NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Cinema etc.
in costruzione


Nostalgie d’Unione sovietica. La “nuova” Armenia nell’obiettivo del regista Hiner Saleem (intervista a cura di Gianfranco Helbling, area7.ch, Edizione n. 47)

C’è un funerale sui generis e un matrimonio rigorosamente all’aperto, con l’orchestrina e la sposa incinta che fa tanta tenerezza. Ci sono scene di una comicità surreale fra alcool e povertà, con ragazzine prostitute e uomini violenti ma fragili, vestiti di stracci e stranezza. Detto così sembrerebbe un film di Emir Kusturica. Ma “Vodka Lemon” è molto più sottile, onirico ma sofferente dei lavori del regista serbo.
Scritto e diretto dall’autore curdo-iracheno Hiner Saleem, 39 anni, “Vodka Lemon”, coprodotto dalla ticinese Amka Films di Tiziana Soudani, ha vinto il concorso “Controcorrente” al Festival di Venezia. Ambientato in un villaggio dell’Armenia postsovietica, “Vodka Lemon” ha per protagonista Hamo, un ex ufficiale dell’Armata rossa che deve campare con 7 dollari al mese di pensione. Andando regolarmente al cimitero sulla tomba della moglie finisce per innamorarsi di una bella vedova. E forse sarà proprio l’amore a far dimenticare ai due le sofferenze di un presente sempre più privo di futuro.
L’intervista che segue a Saleem è stata realizzata in occasione della proiezione di “Vodka Lemon” al festival Castellinaria di Bellinzona, che si conclude domani. Il film di Saleem uscirà venerdì prossimo, 28 novembre, a Lugano (Corso) e a Mendrisio.


Hiner Saleem, ci racconti brevemente la sua vita di eterno profugo, in fuga dalle persecuzioni del governo iracheno contro il suo popolo.
Della mia infanzia, fra le fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, ricordo le fughe dai bombardamenti iracheni. Mio padre in quel periodo era il telegrafista del generale Mollah Mostafa Barzani, capo storico e leggendario della resistenza curda in Iraq, attualmente diretta dal figlio Massud. Avevamo dovuto lasciare la nostra città, Akkre, a 70 chilometri da Mossul, perché era stata bruciata la nostra casa. Vivevamo dove potevamo, sulle rive del fiume Tigri, a volte trovando rifugio anche nelle grotte. Sono fuggito abbastanza giovane dal Kurdistan annesso all’Iraq all’inizio degli anni ’80. Ho vissuto alcuni anni in Italia senza mai poter regolarizzare il mio statuto, quindi da clandestino, perché all’epoca l’Italia riconosceva lo statuto di rifugiato solo ai profughi dei Paesi del blocco comunista ed eccezionalmente a chi fuggiva dal Cile, perché lì anche la Democrazia cristiana era all’opposizione. In Italia vivevo facendo il ritrattista di strada, soprattutto a Firenze, ma ho frequentato pure l’università. Poi mi sono trasferito in Francia, dove mi è stato riconosciuto lo statuto di rifugiato.

E com’è nato il desiderio di fare del cinema?
Durante le nostre fughe mio padre portava sempre con sé i libri dei classici curdi, stampati clandestinamente. Ci leggeva la poesia classica curda e ci obbligava tutti ad ascoltare. Io non capivo nulla e mi annoiavo. Una sera mio padre apparve con l’ennesimo libro di un classico curdo, ma stavolta illustrato: su una pagina c’erano sempre le poesie, a fronte erano invece riprodotti dei ballissimi quadri con ragazze magnifiche, vestiti splendidi, e poi montagne, animali, boschi, colori… Quel libro per me fu la scoperta della mia vita: prima non avevo mai visto la pittura, per me fu una folgorazione. A quel punto cominciò a piacermi anche la poesia classica curda, ma soprattutto capìi che nella mia vita avrei voluto fare qualcosa che abbinasse la parola all’immagine. Questa sensazione si rafforzò qualche anno dopo quando tornammo ad Akkre e per la prima volta vidi la televisione: immagini in movimento con parole e musica, fu la seconda folgorazione della mia vita. Ero in particolare affascinato dalla propaganda panaraba all’inizio dei programmi televisivi. L’unica cosa che all’epoca non capivo era perché mai la televisione non sapesse parlare in curdo, pensavo che forse era una lingua non adatta alla macchina. Mi riproposi dunque di trovare il modo di far parlare in curdo la televisione… A fare qualche cosa nel cinema ho cominciato in Italia, dopo la guerra del ’91. Da allora questa è per me una necessità.

Come mai il suo film “Vodka Lemon” è ambientato in Armenia?
In realtà avrei voluto ambientare questa storia in Kurdistan, ma non mi è stato possibile girare a casa mia perché Saddam Hussein all’epoca delle riprese era ancora al potere. Cercando un’alternativa ho pensato subito ai villaggi curdi in Armenia, una regione che conosco molto bene e dove ho diversi amici, e ho quindi adattato la storia alla nuova ambientazione.

Perché ha deciso di mettere al centro di “Vodka Lemon” la nostalgia per l’Unione sovietica?
“Vodka Lemon” non è un film politico in senso stretto, ma è vero che è ambientato in una regione che fino a 10-15 anni fa faceva parte dell’Unione sovietica. E anche se sono curdo, sono comunque un cittadino di questo mondo, interessato anche ai problemi che non sono necessariamente quelli del popolo curdo. I villaggi curdi di cui parla il film furono tutti costruiti a partire dagli anni ’30 sulle rovine di quelli precedenti grazie alla spinta che veniva dall’Unione Sovietica, grazie alla quale sono arrivate comodità nella vita di tutti i giorni, come l’acque e l’elettricità, che prima erano impensabili. Ad esempio nel film si vedono spesso i tralicci dell’elettricità: non è un caso, sono quelli posati ancora in epoca sovietica. Dal crollo dell’Unione sovietica la situazione in quei villaggi è continuamente e drammaticamente peggiorata. Oggi ancora la gente parla russo e nelle case ha i simboli del comunismo: sono tracce che non si cancelleranno facilmente. Sì, la gente ha nostalgia dell’Urss.

È una nostalgia che si spiega soltanto con il maggior livello di benessere materiale rispetto ad oggi?
No, c’è un altro fattore decisivo: l’Unione sovietica era buona per le minoranze regionali, perché soffocava ogni sentimento nazionalistico ristretto. In Europa invece il giacobinismo nazionalista ha sempre oppresso le minoranze. Oggi tanto i curdi quanto gli assiri che tutte le altre minoranze della regione rimpiangono l’Unione sovietica, perché all’epoca non avevano problemi.

Il film visivamente è dominato dal bianco della neve. Perché?
È un’idea che ho avuto fin dall’inizio, è una sorta di ricordo d’infanzia. Inoltre sono un po’ pudico, e la neve mi serve quasi da tenda dietro cui nascondermi: voglio essere discreto, non mi va di disturbare i personaggi che racconto, di impormi nella loro vita, di fare il voyeurista.

Il film finisce in primavera, quando il bianco scompare e nell’immagine resta soltanto terra e fango: non lascia spazio all’ottimismo.
Ho voluto finire in primavera per alludere alla possibilità di un nuovo inizio, di un riscatto. E questa speranza nel futuro malgrado tutto si evidenzia nella decisione dei protagonisti di non vendere il pianoforte, dopo che già hanno svenduto tutto ciò che avevano in casa per sopravvivere. È vero che quando si scioglie la neve la miseria è ancora più presente e opprimente: ma i due protagonisti sono innamorati, e trovano nell’amore e nell’arte la forza per avere speranza, per guardare avanti. Anche perché non hanno altra scelta.

In “Vodka Lemon” succede molto poco, il numero dei personaggi è assai contenuto e i tempi del film sono piuttosto dilatati. L’impressione è che abbia lavorato molto di forbici già scrivendo la sceneggiatura.
Sì, ma anche al montaggio. Per me il montaggio è davvero un momento di riscrittura di un film: è lì in particolare che riesco a trovargli il ritmo giusto. In questo mi aiuta la mia capacità di rinunciare al materiale girato, so essere molto selettivo, mi piace che la storia avanzi.

Ha avuto difficoltà a trovare in Europa dei produttori interessati alla storia di un villaggio armeno girata da un regista curdo?
Non più che se fossi stato francese o italiano o tedesco. Quel che conta per i produttori è la storia e la capacità di raccontarla. Ho quindi dovuto fare un normale lavoro di convincimento, ma non ho trovato prevenzioni particolari nei miei confronti. Il mio mondo è questo, e per il momento non me ne posso inventare un altro. Anche perché ho ancora molte cose da raccontare sui curdi. Il mio prossimo film sarà sui curdi e sull’Iraq, titolo provvisorio “Iraq fornever”. I produttori saranno gli stessi, le riprese sono previste per il 2004.

Che futuro vede per i curdi in Iraq?
È necessario che un secolo di guerra in Kurdistan finisca, e questo dev’essere un compito prioritario della comunità internazionale. La dirigenza curda propone che l’Iraq diventi uno Stato federale con un’entità curda e una iracheno-araba. Questa è la richiesta curda più moderata che ci si possa immaginare, ed è al contempo la sola salvezza per l’Iraq: se si vuole che i curdi rimangano in Iraq bisogna rispettarli. Spero che 40 anni di saddamismo, di idee panarabiste, nazionaliste e scioviniste spingano finalmente a trovare una soluzione che bandisca la violenza e il razzismo e rispetti anche i diritti dei curdi. Ma oggi ricordo anche una frase che mio nonno era solito ripetere: «il nostro passato è triste, il nostro presente è catastrofi-co», e, allargando le braccia e sorridendo aggiungeva «ma per fortuna non abbiamo un futuro».

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Frammenti di comunismo in scena. “Ombre Rosse”: miti e stracci di una pratica politica recitati da Marco Cavicchioli (Oreste Pivetta, l’Unità, 12.03.2002)

Modena. Del comunismo è rimasta la parola. Il resto s’è perso nella storia, dimenticata o tradita, travolta dalle polveri di un muro.
La parola ancora si pronuncia misurando le sillabe, più nell’intimo della nostalgia che in pubblico. In pubblico da noi la recita solo Berlusconi, come un aggettivo per demonizzare la sinistra comunista, con la voce un po’ stridula di una minaccia perfida e carogna. Debolmente ci si accomoda negando: no, non è una sinistra comunista, è una calunnia, dal comunismo ci siamo liberati, è solo propaganda…Ma che ne sa lui del comunismo…
Che ne sappiamo del comunismo: la grande illusione, la grande bugia, la grande speranza, le bandiere rosse, i bolscevichi, i menscevichi, Lenin, Stalin, Mao Tse Tung, rigorosamente preceduti da un “viva”, il gulag, la Siberia, Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, ci attacchiamo a Fidel, ci attacchiamo a Che Guevara, il muro di Berlino e la piccola Bolognina, che anche nel diminutivo tradisce una fine triste, una morte senza onori e senza trombe e tamburi, senza solennità, un ripiegarsi nella polvere della incuria.
Scriveva Majakovski: “Che suono stridente ha questa parola/per chi non è che inferno il comunismo/ma per noi/questa parola è musica profonda/che risveglia i morti dalla lotta”.
Majakovski non è un profeta e il comunismo non è all’ordine del giorno, non esiste il socialismo, la socialdemocrazia s’è spenta. I laburisti sono diventati persino più pallidi. Non c’è Lenin che conclude la riunione invitando i compagni; e ora andiamo a costruire il socialismo. Non c’è neppure Bad Godesberg: chiedete a un giovane se gli evoca qualcosa e nessuno sarebbe in grado di inventarsi una nuova Bad Godesberg.
Dopo tanto gridare “Vietnam libero”, il Vietnam sarà libero dagli americani, ma non da se stesso. Rifondazione è comunista e un partito è dei comunisti italiani, ma nessuno si sognerebbe di additare per il nostro sole dell’avvenire un’organizzazione della società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dei prodotti del lavoro. Ci hanno provato. Il conflitto è esploso. La natura umana è molto peggio, nel senso della cattiveria, dell’invidia, dell’ingordigia, di un’utopia sociale.
Una delle sere passate, in un teatro alla periferia buia di Modena, in mezzo ai capannoni di una rimessa filoviaria, un teatro che sembra nato tra le vecchie avanguardie e il buon governo istituzionale di un comune rosso, un centinaio di persone, saltando il Festival di Sanremo, ha ascoltato un bravo attore raccontare alcune scene del comunismo, non il comunismo perché sarebbe impossibile e risulterebbe soprattutto retorico, insopportabile e ancora più triste. Il palco è spoglio, un tavolo, una sedia, sul fondo, da un’estremità all’altra, un’asta rigida dalla quale pendono abiti, come un filo teso della biancheria, i pantaloni, giacche, camicie, alla rinfusa, stracci, come sono stracci le memorie del comunismo.
Con Andrea Schianchi, un giornalista e scrittore, l’idea di “Ombre Rosse”, lo spettacolo del Teatro delle Passioni di Modena, è stata di Marco Cavicchioli, che nella sceneggiata delle robe vecchie si presenta con il naso rosso del clown, il clown che è lui, l’uomo del nostro tempo, l’omino degli ultimi bagliori e del dopo comunismo, che si confessa, si piange addosso, rivela i suoi rancori, sente il peso di un tradimento, non sa che dire. E’ rimasto senza parole di fronte a questi anni senza comunismo.
Schianchi e Cavicchioli hanno invitato molti scrittori a raccontare il loro comunismo, quello che non hanno visto, quello che hanno letto, quello che hanno da ricordare….Alcuni testi (di Massimo Parlotto, Marcello Fois, Francesco Piccolo, Michele Serra e dello stesso Andrea Scianchi) li hanno scelti per Modena, altri entreranno nello spettacolo che verrà allestito a Sant’Arcangelo di Romagna. I brani sono brevi, lampi su una storia secolare, monologhi che Marco Cavicchioli, accompagnato dalla fisarmonica di Patrizia Angeloni, restituisce con intensità moltiplicata dalla sua voce, dalla sua mimica, dei suoi occhi balenanti. Cavicchioli è un giovane piccolo, un po’ stempiato, un po’ scavato, dagli occhi vivi. Si cambia d’abito dietro il filo della biancheria, compare ua volta come il vecchio militante che ascolta incredulo della sentenza scritta alla Bolognina, che apprende così di non potersi più chiamare comunista. Cambia la camicia con una giacca grigioverde e diventa Mario Teran, l’ufficiale boliviano che uccise Che Guevara e s’illumina di fronte a quei colpi di pistola e rivendica una fama, un compenso, una gloria che non gli furono riconosciuti. Con una bottiglia in tasca Cavicchioli, barcollante sull’assito, si fa Esenin, il grande poeta “teneramente malato di memorie infantili”, che rivede i segni della sua povertà e della sua disperazione. Con indosso una giacca di pelle e un berrettuccio leninista, recita la parte del bolscevico che elenca i nomi dei compagni, i loro incarichi, in una pagina che avrebbe potuto assumere più risolutamente un taglio elencatorio, alla Perec (come nel magistrale resoconto dell’emigrazione europea a New York, delle quarantene di Ellis Island, sommario di nomi slavi, francesi, irlandesi, russi, italiani, di ebrei, di carichi delle navi, di malattie, di tragedie). Con un completo moderno, Cavicchioli è l’intellettuale che conta “ciò che gli resta”, impressioni minime di vita privata e finestre sull’orizzonte più grande. Il Cile di Pinochet, l’Argentina dei colonnelli, Garcia Lorca davanti al plotone di esecuzione…Tutte storia di comunisti e di vittime del comunismo, vittime per il loro comunismo, sangue, una infinità di sangue, che adesso ti spiegano come sia stato versato in malo modo: inutilmente è possibile, in malo modo non sempre.
Il comunismo è una teoria di ombre che camminano sulla scena del mondo. Mettono tristezza. Cavicchioli recitando non si sente mai prigioniero della Grande Eredità, il suo spettacolo non è una tesi. E’ un documentario; com’erano certi comunisti, come non lo sono più certe istantanee della sconfitta, un pezzo di teatro… Il futuro è un’altra cosa e non siamo stati capaci di farlo diverso.
La “prova” di Modena: un effetto documento liberato dalla retorica. Lo spettacolo ampliato verrà presentato a Volterra Teatro.

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Vincenzo Vasile: «I tre stati della melanconia», bambini russi a scuola di guerra (l'Unità online, 11.09.2004)

C’è un film da far girare nelle scuole italiane. Subito. Non appena apriranno, tra qualche settimana. Oggi lo vedrà il pubblico della Mostra di Venezia. Parla dei bambini. Non di bambini qualunque, ma dei bambini ceceni, dei bambini russi. Di bambini in guerra. Tra loro. È un film che Putin non voleva venisse girato: tolse gli accrediti alla troupe dopo l’11 settembre. Ed è un film che il produttore americano abbandonò a metà perché pretendeva mano libera in sala montaggio, e la regista finlandese si rifiutò di collaborare. È un film che parla di bambini-soldati (o soldati-bambini?), bambini che si odiano, e un giorno forse si incontreranno. Per ammazzarsi. Come si sono incontrati, forse, un giorno di qualche anno addietro il padre di Popov, undicenne russo cadetto dell’Accademia della Marina militare di Kronstadt, isola-fortezza dirimpetto a san Pietroburgo, e la madre di Milania, ragazza di Grozny.
Si tratta solo di due delle innumerevoli storie che si intrecciano in questo dolente e bel documentario di Pirjo Honkasalo, che si chiama I tre stati della melanconia. Storie che, appunto, si aggrovigliano in un grumo di immensa sofferenza, perché il padre dell’uno è un eroe della Marina militare russa morto laggiù nella guerra caucasica, lasciando in eredità al figlio il privilegio di frequentare la scuola-caserma, e l’altra è una ragazza cecena ricoverata in un campo profughi al confine con l’Inguscezia, lì accanto, ha quattordici anni, a dodici fu violentata dai soldati russi per le strade di Grozny, ora prega assieme agli altri, partecipa al sacrificio rituale dell’agnello. Il sangue dell’animale è stropicciato sulla fronte dei neonati, una danza tradizionale si tramuta in marcetta guerrigliera, mentre i cavalli vibrano al rombo dei bombardamenti.
I tre stati della malinconia sono «nostalgia», «respiro» e «ricordo», e scandiscono altrettanti capitoli, diversi per tono, soggetto, ambientazione e stile, ma accomunati da primissimi piani sugli sguardi. Questo è un film sugli occhi, sugli occhi dei bambini, un film che prova quanto sia letterario e falso il luogo comune che pretenderebbe che gli sguardi dei bimbi in guerra siano più maturi della loro età. Si tratta, invece, di sguardi di bambini, semplicemente occhi che a volte ridono, a volte - più spesso - piangono, in parallelo, bimbi russi e bimbi ceceni, e le linee parallele si sa che non sono destinate a dialogare.
Il primo stato della malinconia è la «nostalgia» di casa (povere case lontanissime dalla scuola di guerra di Kronstadt, popolate da madri alcolizzate e dalle foto di padri spariti per via della guerra o per via dei casi della vita), che i piccoli cadetti raggiungono al telefono per i rari permessi-vacanze, anche se un depliant affisso in cabina ammonisce: «Chi si trattiene troppo al telefono fa il gioco di chi sta spiando».
C’è sempre, infatti, un nemico che ascolta, un nemico che questi ragazzi in cambio di un caldo cappotto di panno blu, induriti da esercitazioni che assomigliano a giochi di strada (con la differenza della noia della ripetizione e dei saluti delle manine accostate alla visiera, schierandosi come un commando antiguerriglia anche per tirare palle di neve) si abituano a scorgere in ogni ombra. Finanche in uno di loro, Serghei, che una voce fuori campo spiega essere discriminato e isolato, disprezzato dai colleghi di corso, pur essendo orfano di un russo, ucciso però dal bombardamento di Grozny, sospetto dunque come un ceceno. Ma lui dice di essersi chiuso in se stesso, perché ha visto con gli occhi che cosa sia la guerra e non ha paura di andare a uccidere i malvagi. Gli istruttori urlano: imbecilli, se non si mettono prontamente in riga nel cortile in una livida alba nevosa, poi li esortano a camminare con fierezza, il mento all’insù, lo sguardo in avanti. A scuola di guerra il televisore manda le immagini del teatro di Mosca, dove s’è consumata la strage del commando ceceno, il blitz delle squadre speciali di Putin che precede la tragedia di Beslan, e l’audio dice un gran bene della polizia che ha subito «solo lievi danni a un robot».
Le stesse immagini in tv le vedono i profughi ceceni, dall’altro lato di questa corrente d’odio, nell’ultimo capitolo rubricato, con il titolo: «remembering». Qui il film ha il suo cuore - in bianco e nero, quasi un film dentro al film ? in uno straziante viaggio a Grozny. Che è città fantasma, con brandelli di case sventrate da cannonate e incendi, bambini che giocano a fare «ta-ta-ta» con le pistole di legno aggirandosi in mezzo alle macerie assieme a cani randagi. Qui (nell’episodio «il respiro») una coraggiosa volontaria, Hadizhat Gataeva, ha messo su una famiglia di sessanta orfani raccattati casa per casa, bussando alle porte di palazzi che non ci sono più. Nella devastazione, cinque minuscoli bambini si aggrappano alle vesti della madre morente, avvelenata dai miasmi dei pozzi di petrolio andati a fuoco. Sono come vestiti per la festa, stanno per lasciare quella casa che non è una casa, quella madre che sta per morire. Hadizhat li porta via, con dolcezza, e quell’addio è una delle cose più belle e strazianti viste a Venezia in questa Mostra.
La regista, Pirjo Honkasalo, era stata incaricata originariamente dalla produzione americana di curare la regia di uno degli episodi di una serie sui dieci comandamenti. Aveva scelto: «Non dire falsa testimonianza». Abbandonata dai finanziatori Usa, ha ottenuto fondi finlandesi, svedesi e danesi e un budget dell’Unione europea dedicato ai media. Quando hanno capito quel che stava avvenendo sul set, l’accademia militare di Kronstadt e le autorità dell’Inguscezia, che avevano aperto le loro porte pensando a un film di propaganda, hanno ritirato le credenziali, invitando praticamente la regista finlandese a fare i bagagli. «Come si sia riusciti a girare il film deve rimanere un segreto per non mettere in pericolo la sicurezza di nessuno», dicono gli autori. E questa è l’unica «falsa testimonianza» che si concedono.

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