fa più diffusa, l'11 settembre ha aperto un momento positivo di autocritica della filosofia politica. Domanda: che cosa c'è, dopo quell'ordine? Continui a vedere solo una fine, o cominci a scorgere qualche inizio?
Oggi come oggi vedo solo questo lungo tramonto, senza poterne ammirare i colori che non ha. D'altro canto, senza politica oggi davvero c'è solo il destino di una storia che si fa da sé, ed è questo il vero pericolo, la vittoria del destino sulla politica, non l'invasione dei barbari. Siamo dunque su questo passaggio incerto: sappiamo quello che è finito, non vediamo quello che comincia. La vicenda della politica moderna si è chiusa insieme col Novecento, e non con le sue tre guerre mondiali (guerra fredda compresa), ma con quello che è venuto dopo. Cioè, lo ripeto, con l'estinzione lenta dei due grandi soggetti dell'antagonismo, Stato e movimento operaio. Non credo che quella politica possa ritornare. E non vedo nello scenario del presente nessuno "stato d'eccezione" schmittiano: questa "guerra globale" è endemica, non a caso la si annuncia come una guerra lunga, non si capisce contro chi viene combattuta. Bisogna però pensare perché questa nuova militarizzazione del mondo: sembrava che la potenza dominante non ne avesse più bisogno...

Già, sembrava saldamente in possesso dell'egemonia sulla globalizzazione: cultura, soldi, tecnologia...
Invece evidente mancava qualcosa. Evidentemente, per tornare alla contraddizione di cui sopra, la potenza planetaria non regge questo suo ordine. "Sa" -inconsciamente? - di non essere autosufficiente, sa che c'è qualcosa che le sfugge anche se non sa bene che cosa. E non lo sa, anche perché manca di grande cultura: la mondializzazione non ha avuto nessun Keynes, nessuna "teoria generale" dell'economia, della finanza, della politica. E la grande potenza manca di conoscenza di sé e dell'altro. Adesso si tratta di capire se su questa situazione mondiale così irrisolta, in cui un ordine è finito, un qualche conflitto antagonista può nascere.

Nuova soggettività politica. Non ti chiedo se la vedi in campo femminile, sapendo che attribuisci al pensiero della differenza meriti culturali ma non politici, per come intendi tu la politica; del resto, il femminismo non sta nello schema dell'antagonismo. Vedi invece qualcosa di potenzialmente antagonista nel movimento cosiddetto no-global?
Apro gli occhi, lo guardo con curiosità e con naturale simpatia, ma mi interrogo sulla sua consistenza e sul suo radicamento. Certo è che sta sulla scia dei movimenti della seconda metà del 900, non in quella dei partiti. Questo può non essere un difetto, ma a me piacerebbe che questo movimento si inscrivesse dentro una storia, e non pensasse di essere un nuovo inizio. Non ci sono nuovi inizi. Mi piacerebbe che prendesse l'eredità che la sinistra ha vergognosamente buttato, quel "veniamo da lontano e andiamo lontano" senza il quale non si va da nessuna parte.

Non vorrei disilluderti, ma a me - posso sbagliare - non pare un movimento carico di storia e di tradizione. E' figlio della Rete, non della genealogia...
Questo mi preoccupa. C'è una battaglia da fare per la memoria. Per salvare il passato, come ci ha insegnato Benjamin. Il suicidio della sinistra, un veleno lento, piccole dosi congresso dopo congresso, altro non è che l'omicidio del passato.

"Partito" e "classe", altre due parole-chiave del lessico trontiano, che cosa sono oggi, parole della memoria?
Sono due grandi parole. Le metto in quel pacchetto del passato da salvare. Non per rimetterle in funzione, ma per tenermi tutta l'eredità ricca, intensa, che mi hanno lasciato per il domani.

Ultima parola, "Europa". Ne accennavi poco fa, come di una risorsa di senso contro il riduzionismo occidentale degli ultimi decenni. Ma la prospettiva europea non rischia di diventare una risorsa da ultima spiaggia, di questi tempi, un mito politico smentito dalla realtà?
Se fosse un mito non sarebbe male... Certo, sull'Europa oggi sono più pessimista di qualche anno fa, viste le prove che sta dando di sé. Dove stiano oggi le risorse nascoste a cui guardare, se in Europa o anche negli Stati uniti, è una questione aperta su cui interrogarsi seriamente. Forse c'è un lato nascosto dell'America, diverso da quello reazionario e conservatore che uno come me ha sempre visto in primo piano; un lato che magari ha in serbo il germe del contrasto.

In fondo, il '68 veniva da lì e il popolo di Seattle viene da lì...
Sì, ma se non fossero passati da qui, nessuno si sarebbe accorto di loro. L'Europa rimane la terra della politica. Fare da ponte fra i germi nuovi d'oltreoceano e la nostra storia antica, questo sì che sarebbe un buon compito per la sinistra europea, non quello di correre dietro alla guerra americana.

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Intervista: Mario Tronti sognando comunismo (a cura di Bruno Gravagnuolo, l'Unità, 8.12.2001)

Parla l'autore dì «Operai e Capitale», che oggi a Siena dà l'addio all'insegnamento Dall'operaismo all'autonomia del Politico al tramonto della politica. La parabola di uno studioso figlio del Pci Alla sinistra manca la capacità di elaborare la sua storia in chiave originale e di legare la sua memoria ai nuovi movimenti

C'era una volta un libro di culto. Che girava non rilegato e a dispense come un samizdat tra i ragazzi del 1968.  E divenne un feticcio per quelli di Potere Operaio: Operai e Capitale.  Lo aveva scritto un trentenne romano e schivo, Mario Tronti. Che assomigliava poco all'indole del libro, e oltretutto era un militante del Pci, sezione Ostiense, di cui era stato pure segretario. L'idea centrale era questa: la classe operaia non reca in sé valori etici, ma è un magma che contrasta e modernizza il Capitale. Dentro e contro, lavoro vivo contro lavoro morto. Una «rude razza pagana», un Sisifo di massa in perpetua ribellione, che vuol spezzare le catene del lavoro e tiene aperta la breccia potenziale di rivoluzione.  Classe che gioca a rimpiattino con le macchine, plasmandole col suo antagonismo eterno e irriducibile. Oggi Tronti ha 70 anni e la sua parabola da allora si è inarcata più volte. Dalla classe operaia, all'autonomia del politico, da Marx a Schmitt, dalla rivoluzione al disincanto.  E infine a un'idea di «destino» che recupera la politica come scelta esistenziale, sullo sfondo mobile del capitale globale.  Tronti lascia ormai l'insegnamento. E stamane sarà all'Università di Siena, per la sua ultima lezione, Politica e destino giustappunto.  Con il Rettore Piero Tosi, Pierangelo Schiera, Rossana Rossanda, Asor Rosa, Alberto Abbruzzese, e tanti altri che lo hanno seguito da lontano, o lo hanno fiancheggiato nei pensieri: una due giorni dedicata a lui.  E allora «festeggiamolo» anche noi.  Chiediamogli di raccontarci la sua storia, oltre il rito accademico. «E' vero - confessa - vivevo la mia fortuna tra le nuove generazioni ribelli come un paradosso.  Uguale alle mie idee però: un contrasto tra nuova radicalità teorica e anteriore biografia.  Ero un figlio del Pci sin dagli anni '50, di famiglia popolare e antifascista.  Tutto comincia con Della Volpe, e il suo marxismo antigramsciano e rigoroso. Poi vengono Panzieri, i Quaderni rossi, la nuova classe operaia, e poi il 1956, l'Ungheria e il dissenso interno».  Ma come nacquero centralità e mito della Classe Operaia? «Panzieri, Della Volpe.  E il "Marx delle macchine" applicato alla fabbrica neocapitalistica, all'operaio massa».  Già, voi operaisti eravate per lo sviluppo, e contro lo sviluppo. «Sì, ma ci piaceva il Lenin antiromantico che voleva lo sviluppo, per rovesciarlo.  La nostra fu una bella stagione, e anche un'illusione ottica.  In fondo credevamo in una rottura del sistema. Un sogno giovanile.  Benché io, a differenza degli altri operaisti, scorgessi nel Pci la guida di quella rottura e di quella nuova classe operaia».  Politica e antagonismo, realismo e razza pagana? «Sì.  Non sono mai stato spontaneista, e la coscienza politica doveva venire dall'esterno.  Del resto già alla fine del '60 mi ero staccato dall'operaismo giovanile, e in seguito non ebbi nulla a che fare con Potere Operaio e i gruppi.
Ero ormai passato all'autonomia del Politico.  Significava: la classe operaia da sola non può sfondare.  In una società articolata che non si regge solo sui rapporti econoúmici, e sta dentro una guaina istituzionale e politica che la sostiene.  Decisiva mi sembrò la macchina statale, e l'intreccio con la società civile.  Perciò a Marx, che mai scrisse una teoria dello stato, affiancai Keynes ». Anni '70 inoltrati.  E arriva la seconda stagione di Tronti: l'autonomia del Politico. Ci fu un importante convegno, con Bobbio, poi rifluito in un volume intitolato a quella nuova «autonomia».  Solo che Bobbio andava in direzione dello stato di diritto.  E delle tecniche liberali, nel revisionare Marx.  All'opposto Tronti non incontra Kelsen, ma Carl Schmitt, decisionista e reazionario.  Perché, l'apocalitico Schmitt?  E non Gramsci magari, teorico a suo modo dell'autonomia del Politico? «Non sono mai stato con Gramsci, che ho frequentato da giovane e ho abbandonato con tutto lo storicismo.  Per quanto poi Gramsci, sull'etica individuale, rimanga importante.  Schmitt? E' cruciale per il nesso rottura-decisione, quel momento apocalittico in cui la politica assume su di sé l'onere del novum.  Ancora oggi, da seguace della cultura della Kriss, resto un convinto antiriformista.  Sebbene pensi ad una politica realista, che aderisca al mondo.  Con grande attenzione alla tattica, e un tempo, anche alla forma-partito».  Insomma, un comunista schmittiano-togliattiano.  Forse anche un po' soreliano? «No.  Me lo hanno rimproverato, ma non ho mai coltivato i miti della violenza e del sindacalismo rivoúluzionario».
Però, rispetto alla tua costellazione teorica, il corso del mondo è andato in senso opposto, non ti pare? «Lo ammetto, ma non credo troppo alle repliche oggettive della storia.  In realtà una verifica soggettiva, del ciclo che immaginavo, è mancata.  La sua possibilità si è eclissata per ora.  Almeno dal dopo-Berlinguer».  Tronti, come la metti con il 1989?  Muore il campo socialista e irrompe il neoliberismo.  Ti senti irrimediabilmente spiazzato o rilanci? «Rilancio. E guardo al disordine mondiale. Dopo l'operaismo e l'autonomia del Politico il movimento operaio avrebbe dovuto generare un'antropologia oppositiva al capitalismo.  Un'idea alternativa di uomo e di donna, dell'essere al mondo.  Invece, scopiazziamo il socialismo liberale, il solidarismo.  Senza autonomia culturale, senza rielaborare la tradizione».  Tu dici: movimento operaio.  Esiste ancora per te? «Vengo di lì.  Ma la centralità politica della classe è finita.  Parlo di un'eredità che, sia pur conclusa, va ripresa.  La sinistra deve portare la sua storia dentro i nuovi movimenti, non nasconderla.  I soggetti ai quali parlare?  Tutte le figure escluse, schiacciate dall'economia capitalistica.  Dentro la metropoli e fuori, nel pianeta.  E ci metto anche le soggettività del nuovo lavoro autonomo.  Senza politica dì massa non contano.  Da sole non incidono.  Sono ostaggio della precarietà flessibile.  Che tutto riduce a variabile del ciclo capitalistico». Scusa però, tu critichi l'anarco-capitalismo.  Ma contrapponi ad esso una visione altrettanto «americana»: differenze, individui, gruppi. E' un circolo vizioso, altro che movimento operaio! «Non sono mai stato alla coda dei movimenti.  I flussi antagonisti - che sono quelli - vanno incanalati: da lavoro al non-lavoro.  Forse non più con la forma-partito, ormai esaurita.  Ma con veri movimenti organizzati».  Non concedi nulla al tentativo socialdemocratico di Fassino? «Frontiera superata.  La fine del movimento operaio travolge riformismo e rivoluzione.  Se quello fosse almeno il riformismo di un ceto politico forte, capace di guidare i processi...». Insomma, il vecchio demone del Fine comunista non vuoi mollarlo.  Lo cerchi ancora nelle pieghe del possibile? «Si, non credo nella scientificità della storia, e metto in conto una buon dose di irrazionalità, dì controfinalità inattese.  E proprio dentro il tramonto della politica».
E la guerra in corso? «Non è evento epocale. Mostra ciò che era latente: i contrasti interni di un Occidente che non sa riordinare se stesso.  Il che apre nuovi spazi poliútici.  Dentro il nuovo ordine duraturo, messo in campo dagli Usa, esplode l'insicurezza occidentale.  La sinistra non deve accodarsi al carro trionfante».  E ora Tronti, voglio chiederti una cosa.  Che ne è per te della parola comunismo?  Mito politico?  Ideale regolativo?  Pratica quotidiana?  Oggetto teorico?  Illusione? «Non lo so.  Bloch diceva che comunismo significava la morale nel mondo.  Col tempo dobbiamo staccare quella parola dalla vicenda tragica e fallimentare delle sue applicazioni.  Credo sia qualcosa di analogo al cristianesimo, un ideale umano eterno.  Un'idea regolativa della convivenza umana.  Non più una forma politica concreta.  Nient'altro che la ragione umana, che non si rassegna al presente».
Il femminismo, altra esperienza che ti ha folgorato.  Perché? «Ho cominciato a pensare che l'essere umano era doppio, e che la differenza lo abitasse al massimo grado».  Ci hai visto l'esplosione delle differenze, oltre la gerarchia?  Una liberazione del vivente? «Sì, oltre la gerarchia.  Un'irruzione che movimenta il quadro della storia, e libera altre differenze.  Il movimento è tutto ...». Altolà, questo lo diceva il revisionista Bernstein, che non dovresti amare affatto. «Magari ce ne fossero come lui!  Va rivalutato il vecchio Bernstein.  Perché un'idea di fine, interno al movimento, ce l'aveva. Non come quelli di oggi.  Lui voleva il socialismo, non il governo del capitalismo».  Ma in sezione ci vai ancora, all'Ostiense? «Non ci vado più, da qualche anno a questa parte.  Vorrei capire dove vanno a parare questi Ds...». E adesso in pensione che farai? «Studierò, e se ne varrà la pena tornerò anche in sezione».

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