NOSTALGHIA
Modificato: Venerdì, 28 ottobre 2005

Cronache e testimonianze
in costruzione


Marco D'Eramo: Russia, contagio nostalgia (il manifesto, 13.06.2001)

Ieri, 12 giugno, in Russia si è celebrata la festa dell'Indipendenza. Così i russi hanno goduto di un lunghissimo week-end iniziato venerdì 8, al momento giusto per assaporare la breve estate moscovita. L'unico problema è che in pochissimi sanno che cosa esattamente si festeggi: indipendenza da chi e da cosa? In realtà in questo giorno non si celebra nessuna indipendenza da nessuno, ma solo l'approvazione (avvenuta il 12 giugno 1990) della "Dichiarazione di Sovranità dello Stato" da parte del primo Congresso dei deputati del popolo della Repubblica federale socialista sovietica. Questa dichiarazione di due pagine e mezzo, votata a 907 contro 13, enumerava gli obiettivi democratici della Russia come parte dell'Unione sovietica. Ma, secondo un sondaggio del Centro di ricerca sull'opinione pubblica, solo il 9% dei russi sa che il 12 giugno è ufficialmente chiamato il Giorno del Passaggio della Dichiarazione di Sovranità dello Stato, mentre il 20% non sa fornire alcuna ragione per questa festa, e più della metà (il 59%) lo chiama "Giorno dell'Indipendenza"; il 50% degli intervistati pensa per di più che l'"Indipendenza" non sia stata una buona cosa né per la Russia, né per gli altri stati dell'ex Unione sovietica.
La coscienza popolare restituisce così il vero significato storico di questa "festa" come anniversario del dissolvimento dell'Urss. Lo scetticismo popolare fa capolino quando veniamo a sapere dal Moscow Times che solo il 20% ritiene che questa data abbia un grande significato storico, mentre per il 32% questa festa non vuol dire niente e per un altro 32% costituisce solo un giorno di vacanza in più.
Né i russi sono stati molto più emozionati dai programmi televisivi trasmessi ieri. Certo non dal documentario di 58 minuti sul primo anno di presidenza di Vladimir Putin, andato in onda alle cinque del pomeriggio. Il regista, Vitaly Mansky, ha molto elogiato la "sincerità" dell'ex funzionario del Kgb e ha solo criticato il sofà giallo brillante che campeggia come un pugno nell'occhio nella casa privata di Putin: "Al posto suo, l'avrei tolto subito". Putin però ha parlato anche della guerra in Cecenia, del sottomarino Kursk e della riscossione delle tasse. Tutti argomenti che non hanno riscaldato di letizia i pur sentimentali cuori russi. Né ha generato entusiasmo delirante la replica del programma "Eltsin: un'altra vita" trasmesso una prima volta il primo febbraio per i 70 anni dell'ex presidente: ieri 12 giugno infatti si celebrava non solo l'undicesimo anniversario della dichiarazione di sovranità (che stabiliva tra l'altro l'indipendenza e la separazione dei tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario), ma anche il decimo anniversario dell'elezione di Boris Eltsin, il primo presidente russo eletto con un voto di tipo occidentale.
L'indifferenza popolare esprime bene il clima politico di disincanto che si respira a Mosca. Ma che dovremmo dire noi, cui è stato restituito un 2 giugno patriottardo e goffamente pseudo-risorgimentale? D'altronde quanti giovani italiani sarebbero in grado di dire perché la festa della repubblica si celebra il 2 giugno? Il due giugno italiano condivide con il 12 giugno russo una sorta di artificialità, di "allegria per decreto".
In realtà chiamare il 12 giugno festa dell'indipendenza è un puro scimmiottare l'Independence Day, il 4 luglio statunitense che commemora la Dichiarazione d'indipendenza di quel giorno del 1776. Le feste nazionali sono un portato delle rivoluzioni settecentesche, ed erano state pensate per fornire all'idea di cittadinanza una dimensione di sacralità simile a quella che le feste religiose infondono nel credente. Così queste feste sono spesso scandite dall'equivalente secolare delle feste cristiane, le sfilate o i cortei al posto delle processioni; le decorazioni (Legion d'onore, cavalierato o simili) al posto delle beatificazioni, e spesso grandi feste serali con fuochi d'artificio come sostituto delle sagre paesane. Le feste nazionali sono momenti cardini della liturgia nazionalista, come quei monumenti al milite ignoto cui Benedict Anderson ha dedicato pagine memorabili.
E il grado di legittimità di un regime politico, il livello del consenso sono spesso misurati dalla maggiore o minore spontaneità di questa festa nazionale, che sia il 14 luglio per la Francia (anniversario della presa della Bastiglia nel 1789) o il 7 novembre per l'Urss (data della presa del palazzo d'Inverno da parte dei bolscevichi nel 1917: la rivoluzione d'Ottobre avvenne infatti in novembre a causa del diverso calendario russo). In Francia i balli popolari del 14 luglio sono stati per più di un secolo una vera e propria festa, un po' ebbra, un po' erotica, molto ludica. Le maree umane che in ogni città statunitense si riversano nei parchi, in riva al lago Michigan a Chicago o all'East River a New York, per assistere ai fuochi d'artificio in colossali picnic all'aperto sono il segno di una tenace, per quanto non sempre motivata, fede nel "sogno americano" e adesione all'"american way of life". Nei primi anni del regime sovietico, il 7 novembre c'erano vere e proprie manifestazioni popolari, spettacoli di piazza. Solo con il tempo l'allegria popolare ha lasciato posto all'imponente sfilata militare sotto l'occhio accigliato del Politburo al gran completo (e le foto commemorative dei notabili sul palco si riempivano o si vuotavano a seconda delle censure e delle disgrazie).
"Il problema era che dell'assalto vero e proprio al Palazzo d'inverno... c'erano ben poche notizie. Questa mancanza di documentazione e di memoria pubblica fu supplita dalla recreazione teatrale degli eventi rivoluzionari. Spettacoli di massa come La presa del Palazzo d'inverno che rappresentava l'eroico atto dell'Ottobre e Il mistero del lavoro liberato (1920) impiegavano circa 10.000 comparse... rappresentavano lo splendente sentiero verso l'utopia socialista. ... Questo spettacolo di massa divenne il primo rituale sovietico che progressivamente degenerò nella parata del 7 novembre a cui il popolo sovietico partecipò nel solito modo obbligatorio/volontario per 70 anni". Così scrive Svetlana Boym, emigrata russa negli Usa e professoressa ad Harvard di slavistica e letteratura comparata, in un volume appena uscito e assai curioso, per quanto "politicamente scorretto" a sinistra, che s'intitola The Future of Nostalgia (Basic Books, 2001). Il libro è una storia del sentimento della nostalgia nella modernità e trova la sua origine immediata nella nostalgia che in soli dieci anni di è diffusa in Russia per lo scomparso regime sovietico, una nostalgia che traspare da quel 50% di russi che pensano che l'"Indipendenza" sia stata un male.
Svetlana Boym ci ricorda che fino all'inizio dell'800 la nostalgia era considerata una malattia che "debilitava il corpo... il rimpianto per la terra natia esauriva gli 'spiriti vitali', causando nausea, perdita di appetito, mutamenti patologici nei polmoni, infiammazione del cervello, arresti cardiaci, alte febbri, e anche marasmi e propensione al suicidio". "Le autopsie effettuate sui francesi morti nella proverbiale neve russa durante la tremenda ritirata di Napoleone da Mosca rivelarono che molti di loro avevano la caratteristica infiammazione cerebrale della nostalgia". Per curare la nostalgia erano consigliati oppio, sanguisughe e emulsioni ipnotiche. Ma nel giro di un secolo da malattia individuale curabile, la nostalgia - scrive Boym - divenne un male incurabile e collettivo, un'epidemia sociale. "Qui la nostalgia non è sempre per un ancien régime o per un impero caduto, ma anche per i sogni non realizzati del passato e per visioni del futuro che sono divenute obsolete": con che esattezza questo brano descrive il sentimento che prevale in tante parti della sinistra! "La nostalgia non sempre riguarda il passato: può essere retrospettiva ma anche prospettiva. Fantasie del passato determinate dalle necessità del presente hanno un impatto diretto sulle realtà del futuro... A differenza della malinconia, che si confina alla dimensione della coscienza individuale, la nostalgia riguarda la relazione tra biografia individuale e biografia di gruppi o nazioni, tra memoria personale e collettiva".
Boym ripercorre i tragitti con cui si è articolata l'idea di nostalgia, il suo intreccio con l'idea del progresso, con la mutata percezione del tempo, con Baudelaire, Nietzsche, Benjamin, via via nella cultura popolare e giunge infine a interrogare l'epidemia di nostalgia per i "bei tempi di Breznev" che dilaga in Russia. Parafrasando una poesia di Giorgio Caproni - Sono tornato là dove non ero mai stato. Niente è cambiato da come non era... Tutto è rimasto proprio come non l'ho mai lasciato... (cito a memoria) - i russi di oggi rimpiangono un passato immaginario, che non c'è mai stato e questo, dice Boym, proprio a causa dei meccanismi psicologici introiettati durante il regime sovietico: la diffidenza patologica nei confronti di tutto ciò che è statale e governativo, la sostanziale impoliticicità e il qualunquismo. Naturalmente, ogni nostalgia ha bisogno di un supporto reale: "La nostalgia divenne un meccanismo di difesa contro il ritmo accelerato dei cambiamenti e la terapia d'urto in economia. Secondo alcuni, i riformatori economici russi dei primi anni '90 hanno ridotto troppo rapidamente un ampio programma democratico e sociale alla pura economia, in una fede cieca nella missione salvifica del libero mercato... fu come se fosse stata trovata di nuovo una teleologia rivoluzionaria che desse significato e scopo al caos circostante della transizione, solo che questa volta non era marxista-leninista ma capitalista". Eppure dice Boym, "la Russia post-sovietica era uno dei posti più controversi, più eccitanti e più contraddittori al mondo, dove libertà radicale, imprevedibilità e sperimentazione sociale coesistevano con il fatalismo, la sopravvivenza di istituzioni politiche sovietiche, il revival di valori tradizionali e della religione".
Naturalmente anche Svetlana Boym è nostalgica: la sua personale nostalgia riguarda il movimento dell'agosto 1991, quando la mobilitazione della piazza impedì che riuscisse il golpe contro Gorbaciov. Boym si chiede come mai quell'entusiasmo, quella voglia di politica si è spento nell'apatia. Potrebbe chiederlo ai consiglieri statunitensi del presidente-despota Eltsin. Ma anche per lei, come per tanti contemporanei contagiati da questo morbo, può valere quel bellissimo titolo, nostalgico al quadrato o al cubo, dell'autobiografia di Simone Signoret: La nostalgie n'est plus ce qu'elle était.

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Marco D'Eramo: Osten vuol dire Est (il manifesto, 6.09.2003)

Si è aperta a fine luglio alla Neue Nationalgalerie di Berlino la mostra «L'arte in Ddr» , solo l'ultima in ordine di tempo tra le sempre più numerose manifestazioni dell' Ostalgia che si è impossessata della Germania unita: ostàlgia (da pronunciare con la g dura, come in «gas») è un neologismo formato da nostalgia e da Osten (che in tedesco vuol dire «est»), ovvero nostalgia per l'epoca in cui c'era la Germania orientale.
L'esempio più clamoroso di ostalgia è stato naturalmente il film Goodbye Lenin che ha sbancato i botteghini e che, da febbraio - quando è uscito - a oggi, in Germania è stato visto da 6 milioni di spettatori. Ma già nel 2001, su un tema assai vicino, era uscito Berlin is in Germany di Hannes Stohr, che racconta le peripezie di un cittadino dell'est, imprigionato proprio prima della caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e liberato dieci anni dopo. Dell'anno scorso è invece Halbe Treppe (l'edizione internazionale è intitolata Grill Point), commedia sentimentale di Andreas Dresen, sulle difficoltà di adattamento al capitalismo degli abitanti di Francoforte sull'Oder. Naturalmente anche la Tv si è buttata su questo filone: da settembre il canale Rtl trasmetterà una serie sull'ostalgia, animata dalla pattinatrice della Ddr Katarina Witt (due volte olimpionica) in cui saranno ripresi spettacoli, canzoni, e altri aspetti della vita nella Germania orientale.
Ma l'ostalgia è visibile anche nei caffè e nei bar: poiché Goodbye Lenin uscirà in Francia a settembre, il corrispondente di Le Monde a Berlino in un articolo sul tema annovera, tra questi locali, il Kombinat a Berlin Mitte, in cui campeggia una bella stella rossa. In questo rimpianto per il passato confluiscono disparate componenti. Come in ogni epoca della storia, ci sono i nostalgici per vocazione, quelli che sarebbero nostalgici anche dell'inferno («almeno lì faceva più caldo»). Ci sono i teorici del «come stavamo meglio quando stavamo peggio»: genia che prospera anche nella sinistra italiana: in questo caso la variante dell'ostalgia è il rimpianto per la guerra fredda e per un'Unione sovietica che bilanciava lo strapotere Usa. Ci sono i privilegiati dell'ancien régime che hanno perso i loro privilegi e i membri di tutti gli apparati repressivi che hanno perso il loro status e sono stati criminalizzati. Ma in Germania ci sono le decine di migliaia di professori liceali di marxismo che hanno perso non solo il lavoro ma anche la propria specializzazione. E poi ci sono tutti gli scienziati della Germania est penalizzati dalle nuove graduatorie (per esempio sapere l'inglese fa punti per i concorsi universitari, mentre sapere il russo no). Ci sono i nuovi disoccupati, e i nuovi poveri. Ci sono i delusi dal capitalismo: viene in mente la battuta sui due russi che s'incontrano: «La sai la brutta notizia? Tutto quello che ci diceva il Pcus sul comunismo era falso». Risponde l'altro: «Ma c'è una notizia ancora peggiore: tutto quello che ci diceva sul capitalismo era vero».
E poi c'è un generale sentimento d'umiliazione: i tedeschi orientali (gli Ossi) vengono trattati dagli occidentali con la stessa considerazione che i leghisti di Umberto Bossi hanno per i «terroni». La Germania est è diventata la «questione meridionale tedesca» con una straordinaria somiglianza negli stereotipi. Gli Ossi sarebbero pigri, furbastri, burocratici, sempre in attesa della manna statale, privi di spirito d'iniziativa. Da 14 anni gli Ossi si sentono fare ogni giorno dai Wessi una lezione di civismo, di imprenditorialità, di moralità. Per i Wessi invece l'ostalgia è il piacere per un folklore desueto, assomiglia alla passione dei padani per la commedia napoletana, e la Trabant è l'equivalente metallico del carretto siciliano.
Questa nostalgia è particolarmente vistosa in Germania, ma - in gradi diversi - si manifesta in tutti i paesi dell'ex blocco sovietico. In ogni paese vi è una ragione specifica. In Polonia per esempio, adesso si sparla dei preti come sotto il comunismo si denigravano i commissari del popolo (cioè sempre per allusioni e a bassa voce). In Russia il crollo della produzione, dell'economia, del livello di vita e anche della speranza di vita (tra il 1991 e il 1994 la durata della vita media dei maschi russi diminuì di 6 anni!) abbellirono il ricordo del passato (che d'altronde appare sempre più roseo di quel che fu in realtà).
Ma il rimpianto del comunismo è un fenomeno complesso su cui si studia da parecchi anni. Nel 1996 si tenne una memorabile conferenza a Bellagio. Nel 2001, nella New York del dopo 11 settembre, girellando per una libreria Barnes and Noble, inciampai in un volumone dal titolo che mi affascinò: The Future of Nostalgia (pp. XIX, 404, Basic Books, 2001) della slavista russa, oggi professoressa ad Harvard, Svetlana Boym. Alla fine di questa primavera è uscito per i tipi di Bruno Mondadori un volume collettivo, Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo (pp. 290, 24,00), la cui prima parte è una versione molto abbreviata del saggio di Boym (mi piaceva di più il titolo inglese) che ha il pregio di discutere in generale questa strana categoria della modernità e di tracciarne una breve storia: il primo «manifesto della nostalgia» è redatto nel '400 dal primo poeta maledetto moderno, François Villon: «Mais où sont les neiges d'antan...?» («Dove sono le nevi d'un tempo che l'aprile ha disciolto?»).
Intanto il termine stesso è un neologismo pseudo-greco - da due parole elleniche, nostos, ritorno a casa, e algos, dolore - che fu coniato nel 1688 dal medico svizzero Johannes Hofer per descrivere una precisa malattia: «la tristezza ingenerata dall'ardente brama di tornare a casa». In realtà la nostalgia assunse subito un significato più vasto e poté coesistere, senza sovrapporsi, con i termini specifici che le varie lingue hanno per designare il rimpianto del proprio paese, mal du pays in Francia, Heimweh in Germania, mal de corazon in Spagna. Per Hofer, chi soffriva di nostalgia aveva «rappresentazioni distorte», perdeva contatto con la realtà, assumeva un aspetto esanime e allampanato, confondeva eventi reali e immaginari, passati e presenti, sentiva voci e vedeva fantasmi. Il ritorno diventava un'ossessione. La nostalgia era perciò una vera e propria malattia, con tratti in comune con l'ipocondria e la melancolia. Di diverso c'era che la nostalgia era non solo una sindrome privata, ma anche un morbo pubblico. «Nel 1733 l'esercito russo cadde vittima della nostalgia appena entrò in territorio tedesco e la situazione divenne così seria che il generale fu costretto a escogitare una cura radicale per debellare il virus nostalgico. Minacciò che il "primo che si fosse ammalato, sarebbe stato sepolto vivo"». A fine `700 la nostalgia era diventata «un'epidemia pubblica» (nella stessa costellazione di sentimenti, dilaga nella stessa epoca la passione per le rovine). Addirittura, «le autopsie che furono eseguite sui soldati francesi morti nella proverbiale neve russa durante la disastrosa ritirata della Grande Armata napoleonica rivelarono che molti di loro presentavano infiammazioni cerebrali caratteristiche della nostalgia».
La nostalgia sarebbe dunque solo un'altra di quelle «malattie transitorie» di cui parla il filosofo Ian Hacking, che vengono diagnosticate in certi luoghi per un certo periodo e poi scompaiono. Oggi, dice Boym, la nostalgia è una sindrome medica solo in Israele (non per caso, si potrebbe aggiungere). C'era però in questa concezione medica della nostalgia un risvolto sanitario che ci appare balzano - ma non più dell'idea che la depressione sia debellabile col Prozac - e cioè che la nostalgia fosse curabile. Ma mano mano che l'ideologia del progresso si diffondeva e predominava, la nostalgia non era più una sindrome individuale, ma diventava un vero e proprio mal du siècle.
Il proprio del progresso è di relegare il passato nell'irripetibilità: poiché noi siamo progrediti rispetto a esso, non potremo più vivere ed essere come eravamo allora. Il desiderio del ritorno al passato diventa un desiderio impossibile perché il passato non potrà mai ripresentarsi come era. L'esito più esasperato di questo procedimento è riscontrabile nel titolo dell'autobiografia dell'attrice (e compagna di Yves Montand) Simone Signoret, La nostalgie n'est plus ce qu'elle était («La nostalgia non è più quella di una volta).
Da malattia debellabile a male incurabile, la nostalgia è il marchio indelebile ogni percezione del moderno. Anzi, poiché ogni presente è destinato a fulmineamente divenire passato, il secondo romanticismo elabora una nuova forma di nostalgia: la nostalgia del presente. Ognuno guarda l'istante attuale come quel labile momento che sta per sprofondare in un irrepetibile passato. Charles Baudelaire lo esprime benissimo nella poesia La Passante (prevedibilmente citata da Svetlana Boym), in cui egli guarda una passante che incrocia per mai più rivederla, con già la nostalgia di un amore che avrebbe potuto essere e non sarà, la nostalgia di un amore virtuale.
Sempre nell'800, quando Los Angeles era un avamposto spagnolo, Chicago era ancora un paesello, e New York era una piccola cittadina comparata a Londra o Parigi, un promotore immobiliare di Saint Louis prediceva che «dalle frenetiche città della Costa Pacifica, pellegrini sentimentali giungeranno là dove ora sono Boston, Filadelfia e New York e contempleranno lunari, con malinconia, le tracce delle Atene, delle Babele e delle Cartagine dell'emisfero occidentale» (ancora le rovine, solo che in questo brano sono «ruderi posteri»). Qui siamo addirittura in una situazione di nostalgia del futuro, di vivere il presente in uno stato di futuro anteriore.
Dalla nostalgia del paese natio e del passato, siamo passati alla nostalgia del presente, e poi alla nostalgia del possibile, e poi alla nostalgia del futuro. Cioè alla nostalgia come sentimento intransitivo, che non si riferisce a nulla di specifico, che non ha neanche una specifica ragione di essere, ma soffonde di malinconia l'intera percezione interiore del nostro esistere: cosa è lo spleen se non una nostalgia intransitiva? Se la nostalgia permea tutta la nostra percezione, vuol dire che ci sentiamo costantemente estraniati, spaesati: «la società moderna appare come un paese straniero, la vita pubblica un'emigrazione dall'idillio familiare, l'esistenza urbana un esilio permanente» (Boym).
Infine c'è una nostalgia anche di ciò che non è mai esistito, come esprime in modo fantastico una poesia di Giorgio Caproni, intitolata «Ritorno» - nel nostro contesto diremmo nostos - che Boym cita alla fine del suo libro inglese (nella versione italiana manca tutta la parte su come influisce l'informatica sulla nostalgia):
«Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull'incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere mai riempito.
Tutto è ancora rimasto quale
mai l'avevo lasciato.»
È probabile che la nostalgia del comunismo appartenga, almeno in parte, a questo rimpianto di quel che non fu.

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Jean-Marie Chauvier: Il divenire del passato. In Russia, tra nostalgie sovietiche e nuovo patriottismo di stato (Le Monde diplomatique, marzo 2004)

Chi non ha visto, anche solo sullo schermo, le statue dell'operaio e della contadina kolkoziana (della scultrice Vera Mukina) che brandiscono la falce e il martello, protesi verso un radioso avvenire? (1) Il monumento, eretto all'ingresso del Parco delle esposizioni a Mosca, è stato recentemente rimosso - ma non per essere buttato in una discarica.
È anzi in via di restauro. Il 9 maggio, data della celebrazione ufficiale della vittoria sulla Germania nazista, rifioriscono le bandiere rosse, come già alle sfilate comuniste del 1° maggio e del 7 novembre (2) . E risuona di nuovo l'inno dell'Urss (3) . Si vedono adolescenti indossare magliette con la scritta «La mia patria: l'Urss». Gruppi rock riciclano musiche sovietiche. Nel repertorio della band Fm di Mosca aumenta il numero delle canzoni in russo. Nei caffè più in voga, così come nella pubblicità, compaiono simboli sovietici, a testimonianza di una «nostalgia» postmoderna.
Questa inversione di tendenza è iniziata fin dalla metà degli anni 90. La Tv ha ripreso a trasmettere - «a richiesta del pubblico», dicono gli speaker - film sovietici. Un editorialista si preoccupa: il «popolo sovietico» non ha cessato di esistere, e la nostalgia appare come «l'umore dominante nel clima di oggi» (4) . I sondaggi di istituti reputati seri confermano: «il 57% dei russi vorrebbe il ritorno dell'Urss» (2001), il 45% considera il sistema sovietico come «migliore» di quello attuale, e il 43% si augura addirittura «una nuova rivoluzione bolscevica» (2003). Anche le opinioni sul presente non brillano per «correttezza»: discredito della «rivoluzione democratica» dell'agosto 1991 (5) e massiccia condanna (l'80%) delle grandi privatizzazioni «criminali». I democratici inviperiti parlano di amnesia («hanno dimenticato i gulag e la penuria»), di odio per i ricchi «solo perché ricchi», di mediocrità di perdenti e di vecchi, e concludono: «la biologia risolverà il problema». Le loro angosce hanno trovato conferma sotto Vladimir Putin in una serie di eventi politici: azioni giudiziarie nei confronti di alcuni grossi oligarchi e dei loro amici e sponsor (6) , ripresa del controllo dei grandi media da parte del Cremlino, riabilitazione dell'Nkvd e del Kgb (7) , influenza crescente dei «siloviki (8) » e dell'Fsb, volontà di restaurare l'influenza russa nell'area ex sovietica, critiche ufficiali contro la penetrazione degli Stati uniti in quelle aree e contro la guerra in Iraq, voluta dagli Usa, in barba all'«alleanza strategica» stretta con Washington dal presidente Putin l'indomani dell'11 settembre 2001.
Memoria e mercato Eppure gli sforzi per sradicare il comunismo non sono mancati. Dal 1991 i russi sono stati sommersi da documenti d'archivio, articoli, libri e trasmissioni televisive che denunciano i «crimini bolscevichi»: il terrore rosso sotto Lenin e Trotzky, il «Grande terrore» sotto Stalin, la carestia del 1932- 1933, i gulag, la deportazione di popoli «puniti» o «sospettati» di aver collaborato con la Germania nazista, la repressione sotto Breznev. La «battaglia della memoria», in parallelo con la promozione dei «valori democratici di mercato», è stata lanciata con foga dai grandi media e da vari giornalisti e storici, appoggiati da una vasta rete occidentale e soprattutto americana di istituzioni, università a fondazioni - Ford, Soros, Hoover, Heritage, Carnegie, Usis, Usaid - senza parlare degli oligarchi filantropi nella stessa Russia (9).
I dibattiti con contraddittorio dei tempi di Gorbaciov (10) hanno lasciato il posto alle requisitorie contro «l'Impero del Male» in tutte le sue incarnazioni. La virulenza di questo anticomunismo russo fa impallidire le crociate occidentali. In tutti i momenti di crisi suscettibili di mettere al repentaglio il nuovo regime viene agitato lo spauracchio del «ritorno dei rossi» e della guerra civile.
La condanna del «bolscevismo» comporta la riabilitazione dei suoi oppositori - il particolare del movimento dei Bianchi e dei dissidenti.
In alcuni casi si guarda con comprensione persino alla collaborazione con i nazisti. Ad esempio, il cronista delle Izvestia Maxim Sokolov tenta di spiegare: «I tempi erano complessi... (Il Terzo Reich) era l'unico bastione in grado di proteggere l'Europa dalla barbarie bolscevica.
Se fosse vissuto fino ai nostri giorni, il Reichsführer delle SS (Himmler) sarebbe probabilmente decorato come combattente contro il totalitarismo (11) ».
Questo revisionismo caricaturale e cieco ai contesti reali, alle distinzioni tra periodi, ai regimi, alle società e alle culture assai diverse delle storia sovietica è contestato da numerosi storici, che però trovano scarso ascolto. Ben più diffusi sono i best-seller di Viktor Suvorov. Il più recente, pubblicato alla fine del 2002 (12) esordisce con la seguente affermazione: «Tutti i dirigenti sovietici, senza eccezione alcuna, erano farabutti e incapaci».
Ma anche tra i pionieri dell'anticomunismo ufficiale c'è chi ritiene controproducente questo tipo di denigrazione; ad esempio, fin dal 1995 Alexander Tsipko, ne aveva deplorato gli effetti demoralizzanti, che aggiunti a quelli delle «riforme confiscatorie» hanno «preparato il terreno per una riabilitazione della storia sovietica» (13).
E aveva visto giusto. Al di là del «sistema», gli attacchi prendono di mira i valori egualitari, collettivisti e comunitari legati non solo all'Unione Sovietica, ma anche alla Russia tradizionale. Viene bersagliata la «gente dei ceti inferiori», tanto che gli operai, già destabilizzati sul piano delle condizioni di vita, si ritrovano per di più stigmatizzati come «complici» del passato regime, «assistiti», «pigri» e «inutili» al progresso postindustriale (14).
Ma nonostante questa valanga, la Russia sfugge ancora al «pensiero unico» sull'Urss. Sono troppe qui le esperienze vissute e le memorie spezzate, troppo importante è l'eredità culturale per far passare questo tipo di conformismo. Le storie di vita possono veicolare in una stessa vena gli echi caotici di un'epoca in cui tra la fede cristallina, le gioie positive e le cadute improvvise e incomprensibili nell'inferno di un terrore cieco c'era una linea di demarcazione quanto mai labile.
Il principale testimone dell'universo dei gulag, Varlam Chalamov (15) , evoca la sua giovinezza fremente, il fascino di Lenin e gli ideali della rivoluzione («Quali orizzonti, che immensità si offrivano allo sguardo di ognuno, anche della gente qualunque»), in un periodo molto ambiguo dell'Unione Sovietica come quello degli anni venti (16) . Voci che emanano dalle esistenze più comuni fanno percepire i motivi dell'adesione popolare a quel socialismo - come il racconto di Ludmila, figlia di un contadino brutalizzato dalla «dekulakizzazione», che riesce però a superare la barriera tra mondi diversi, e arrivata in città, percorre la via della promozione sociale (17) . Fu effettivamente questo il percorso di milioni di rurali. Tra i contadini passati per la guerra civile e rimasti nei loro villaggi all'epoca della «grande cesura» della collettivizzazione, altre storie di vita sono state raccolte in tempo utile (18) , cioè all'inizio degli anni 90, quando la parola, liberata, non era stata ancora «riformattata» dall'ideologia anticomunista dominante. Uno dei problemi della memoria «ricostruita» in questo nuovo contesto è il reclutamento delle vittime e dei martiri, al servizio di un'ideologia «antitotalitaria» formulata a posteriori. in buona parte, si trattava in realtà di comunisti e oppositori della sinistra trotzkista (19) ; gente che anche dopo essere uscita dal gulag non aveva mai cessato di credere nel «socialismo» e di servirlo. Con quale diritto si pretende che abbiano rinnegato quelle idee? Chi può permettersi di parlare in nome dei morti?
Ma la maggioranza degli ex sovietici ancora in vita non ha conosciuto quei tempi estremi. I più ricordano i quattro decenni circa vissuti nell'Unione Sovietica nel dopoguerra e dopo la morte di Stalin. Un artista rammenta l'atmosfera degli anni 1960: «Forse sto idealizzando, ma c'era allora nel paese uno slancio ottimista. Non mi riferisco alla politica, bensì al clima morale della gente che avevo intorno.
L'impulso dato dai Beatles ha rivelato l'aspirazione all'amore, che ha raggiunto il suo zenit con il movimento hippy... È stata un'epoca luminosa, che mi ha insegnato a vivere guardando al futuro con ottimismo».
Inaspettata, questa collisione-collusione di riferimenti: il primo in sintonia con le idee ufficiali («guardare al futuro con ottimismo»), l'altro con una cultura non conformista come quella dei Beatles.
Un presente di rimpianti Il fatto è che in molti la fiducia nelle prospettive di un paese in pieno sviluppo, dove nessuno aveva timori per l'indomani, ha potuto coesistere con un atteggiamento apolitico, e con le tentazioni di una cultura alternativa. Altri, contestatori del regime di Breznev, rimpiangono i tempi in cui si rifaceva il mondo intorno a un tavolo di cucina. «Il futuro ancora non c'era», e come ben sappiamo, sarebbe stato assai deludente. Quanti sono stati quelli che dopo il 1991, si sono ritirati dalla scena, malati, depressi, o morti di tristezza vedendo i risultati di un cambiamento in cui avevano riposto tante speranze?
«I nuovi capi screditano i shestidisiatniki, la generazione degli anni 1960, spiega Vassili Juravliov, che per loro rappresenta un rimprovero vivente. Perché è issandosi sulle loro spalle che gli oligarchi e altri affaristi sono arrivati al potere» (20) . Molti ex giovani - che non erano né militanti né contestatori, e neppure intellettuali o quadri del partito, ma semplicemente ansiosi di vivere una vita piena - erano partiti verso i «grandi cantieri» degli anni 1950-1980 rinunciando alle comodità urbane, per spirito romantico o anche perché attirati dai premi. La costruzione della «città della scienza» a Novosibirsk, le grandi centrali sui fiumi siberiani, i complessi industriali di Togliatti o sulla Kama, la seconda transiberiana, il Bam, hanno lasciato in molti il ricordo di una giovinezza intensa, al di là dell'idea oggi diffusa di un immenso sperpero.
Altri sono tornati profondamente segnati da avventure abominevoli come la guerra in Afghanistan: i mutilati, sulla quarantina, ne parlano per strada o nel metrò. E già sono di turno i più giovani, reduci da quell'altro abominio che è la Cecenia.
Ma la maggioranza non ha partecipato a queste esperienze forti. Hanno semplicemente vissuto, immersi in una cultura, in uno stile di vita e di rapporti sociali da cui non si separano senza dolore. Nato nel 1961, lo scrittore ucraino Andrej Kurkov esprime in proposito il suo punto di vista, condiviso da molti: «Quella società era fondata sull'amicizia. Potevi bussare alla porta dei tuoi vicini: se avevi bisogno di soldi, te li prestavano. Dopo il crollo è crollata anche questa solidarietà (...) Chi allora era bambino e adesso ha vent'anni fa presto ad adattarsi; ma per la mia generazione, la malattia di quest'epoca è la solitudine. Ho perso numerosi amici. Molti si sono suicidati, altri sono emigrati (21)».
Ricordo di rapporti conviviali, o vivacità di una cultura sociale che ancora si può intravedere nelle resistenze alla liberalizzazione?
La ricercatrice Ludmila Bulavka riporta le testimonianze di operai impegnati nei recenti movimenti di protesta: i militanti giudicano con severità le illusioni che negli anni 1989-91 li avevano spinti a sostenere i democratici. Risentono della fine dell'Urss come di una perdita dolorosa, e non accettano che i padroni di oggi dettino legge senza consultarli. Vogliono ancora credere nel motto «lo stato siamo noi», e restano legati a una cultura del consenso e del paternalismo sociale (22).
Ciò che manca agli occidentali per comprendere questo senso di «perdita» è tutto un continente: un universo di cultura, lo spessore di una vita sociale difficile da inquadrare in qualche ideologia. Come far rientrare nei loro stereotipi non solo l'avanguardia, ma tutta la cultura di massa che ha segnato più generazioni: le commedie musicali di Alexandrov e il jazz di Utesov, l'umorismo di Ilf e Petrov, le avventure del soldato Vassili Tiorkin, i personaggi «a metà del guado» del cinema di Vassili Shukshin, l'arte dei dilettanti nei club di fabbrica, e poi il vasto movimento dei cantautori, la più importante «contestazione» di massa degli anni 1960- 1980? Come classificare la decisione presa recentemente dai bardi non conformisti di ogni età, di consacrare «canzone del secolo» la ballata «Grenada» di Mikhail Svetlov, «poeta del Komsomol» degli anni 1920? Si potranno mai trasmettere i messaggi di quell'Atlantide realmente esistita?
Un'inchiesta realizzata con il concorso della Fondazione tedesca Friedrich Ebert e diretta da Mikhail Gorshkov (23) mostra fino a che punto la «riabilitazione dell'Urss» proceda da una riflessione maturata, fuori dagli stereotipi. E rivela l'insuccesso dei tentativi del potere e dei media di presentare i settant'anni sovietici come un «incubo»; si direbbe anzi che la pressione esercitata in questo senso abbia ormai esaurito i suoi effetti. I giudizi differiscono però a seconda dei periodi presi in considerazione e dell'età degli intervistati. ¥ «Nulla può giustificare i crimini dello stalinismo»: lo pensa il 75,6% nella fascia d'età tra i 16 e i 24 anni; il 73,5% tra i 25 e i 35; il 74% tra i 36 e i 45; il 66,8% tra i 46 e i 55 e il 53,1% tra i 56 e i 65.
¥ «Le idee marxiste erano giuste»: le risposte positive variano, dai più giovani ai più anziani, dal 27,4% al 50,3%.
¥ «La democrazia occidentale, l'individualismo e il liberalismo sono valori inadatti ai russi»: la pensa così il 62,9% della fascia d'età tra i 56 e i 65 anni, ma soltanto il 24,4% di quella compresa tra 16 e 24; ¥ Tra i «motivi d'orgoglio», la vittoria del 1945 è citata in tutte le fasce d'età dall'80% degli intervistati; al secondo posto figura per gli ultratrentacinquenni la ricostruzione del dopoguerra, mentre i più giovani (tra 16 e 35 anni) danno la preferenza ai «grandi poeti russi, agli scrittori, ai compositori». Le imprese dei cosmonauti sono citate dal 60% circa in tutte le fasce d'età. L'affermazione secondo la quale «in tutta la storia della Russia, l'Urss fu il primo stato ad assicurare la giustizia sociale per la gente semplice» ha l'adesione maggioritaria degli intervistati dai 35 anni in su, del 42,3% della fascia compresa tra i 25 2 i 35 anni e solo del 31,3% dei giovani tra i 16 e i 24 anni.
Tra le caratteristiche dei diversi periodi, la maggioranza degli intervistati indica prevalentemente: ¥ per il periodo staliniano: la disciplina e l'ordine, la paura, gli ideali, l'amor patrio, un rapido sviluppo economico; ¥ per il periodo brezneviano: la protezione sociale, la gioia di vivere, il successo in campo scientifico e tecnico e nell'istruzione, i rapporti fiduciosi tra la gente; ¥ per la Russia attuale: la criminalità, l'incertezza per il futuro, i conflitti tra nazioni, la possibilità di arricchirsi, la crisi e l'ingiustizia sociale. Tra gli intervistati di idee liberali, il 25% attribuisce un bilancio positivo all'era brezneviana (valutato favorevolmente dal 45,9% dei comunisti), mentre il 21% dà un giudizio negativo del periodo di Eltsin (contro il 59% dei comunisti). Punti di non ritorno Quanto al futuro, una larga maggioranza si pronuncia in favore di una gestione statale dei grandi settori economici, della scuola e della sanità, e approva la gestione mista (con il settore privato) soltanto nel campo dell'alimentazione, degli alloggi e dei media.
Sono in maggioranza (il 54%) coloro che «optano per una società di uguaglianza sociale» e indicano come requisito principale della democrazia «l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
Una visione evolutiva del passato appare dunque filtrata dall'esperienza di «riforme di mercato», i cui gli effetti disastrosi sono ormai largamente riconosciuti.
La sociologa Tatiana Zaslavskaia (24) , prima ispiratrice di queste riforme, ritiene che i lavoratori siano oggi «ancora più alienati dalla proprietà e privi di diritti che nell'epoca sovietica. (...) La produzione si è non solo contratta, ma anche degradata, sia dal punto di vista strutturale che tecnologico (...) Alcuni settori che nell'epoca sovietica assicuravano il soddisfacimento dei bisogni sociali, contribuendo ad elevare, sia pure di poco, la qualità di vita della popolazione, si vanno oggi degradando sempre più. Le conquiste democratiche del periodo della perestroika e della glasnost sono in pericolo (...). La polarizzazione della società procede a un ritmo impressionante (...): moltissimi - tra il 20 e il 30% della popolazione - subiscono gravi privazioni, occupano alloggi in rovina, non hanno di che nutrirsi a sufficienza, sono ammalati e rischiano di morire prematuramente».
L'economista liberale Grigori Iavlinski, esponente di punta del partito riformista Iabloko, parla di «demodernizzazione» della Russia, e l'ecologista Oleg Ianitski di una «società del rischio generalizzato».
«Vivevamo dietro la cortina di ferro, spiega lo storico della società contadina e della collettivizzazione Viktor Danilov. Non sapendo nulla delle realtà esterne, credevamo di vivere nella miseria dell'appiattimento.
Ora che la cortina di ferro è caduta (...) abbiamo subito la prova della vera indigenza. Ormai sappiamo che nel periodo sovietico non vivevamo nella miseria, ma in una "sufficienza" appiattita, sia pure a un livello basso. Il sistema sanitario e la scuola erano accessibili a tutti, al di là dei privilegi dei "servitori del popolo". Le code esistevano perché tutti potessero procurarsi il necessario, che oggi per i più è diventato inaccessibile». Sempre secondo Danilov, per molti «indubbiamente si sono aperte le porte verso il mondo esterno, ma in compenso si sono erette "porte blindate" tra la gente. Mai prima d'ora l'atomizzazione era arrivata a un tale grado». Al di là di queste tristi constatazioni, non mancano in Russia le riflessioni interessanti sul passato, sul futuro e sulle possibilità di sviluppo. Ma in Occidente quest'universo molto variegato del pensiero russo è ignorato, mentre trovano un'eco solo i giudizi di stampo liberista e filo- occidentale.
Un vitello d'oro, verde come il dollaro Frattanto però il risentimento nato dallo sconcerto e dalla miseria dà spazio a un patriottismo nuova maniera, alimentato da una nuova «immagine del nemico», costruita di concerto con l'Occidente civilizzato con il quale ci si identifica: quella del «terrorista» arabo- musulmano.
Il clima non è più «antimperialista» ma xenofobo: il «bianco piccolo piccolo» contro altri popoli ancora più poveri, contro un Sud minaccioso.
Paradossalmente, molti rimpiangono i rapporti cordiali che regnavano nelle comunità multinazionali sovietiche di operai e studenti, e al tempo stesso si lamentano delle nuove frontiere, degli ostacoli politici e finanziari alla libertà di viaggiare, della dispersione delle famiglie e dei gruppi di amici. Si accetta il massacro dei ceceni, ma al tempo stesso si apprezza il film- culto degli anni 1930, Il Circo, in cui l'attore ebreo Salomon Mikhoels (che morirà assassinato da Stalin durante la campagna antisionista e antisemita) canta una ninna nanna in yiddish a un bimbo nero strappato alle grinfie del razzismo americano! La nostalgia dell'Urss e la sua rivalutazione tra la popolazione non vanno confuse con le diverse strumentalizzazioni politiche del fenomeno. La realtà esclude un «ritorno del sovietismo»: la liquidazione del sistema sociale sovietico, le privatizzazioni, il ruolo del denaro e le pressioni del mondo «globale» esterno hanno raggiunto un punto di non ritorno. E se le tradizioni di potenza, burocratiche e poliziesche sono riattivate dall'esigenza interna di potere e di controllo della rendita petrolifera, tutto questo avviene in un contesto internazionale in cui l'esempio della militarizzazione e della cultura da stato di polizia viene proprio dal «modello» statunitense, venerato dai nuovi russi.
Tra le varie «riabilitazioni», il presidente Putin non ha dimenticato Pietro il Grande, il riformatore liberale e autoritario Piotr Stolypin, sotto Nicola II, né l'attualissima Chiesa ortodossa. Il Cremlino ha per emblema l'aquila imperiale bicefala coronata. Mentre l'idolo della nuova borghesia è un Vitello d'oro verde come il dollaro.
Quanto ai due giovani proletari bronzei di Vera Mukina, che ancora brandiscono gli attrezzi del comunismo, la notizia del loro restauro non dovrebbe spaventare i liberali: quando saranno di nuovo in piedi, fieri e pietrificati nel loro slancio verso il futuro anteriore, l'operaio e la contadina kolkoziana avranno sotto i piedi un piedistallo più grande e degno dei tempi nuovi, davanti a un centro commerciale.

note:
* Giornalista, Bruxelles.
(1) L'immagine dei due giovani proletari figurava nei titoli di testa dei film prodotti dalla Mosfilm sovietica.
(2) Anniversario della «Grande rivoluzione socialista dell'ottobre 1917».
(3) L'inno, composto da Boris Alexandrov, che nel 1945 aveva sostituito «L'internazionale» e nel 1991 è caduto insieme all'Urss, è stato ripristinato dalla Duma l'8 dicembre 2000 con un nuovo testo «patriottico» di Sergej Mikhalkov, già autore dell'inno sovietico.
(4) Andréi Koslesnikov, Izvestia, Mosca, 5 giugno e 14 agosto 2001.
(5) Il 48% dei russi vede nel putsch conservatore fallito e nel colpo di stato riuscito di Boris Eltsin solo «episodi della lotta per il potere», mentre il 31% ritiene che si è trattato di «eventi tragici», e solo il 10% li considera «una vittoria della democrazia». Il decennale di questi avvenimenti, nel 2001, non è stato celebrato.
(6) Gli ex magnati Vladimir Goussinski (media) rifugiato in Spagna, Boris Berezovski (automobili, petrolio, media, finanze del Cremlino) « rifugiato politico» in Gran Bretagna, e Mikhaïl Khodorkovski (petrolio Yukos), ora in carcere.
(7) Il Commissariato del popolo agli affari interni (Nkvd) era la polizia politica sotto Stalin. E' stato sostituito nel 1954 dal Comitato per la sicurezza dello stato (Kgb) e quindi, dopo la fine dell'Urss, dal servizio federale di sicurezza (Fsb.
(8) Questa denominazione comprende gli uomini delle forze armate, delle polizie e dell'intelligence.
(9) Il partito liberale Unione delle forze di destra e la Fondazione Soros hanno promosso un'edizione del Libro nero del comunismo, del francese Stéphane Courtois, pubblicato in Italia da Mondadori.
(10) Si legga Urss, une société en mouvement, L'aube, La-Tour-d'Aigues, 1988.
(11) Izvestia, 26 marzo 2002. L'articolo parla della riabilitazione in Ucraina della divisione delle SS Galitchina.
(12) Ten'Pobedy, Mosca, 2002.
(13) Nezavissimaia Gazeta, Mosca 9 novembre 1995.
(14) Si legga Karine Clément, Les Ouvriers russes dans la tourmente du marché, Syllepse, Parigi, 2000.
(15) Si legga Pierre Lepape, «Le goulag selon Chalamov», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2003.
(16) Les Années vingt, ed. Verdier (Paris), che pubblica anche l'integrale dei Récits de la Kolyma (2003).
(17) Lioudmilla, une russe dans le siècle, La Dispute, Parigi, 1998
(18) Golosa Krest'ian, Selskaïa Rossiia XX veka v krest'ianskikh memuarakh, Aspekt Press, Mosca, 1996.
(19) Si legga Pierre Broué Communistes contre Staline. Massacre d'une génération, Fayard, Pargi, 2003.
(20) Literatournaïa Gazeta, Mosca, 6-12 marzo 2002.
(21) Intervista a proposito del suo libro Le Pingouin (Liana Levi, Parigi, 2000), in «Le matricule des anges», www.lelibraire.com
(22) Ludmila Boulavka, Non Konformizm (ritratto socioculturale della protesta operaia nella Russia contemporanea) Ourss, Mosca, 2004.
(23) Osennii krizis 1998 goda: possiiskoie obchtchestvo do i posle, PNISiNP, Rosspen, Mosca, 1998.
(24) Autrice, nell'aprile 1983, del primo rapporto ufficiale (e riservato) in cui si riconosce la crisi del sistema e la necessità di riforme profonde. Si veda la traduzione francese del testo, di Denis Paillard, in L'Alternative, Parigi, n° 26, marzo-aprile 1984.
(Traduzione di E. H.)

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Eldin Hadzovic: Bentornato, Tito! (Notizie Est, 4.06.2004)

Il “neotitoismo” è un fenomeno sociale - il padre e presidente della ex Jugoslavia (SFRJ) sta diventando un’icona pop art, un simbolo dei cambiamenti e dei bei ricordi. 24 anni dopo la morte di Josip Broz (Tito) in Bosnia Erzegovina sono attive 11 associazioni che si battono per proteggere il significato e l’opera di questo personaggio. Il suo viso oggi si vede lì dove una volta si vedeva quello di Che Guevara, mentre il suo nome viene usato sia come bestemmia, sia come giuramento.
Che cosa è in realtà Tito 2004? Un playboy, un mascalzone, un massone, un farabutto, un falsificatore, oppure un personaggio divino che perfino oggi ha i suoi fanatici seguaci? Una sola cosa rimane fuori dubbio: nell’arco del secolo scorso Tito è stato il personaggio più significante dell’area balcanica. Tuttora, la maggior parte delle persone parla bene di lui, salvo alcuni ambienti nazionalisti (in genere serbi) che disperatamente cercano di dimostrare come la gente dell’ex paese sia stata brutalmente truffata. Grazie a loro negli ultimi anni abbiamo potuto sentire varie “chicche”, vere e inventate, che riguardavano la vita di Josip Broz, sempre intenzionate a distruggere il mito del “più importante figlio dei nostri popoli”, come lo chiamano i suoi fan.

I pionieri di Tuzla
Negli ultimi due anni il nome di Josip Broz sta diventando sempre più attuale. In primo luogo grazie alle attività delle diverse associazioni che operano in tutta la Bosnia Erzegovina, che portano il suo nome e che, secondo le parole dei loro membri, “custodiscono le memorie del compagno Tito e della rivolta antifascista, con lo scopo di contrastare la strumentalizzazione politica della sua persona”. Ci sono 11 associazioni di questo tipo in tutte e due le entità del paese e il numero dei loro membri è in continua crescita. Al momento cercano di mettere maggiormente in collaborazione le loro attività per poter fondare un'unica unione delle associazioni.
Un po’ di tempo fa sui giornali è apparsa la fotografia di una bambina della quale si sosteneva che avesse fatto il giuramento da pioniere e si speculava sull’esistenza dell’Unione dei Pionieri a Tuzla (n.d.r. nell’epoca socialista tutti i bambini che frequentavano il primo anno delle scuole elementari, durante la cerimonia di giuramento venivano proclamati membri dell’Unione dei Pionieri di Tito). Tuttavia, Zlatko Dukic, il presidente dell’Associazione cittadina “Josip Broz Tito” di Tuzla, è deciso nel negare queste voci, aggiungendo che si tratta di “invenzioni” dei giornalisti “che non hanno meglio da fare”.
Il compagno Dukic ha spiegato il motivo di esistenza dell’associazione: ”Se avete un membro della presidenza dello stato che va orgoglioso delle sue origini fasciste, l’unica risposta possibile è l’antifascismo! Non siamo attaccati al culto della persona; sui nostri muri non ci sono fotografie, non siamo fanatici. Semplicemente, antifascisti!”. Nell’associazione di Tuzla ci sono circa 1200 membri, ed è interessante il dato che un terzo dei membri sono nati dopo la morte di Tito. Inoltre, per settembre 2004 si sta organizzando un simposio sul tema “Tito e i giovani”. “Non vogliamo, e non possiamo neanche, far tornare i vecchi tempi, tuttavia possiamo combattere il fascismo!”, è categorico Dukic.

I giovani leoni
Di dove arriva tutta questa passione per Tito che nutrono i giovani, quasi un quarto di secolo dopo la sua morte? Silenziosamente Tito è tornato nella nostra quotidianità. Possiamo vedere magliette con il suo ritratto, e sempre più spesso appare nella forma di qualche cartellone simboleggiando “chi-sa-cosa”. Di questo argomento abbiamo parlato con il giovane ed ambizioso compagno Sasha Magazinovic, membro dell’Associazione “Josip Broz Tito” di Sarajevo. Lui stesso nel lontano 1985 ha fatto il giuramento da pioniere e ne va orgogliosissimo. “Sono dispiaciuto di non averlo conosciuto e di non aver vissuto nel suo periodo”, dice il compagno Sasha e aggiunge: “Quel sistema aveva vari elementi positivi, ma anche vari insuccessi. Però, se guardiamo le cose realmente, senza essere di parte, dobbiamo ammettere che i lati positivi del regime erano molto più numerosi. Si viveva una vita dignitosa. Prendiamo per esempio i soldati della Seconda guerra mondiale. Allora venivano considerati molto di più. Erano protetti dal punto di vista sociale, avevano le abitazioni garantite, lo stato gli garantiva listruzione, erano cittadini di primo ordine. Dei soldati dell’ultima guerra nessuno si prende cura e loro sono molto insoddisfatti della propria situazione.”
Parlando degli errori dei tempi passati Sasha sottolinea l’esistenza di Goli Otok (n.d.r. Il gulag di Goli Otok, un’isola deserta del Quarnero, era un carcere politico nei tempi ti Tito) diventato un simbolo dell’uso della forza nel tentativo di limitare le libertà politiche. Tuttavia, il compagno Sasha sostiene che la esistenza di questo gulag fosse un male inevitabile, e ritiene che la maggior parte dei prigionieri meritava di esservi rinchiusa. “Goli Otok è qualcosa di cui l’ex regime non poteva andare fiero. Perfino mio nonno è stato uno dei prigionieri di Goli Otok. Nel ’43, durante una battaglia, una granata l’aveva ferito gravemente a una gamba. Insieme ai soldati c’erano anche dei medici russi che avevano usato parte dell’osso di una persona morta per ricostruirgli la gamba. Un suo amico l’aveva denunciato di essere un sostenitore dei russi solo perché mio nonno continuava in modo insistente ad ammirare l’abilità dei loro medici, e per questo motivo ha passato tre anni di vita a Goli Otok. Si trattava di un errore del sistema, ma tuttavia Goli Otok non era la sua caratteristica principale.”
Sasha, con amarezza, parla del disinteresse dei giovani di oggi per un serio impegno politico, aggiungendo che una volta i giovani erano disposti a sacrificare la propria vita per un’idea, mentre oggi non vogliono neanche andare a votare: “Nulla ci interessa veramente, viviamo dall'oggi al domani.”

L'ideologia dei ricordi
I docenti della Facoltà di Scienze Politiche di Sarajevo hanno parlato a "Dani" del ruolo di Josip Broz e di questa rinnovata simpatia nei suoi confronti. Il prof. Omer Ibrahimagic ritiene che il processo di dissoluzione della Jugoslavia abbia messo in questione anche il personaggio di Tito: “Ventiquattro anni dopo la sua morte nessuno ha ancora verificato dal punto di vista scientifico il periodo del suo governo. Tutto si basa ancora sulle emozioni di personalità che hanno partecipato alla resistenza antifascista e anche di personalità che successivamente sono state influenzate dalla propaganda. Esiste anche un evidente bisogno di alcuni gruppi di imporsi tramite l’uso del personaggio di Tito. Il lato positivo era rappresentato dal fatto che ai suoi tempi non era necessario possedere una fortuna per potersi istruire, era più facile trovare un'occupazione ed era possibile vivere del proprio lavoro. Quel sistema era sostenuto dal fatto che la Jugoslavia, dopo aver rifiutato di far parte del Cominform (N.d.R. Servizio d’informazioni dei paesi dell’Europa comunista), si è avvicinata al blocco occidentale a esso contrapposto. Dopo che la contrapposizione dei due blocchi è giunta alla fine, la Jugoslavia non serviva più a nessuno.”
Il prof. Semso Tucakovic, autore di diverse pubblicazioni che trattano questo argomento, ritiene che Tito abbia avuto un ruolo importante nella creazione della Bosnia Erzegovina. Secondo la sua opinione, la gente ricorda con piacere i bei tempi, perché il sistema attuale non offre i vantaggi che nel vecchio sistema erano così scontati, nonostante la dittatura di un unico partito. “Non ero membro del Partito comunista, tuttavia ho scritto molte cose positive sul conto di Tito. Non penso che Tito debba essere cancellato. Ora si cerca di non ricordare il vecchio sistema per evitare, a tutti i costi, qualsiasi confronto tra il sistema attuale e uno che forse era migliore.”
Il docente di filosofia prof. Bozidar Gajo Sekulic offre un riassunto analitico del fenomeno del “neotitoismo”: “La scrittrice americana Svetlana Boym nel 2001 ha pubblicato un libro intitolato 'Il futuro della nostalgia'. L’autrice ha accuratamente analizzato il fenomeno della nostalgia nei paesi post-socialisti, concludendo che in questi territori la nostalgia avrà un futuro importante. La nostalgia non è un sentimento e rappresenta invece un fenomeno complesso che ha una propria politica, etica ed estetica. Si tratta di uno strano bisogno di passato. Il simbolo chiamato “Tito” oggi non manca soltanto agli anziani, ma, stranamente, anche alle generazioni più giovani. Perché? Perché l’attuale modo di vivere in Bosnia, e anche nei paesi vicini, non ci ha portato nulla di nuovo. Il nostro cittadino deve affrontare la povertà, la disoccupazione e, se lavora, un salario bassissimo. Dalla vita quotidiana sono scomparse varie forme e stili di vita che una volta significavano tanto; tutti i giorni i media ci informano che ancora non abbiamo uno stato e che le truppe straniere rimarranno ancora a lungo per difenderci da noi stessi… Nella vita che si conduce e che è piena di carenze molti arrivano a pensare: 'Ai tempi di Tito si stava meglio'. Io ritengo che la nostalgia di Tito abbia anche un lato positivo; in fondo parliamo di persone che desiderano fortemente introdurre un grande cambiamento nella vita falsificata che attualmente conduciamo. Quindi, la nostalgia di Tito non riguarda un giudizio soggettivo oppure oggettivo della sua opera e della sua persona, semplicemente si tratta di un nostro grande problema con noi stessi.”
Sulla persona di Tito si fanno giuramenti o, in alternativa, il suo nome viene usato come bestemmia universale. Ora si può giurare e bestemmiare senza conseguenze. Viviamo in un paese libero. E tutto assomiglia a quella barzelletta nella quale gli alunni dovevano scrivere qualcosa sul tema: “I 45 anni bui sotto Tito”. Un ragazzino fantasioso scrisse, senza mezzi termini: “Affanculo quelli che ci hanno acceso la luce!”. Ma noi sappiamo chi non l’ha fatto. Parola di pioniere!

(Traduzione e redazione di Jasenka Kratovic)

nota:
Pare tuttavia che il “titoismo”non sia un fenomeno esclusivamente bosniaco. Il settimanale croato “Feral Tribune” del 27 maggio 2004 nell’articolo “Josip Brand Tito” parla della manifestazione “I giorni del Compagno Tito”, che alla fine di maggio si é svolta nella cittadina adriatica di Fazana, in Istria. La giornalista Tatjana Gromaca parla del mese di maggio, che nei tempi passati era il mese di Tito: ”A maggio il grande leader e icona dei popoli uniti sotto lo slogan 'Curiamo la fratellanza e l’unità come se fossero la pupilla dei nostri occhi!', festeggiava il suo compleanno, e insieme a lui festeggiava tutto l’ex paese.
Anche se durante l’ultimo decennio in Croazia si è cercato minuziosamente di far scomparire tutti gli elementi che potevano ricordare il vecchio sistema e sono stati nutriti a forza i sentimenti “anti-titoisti”, a Fazana, ormai da due anni, viene organizzata una manifestazione in suo onore, che ottiene perfino un discreto successo. Il signor Enzo, uno degli organizzatori della manifestazione di Fazana, preparando una zuppa dei fagioli in un’enorme pentola, spiega il motivo dei festeggiamenti: “Pensiamo che Tito sia un buon prodotto. Il senso della manifestazione in fondo è turistico. Ci sono persone che lo amano, ci sono quelle che non lo amano, però è interessante per tutti quanti!”.
Un altro organizzatore della manifestazione, il signor Vladimir, possiede una ricchissima collezione “titoista” creata quasi per caso: “Sentite, io sono un testimone del tempo in cui Tito ha vissuto. All’inizio degli anni novanta, quando tutti hanno cominciato a buttare via gli oggetti che rappresentavano il vecchio sistema io li raccoglievo; libri, medaglie, foto, quadri…”. L’Associazione “Josip Broz Tito” esiste dal 1997, ha circa 250 membri e opera con lo scopo di preservare le memorie dell’opera del Maresciallo e di rinominare, possibilmente, la Riva di Fazana in Titova Riva (la Riva di Tito). Uno dei rappresentanti dell’associazione, pronunciando il discorso conclusivo della manifestazione, ha esclamato: “Tito era un leader, un leader del popolo, e il popolo amava Tito! Molti vogliono dire il contrario, vogliono presentarcelo sotto una luce diversa. Ma io, da persona responsabile, in questo momento dico che la gente amava Tito! E nessuno ha il diritto di macchiare il suo nome!”. “E’ giusto! E’ giusto!”, esulta il pubblico di Fazana, e la festa continua…

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Angela Mayr: Nella Casa dei bambini numero 6. Da Vienna a Mosca. E ritorno? (il manifesto, 26.06.2004)

Pauli aveva dodici anni, Lucie soltanto sei, Karl dieci... In tutto erano 170 i bambini e ragazzi che tra febbraio e settembre del 1934 furono fatti fuggire in treno da Vienna a Mosca, accompagnati dal Soccorso rosso internazionale. Vestiti per bene per non dar nell'occhio, muniti di identità false, giunsero nella capitale dell'Urss: nello stato degli operai e dei contadini. All'arrivo fu di nuovo paura, vedendo tanti uomini in divisa: ma stavolta era infondata. Li aspettava un'accoglienza trionfale: «La piazza era piena di bandiere, fiori e striscioni. Ogni fabbrica, ogni ufficio aveva mandato una delegazione per riceverci, una folla immensa», ricorda Karli, «più tardi abbiamo saputo che erano stati mandati: noi pensavamo che fossero venuti di loro iniziativa». Rappresentanti del soviet di Mosca, del Partito comunista, del Komsomol e del Komintern tennero i discorsi di saluto. «Siamo stati accolti da eroi - però gli eroi erano stati i nostri genitori»: Frida si rendeva già conto dell'essere seconda generazione, non protagonista diretta degli eventi che avrebbero determinato tutta la vita di ciascuno di loro.

«Combattenti del febbraio»
I loro padri infatti erano stati Februarkämpfer , «combattenti del febbraio» appartenenti al Republikanischer Schutzbund, la milizia armata che il Partito socialdemocratico operaio (Sdap, oggi evolutosi nel Partito socialdemocratico austriaco, Spö) aveva costituito nel '22 in reazione alla crescente violenza delle milizie della Heimwehr (difesa della patria) legata ai cristiano-sociali, prevedendo il ricorso alla lotta armata quando fosse stata in pericolo la democrazia. Ma essa era già a terra, dopo la chiusura del parlamento e della corte costituzionale ordinata dal cancelliere Dollfuss e tra continue irruzioni armate nelle sedi socialiste, quando il 12 febbraio 1934 il Schutzbund decise l'insurrezione. Da soli, senza più aspettare indicazioni del partito, gli operai del Schutzbund furono «i primi in Europa a combattere con le armi il fascismo», come ricorda la lapide nel Karl-Marx-Hof, l'imponente complesso residenziale comunale simbolo della «Vienna rossa».
La resistenza, spontanea e disperata, finì schiacciata nel sangue. Il suo ultimo bastione, il Karl-Marx-Hof, cadde il 15 febbraio sotto le cannonate dell'esercito. La richiesta di Mussolini a Dollfuss, dell'agosto `33, di dare «un carattere marcatamente didattoriale al governo» era esaudita; e l'avvento dell'austrofascismo chiudeva l'esperimento di utopia concreta della Vienna rossa.
I figli dei combattenti di febbraio uccisi o arrestati furono accolti a Mosca, dove fu allestita una residenza apposta per loro in un bell'edificio, la «casa per bambini n. 6», nel vicolo Kalashnij. La loro vicenda - «ora si ricordano di noi, quando la maggior parte di noi è morta o ha più di 80 anni», dicono - è stata riscoperta quest'anno dal Wiener Festwochen, il festival organizzato ogni anno dal comune di Vienna e da poco conclusosi.
A 70 anni dai fatti di febbraio, il festival diretto da Luc Bondy ha dedicato un ciclo del proprio programma al «Febbraio 1934 - Dizionario del silenzio. Schizzi teatrali sulla guerra civile in Austria». «E' il capitolo di storia austriaca più taciuto e controverso, privo finora di qualunque rappresentazione pubblica», spiega la direttrice dei programmi teatrali del festival, Marie Zimmermann. La memoria è rimasta ambigua: Engelbert Dollfuss, massacratore degli operai e pochi mesi dopo (luglio `34) vittima dei nazisti hitleriani, è a tutt'oggi considerato un martire dal partito popolare (övp) successore dei cristiano-sociali, che tengono il suo ritratto nei locali del gruppo parlamentare. «Non hanno voluto farcela fotografare, l'abbiamo fatta riprendere di nascosto», raccontano gli organizzatori del festival. Sul retro del parlamento, invece, una lapide fatta realizzare dall'ex cancelliere socialdemocratico Franz Vranitzky ricorda Koloman Walisch, il capo dello Schutzbund giustiziato nel '34.
Il modello di democrazia consensuale senza conflitti della seconda repubblica aveva il suo fondamento, apparentemente sicuro, nell'elusione di un vero confronto pubblico sul conflitto del `34, mai più elaborato. «Questa imposizione sociale del silenzio è stata piena di conseguenze, e non solo per i combattenti, le vittime e i loro congiunti, il cui vissuto non si trova rappresentato nelle immagini storiche della società postbellica», sottolinea Zimmermann, che ha compiuto una «ricognizione degli effetti di quell'ostinato silenzio», restituendone le voci.
Merle Karusoo, teatrante e sociologa estone che si è conquistata una certa notorietà in Europa con il suo teatro biografico e documentario, ha ricercato le tracce degli ex abitanti della «Casa per bambini numero 6» di Mosca, incontrando i pochi sopravvissuti, studiando lettere, documenti e diari dei vivi e dei morti. Ne è nato un collage teatrale sconvolgente, che ha ricostruito una storia collettiva rimasta sconosciuta ai suoi stessi ex-protagonisti.
In una prima fase i 170 ragazzi vivevano in condizioni relativamente privilegiate, migliori di quelle della maggior parte dei loro coetanei sovietici, perché «figli degli eroi di febbraio».

La Casa dei bambini chiude
Ma in coincidenza col patto di non aggressione Hitler-Stalin la Casa dei bambini venne chiusa. Improvvisamente sui tram la gente prese ad alzarsi e far sedere i ragazzi, in segno di riverenza, quando li sentiva parlare in tedesco. Con lo scoppio della guerra le vie dei figli dello Schutzbund si separarono radicalmente. Alcuni divennero vittime dello stalinismo, altri combatterono nell'Armata rossa, tornando a Vienna come soldati delle potenze occupanti. Qualcuno di loro vive ancora oggi in Russia. Il giorno della «prima», gli ex-abitanti della Casa per bambini presenti sono saliti sul palco a fine spettacolo per abbracciare gli attori, scambiati per i loro veri ex-compagni.
Tra il pubblico, Lucie e Karl Münichreiter. Loro padre Karl fu il primo dei 21 condannati a morte dalla corte marziale ad essere giustiziato, il 14 febbraio 1934. Non era un capo importante, ma si trattava di dar subito l'esempio. «Muoio perché a qualcuno deve toccare», scrisse nella lettera d'addio ai figli. Ferito gravemente nei combattimenti, non fu in grado di camminare: lo portarono all'impiccagione in barella. Lucie, che allora aveva sei anni, lo vide nella cella della morte poche ore prima dell'esecuzione. «Vai via, non sei mio padre», gli fece, non riconoscendolo così pieno di sangue e con i capelli diventati bianchi di colpo.
Münichreiter faceva il calzolaio, ma malgrado il suo mestiere i figli d'estate giravano senza scarpe, perché costava meno: essendo socialista, aveva perso molto del lavoro che aveva. Era stato gravemente ferito già nella prima guerra mondiale. Dall'esperienza sul fronte tornò pacifista convinto. Tutto cambiò però il 15 luglio 1927, quando un tribunale mandò assolti gli «assassini di Schattendorf», tre killer fascisti responsabili di vari delitti politici, e migliaia di operai indignati si riversarono spontaneamente nelle strade di Vienna. Bruciò il palazzo di giustizia e la polizia sparò sulla folla, uccidendo 89 lavoratori e ferendone 1600. Di fronte a un massacro del genere e alla radicalizzazione dello scontro politico e di classe, Münichreiter non riuscì a restar da parte e aderì allo Schutzbund.
E venne quel 12 febbraio 1934. «All'improvviso a scuola ci dissero: potete andare a casa» - ricorda il figlio Karl. «Eravamo a pranzo quando piombò in casa uno dello Schutzbund gridando a mio padre: `Karl, ascolta, è sciopero generale, la corrente è stata tolta'. Mio padre premeva l'interruttore, in effetti non c'era la luce. Si precipitò fuori casa». Dalle soffitte, cantine, giardini e sezioni si tiravano fuori le armi nascoste. A Münichreiter fu assegnato il comando di Ober St. Veit (un quartiere di Vienna) dal capodistretto, partito alle ricerca dei leader del partito per avere istruzioni. Non arriveranno mai. «I medici consigliano di aspettare» era l'indicazione in codice con cui il leader socialdemocratico Otto Bauer chiedeva allo Schutzbund di restar fermo.

«Lo zio Otto è malato»
L'assenza di direzione politica e la totale disorganizzazione sono stati tematizzati da « Zio Otto è malato », del russo Evgenij Grishkovets, specializzato nella rappresentazione teatrale di fallimenti storici. Lo sciopero generale era solo parziale; e fallì anche perché l'immediato blocco completo dell'elettricità e dei trasporti rese ancora più difficili le comunicazioni. «Mio padre fu mandato allo sbaraglio», commenta amaro e stanco Karl Münichreiter figlio, un signore ottantenne che incontriamo nella sua modesta casa di Vienna. Ma il suo ricordo dell'infanzia nella Casa dei bambini a Mosca è invece felice. Nel `41, Karl e Lucie trascorsero le vacanze in un campo di pionieri a Novojebnja, in Bielorussia, dove passava la linea di confine tra Urss e Terzo Reich. Due giorni dopo il loro arrivo iniziò l'attacco nazista, il campo di pionieri si dissolse e Karl e Lucie finirono in mezzo ai due fronti. Dopo una lunga odissea riuscirono a tornare in Austria nel `43.
Pauli Münichreiter, il più grande dei fratelli, voleva arruolarsi nell'armata rossa... Non ci riuscì, malgrado tutti gli sforzi e gli interventi tentati anche da sua madre presso il Partito comunista austriaco (Kpö) perché premesse su Mosca. Karl Münichreiter tira fuori un pezzo di carta stropicciato: è la lettera che il Kpö spedì allora alle istanze sovietiche. Descriveva Paul e la madre come persone indisciplinate, scostanti e poco affidabili. Paul Münichreiter morirà ventenne, durante un controllo per strada, trapassato da una pallottola sparatagli da un agente russo, entrata dalla guancia e uscita dalla nuca. Era senza documenti e con in tasca una lettera in lingua straniera. Con tutto ciò suo fratello Karl è ancora iscritto al Partito comunista austriaco, quello con la più lunga osservanza filosovietica. «E' qui che ormai ho tutti gli amici», dice. Quando si incontra con gli ex abitanti della Casa per bambini n. 6, parlano solo in russo.

scheda: Vienna. Le case comunali e il Karl-Marx-hof
Inaugurato nel 1930, il Karl-Marx-hof coronò l'attività edilizia della Vienna Rossa (l'amministrazione socialista della capitale austriaca) che tra il 1922 e il 1934 costruì 61.175 case comunali. Furono finanziate tassando pesantemente i proprietari di case e i beni di lusso: «bolscevismo fiscale», lo chiamava la borghesia, odiando più di tutti l'assessore alle finanze Hugo Breitner. Di architettura eterogenea, nei più diversi quartieri della città, le case comunali dovevano avere un 50% di cortili con area verde per garantire luce, aria e spazio di movimento; ed essere collegati con i mezzi di trasporto. Erano provvisti di strutture collettive sociali: asili nido, lavanderie, cliniche odontoiatriche ed erano centri di vita culturale con sale di lettura, biblioteche, ecc. L'affitto nel 1926 era il 4% del salario medio operaio. Oggi il Karl-Marx-hof è abitato da 4500 persone, ci sono lavanderie collettive, un asilo nido e una sala per feste. Il 25% dei viennesi vive ancor oggi nelle case comunali, arrivate nel frattempo a 220mila. L'impegno del comune è di costruire 5000 alloggi comunali o di edilizia sociale ogni anno, destinate anche ai ceti medi. L'affitto massimo nella categoria più alta, comprensivo di condominio, è di 4 euro al metro quadro; il più basso di 1,30.

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La Russia dei giovani cresciuti senza comunismo (Giornale di Brescia, 5.05.2003)

ROMA - Irina Denezkina ha 20 anni e racconta la vita in Russia di chi è cresciuto dopo la caduta del regime sovietico. Il suo volume di racconti «Dammi!» (Einaudi, pp. 210, euro 12,80), è stato letto come un ritratto di una generazione. È una generazione che sembra tema di perdere qualcosa della vita, vuole provare tutto, ma esprime alla fine un nichilismo senza vera speranza e domani, anche se con una nota di tenerezza: «Il futuro è di ghiacci o», come dice lei stessa. Del resto scrive che «la felicità è di ghiaccio» e vi unisce durezze (droga, botte ....) ma anche appunto tenerezze e risponde, a precisa domanda, proprio che «anche il futuro è eguale, fatto di durezze ma, assieme, capace di sciogliersi». Poi, se le si chiede cosa significhi per lei crescere, afferma: «Mettere su 20 chili di più, avere molti bambini e responsabilità. Comunque, io sono responsabile giusto per me stessa e ciò mi piace moltissimo». In Russia i suoi racconti sono stati salutati, da una parte, come la speranza di un domani per la nuova narrativa e, dall’altra, criticati per eccesso di sesso e facilità di scrittura. Comunque è un caso, che sino a pochi mesi fa comunicava e scriveva le sue storie solo su Internet. Il titolo del libro, «Dammi!», per certi versi fa pensare voglia dire «Vogliamo tutto!», ma la Denezkina spiega che si tratta solo del «verso di una canzone che fa: ’Dammi un piccolo pezzetto di sole, di felicità, per intendere un senso di tenerezza». E la musica pervade tutti suoi scritti. Che importanza ha per lei? «Molta. Molti dei miei amici fanno musica, suonano in una band, e il mio ragazzo ama fare rap e suona anche la chitarra, cosa che amo molto. C’è così tanta musica nella mia vita: mi sveglio con le mie canzoni preferite, e queste mi seguono per tutto il giorno. E nei miei racconti si trovano tanti versi e citazioni di queste canzoni». C’è molto sesso nei suoi racconti: si consuma sempre perchè è diventato molto importante o perchè invece non ha più alcun valore? «In genere la gente parla tanto di quel che non può fare. Io invece amo molto il sesso e ci sono ragazzi che amano farlo con me. Insomma lo faccio per ora e comincerò a rifletterci sopra più avanti. Se vuole una risposta, rifatemi, per favore, la domanda tra 25 anni». Molti in Russia, davanti alla crisi economica attuale, si dichiarano nostalgici del comunismo e pare dicano «si stava meglio quando si stava peggio». I giovani che ne pensano? «Non può essere un mio sentimento: sono troppo giovane per sentire nostalgia dell’epoca sovietica, che a malapena posso ricordare. Ed è proprio questo che amo della mia generazione, che siamo liberi da questi colpi di nostalgia, assolutamente liberi, e felici di quel che abbiamo». (p. petr.)

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Enrico Pugliese: Tina, Aurora e il comunismo (il manifesto, 21.06.2005)

NOVECENTO
ENRICO PUGLIESE
Una trentina di anni addietro Giuseppe Saragat, in una polemica con i suoi malfidi eredi all'interno del Psdi, usò nei loro confronti l'espressione: «Uomini che non hanno mai conosciuto il dolore». Quell'espressione - che evidentemente si riferiva al dolore della persecuzione fascista, della guerra e dell'esilio - a suo tempo mi colpì moltissimo e mi è tornata in mente di recente leggendo le storie di Clementina (Tina) Perone e Aurora Benna, madre e figlia, che di dolore ne hanno conosciuto tanto. E per Tina, il dolore più forte e più lungo - e anche il più taciuto - non è stato quello inflitto dalla repressione fascista ma quello conosciuto durante la detenzione nei Gulag staliniani e - dopo la liberazione e la riabilitazione - nel lungo periodo di angosciante dipendenza dalla macchina burocratica sovietica che per anni le impedì il ritorno in Italia. Eppure Tina - comunista della prima ora e con un passato bordighista che probabilmente fu all'origine della sua persecuzione negli anni dell'esilio in Urss - resta comunista fino alla morte, avvenuta nel 1965 dopo soli sette anni dal ritorno in Italia e a Torino, dove lavorerà per l'Associazione Italia-Urss.

35 anni di distacco

Tra i dolori che questa donna ha conosciuto c'è il distacco forzato dalla figlia: un distacco durato dal 1923 al 1958 e che Aurora, lasciata bambina di sei anni e ritrovata donna adulta e matura, non perdonerà mai nel profondo alla madre. Già ottantenne, qualche anno addietro (proprio mentre era intenta a salvare i ricordi, le lettere e i pensieri di Tina), dice ai due intervistatori che chi si dedica completamente a una causa politica non dovrebbe avere famiglia. Questo dolore familiare, della bambina restata senza mamma, è vivo nella anziana attivista che pure di politica ne ha fatta tanta con grande rischio e costi personali. Negli stessi anni in cui la mamma è oggetto delle prime attenzioni della polizia staliniana - nella seconda metà degli anni Trenta - Aurora, poco più che ventenne, è condannata dalla sezione IV del tribunale speciale e passa anni di dura galera e di isolamento senza altra accusa che quella (vera) di aver tentanto di utilizzare un passaporto falso per emigrare in Francia (emigrazione che allora non costituiva reato). Ma la ferita dell'abbandono è viva anche nella madre che scrive per anni continuamente alla figlia bambina, adolescente, e adulta raccontandole, nei limiti permessi dal controllo poliziesco, ogni cosa della sua vita quotidiana, seguendone la maturazione, interrogandola, consigliandola, indirizzandole pensieri affettuosi.

Le lettere di Tina in entrata e quelle di Aurora in uscita portano il timbro Visto per censura. E «Visto per censura» è il titolo del bel libro curato da Paola Tarino e Adriano Boano ed edito dalla casa editrice Seb27, basato principalmente su lunghe interviste ad Aurora Benna, materiale documentario vario e soprattutto, sulle lettere che madre e figlia si sono scambiate per circa trent'anni. Insieme ad altri ricordi e documenti (la sentenza di condanna del tribunale fascista, copie di verbali e relazioni della polizia, ecc.) esse costituiscono l'archivio personale di Aurora, contenuto in una grande scatola di flaconi di candeggina Ace («affinché tutto sia pulito fino a diventare trasparente», dice divertita l'anziana signora). Ma torniamo alle storie, a cominciare da quella della madre. Tina nasce nel 1894 da una famiglia di militanti rivoluzionari (suo nonno è anarchico). Comincia da subito a lavorare per le associazioni operaie. Conosce il marito Angelo Benna, il padre di Aurora, in un ballo al circolo socialista. Con orgoglio Aurora dice della madre che era «comunista da prima che il partito esistesse». E, a proposito del coraggio, riporta un ricordo di Giovanni (Nino) Parodi che le raccontava di Tina quando, in un momento duro e delicato dello scontro politico, nascondeva una pistola nello chignon in cui raccoglieva i capelli.

Ma il coraggio non è la principale caratteristica (anche se la ha aiutata molto): Tina è una dirigente politica che da giovanissima lavora a fianco di Parodi (responsabile comunista della Fiat Centro), il quale diventerà il personaggio più di spicco dell'occupazione delle fabbriche a Torino nel 1920. Una foto lo ritrae seduto sulla poltrona di Giovanni Agnelli e attorniato da altri operai. Il rapporto politico tra i due diventa anche sentimentale e la loro convivenza ha inizio quando Tina si separa dal marito, Aurora ha ancora pochi mesi. Parodi fa da padre alla bambina nel breve e felice periodo di vita comune nella casa frequentata anche da Gramsci. Nonostante la tenerissima età, i ricordi di quel periodo da parte di Aurora sono vividi e lei mostra sempre affetto e nostalgia per quel padre adottivo: l'unica figura paterna che abbia mai avuto. Poi le vicende della vita (e della storia) separeranno i tre in maniera abbastanza tragica, soprattutto per le due donne. Nino Parodi fuggito in Unione sovietica dove svolge lavoro politico e segue corsi di formazione politica e militare - riceverà in seguito dal partito l'ordine di tornare per ricostituire il centro interno. Questo gli costerà l'arresto all'arrivo in Italia ma gli permetterà di scampare alle persecuzioni staliniane per i suoi trascorsi bordighisti. Alla fine, dopo la galera, Parodi continuerà la sua attività politica in Francia e in Italia e avrà un altra famiglia.

Il biennio rosso

Dopo la sconfitta seguita alla occupazione delle fabbriche, Tina è perseguitata insieme a Parodi e, come lui, dopo l'incendio della Camera del lavoro di Torino (vicino alla quale avevano abitato come famiglia), è costretta a espatriare in Francia per poi arrivare - dopo una sosta di dodici giorni a Berlino, in attesa del visto di ingresso in Unione sovietica - nella patria del socialismo, «dove splende il sol dell'avvenire» ma dove la attende un triste futuro. Dopo il primo periodo vissuto insieme a Parodi, comincia la vita marginale e pericolosa dei frequentatori del circolo degli emigranti, dove sospetti e delazioni sono all'ordine del giorno. E molti sono i compagni e i dirigenti comunisti emigrati in Russia che finiranno uccisi o deportati, le cui vicende si intrecciano con quelle di Tina e dei quali si parla nel libro.

Dopo un primo arresto (e tortura) e una breve detenzione (dal febbraio al maggio del 1938), Tina Perone è nuovamente arrestata nel 1940, condannata e deportata a Karaganda (in Kazakhstan) con l'accusa di aver aiutato comunisti italiani sospetti. Al lager segue un periodo di confino per poi subire una nuova deportazione (a vita) nel Gulag di Igarka in Siberia (con l'accusa di propaganda antisovietica e sospetto spionaggio) dal quale sarà scarcerata nel 1954.

Il carteggio - ricchissimo anche se la madre scriveva sempre molto più della figlia - si interrompe improvvisamente nel 1940. E quando nel 1948 Tina è temporaneamente liberata, non può neanche dire alla figlia i veri motivi del suo silenzio. Nelle sue lettere successive al 1948 parlerà di una «malattia». Poi c'è il nuovo arresto e la parte finale del carteggio, costituito soprattutto dalle lettere che la madre scrive dopo la liberazione definitiva. E qui l'aspetto che domina è l'attesa per il ricongiungimento, la speranza che qualcosa muova la persecutoria macchina burocratica sovietica (stalinista e post-stalinista), anche se il linguaggio è molto misurato.

Alla fine della permanenza in Russia, trentasei anni dopo la partenza, la vecchia militante comunista è ancora indomita: mantiene la cittadinanza sovietica (anzi bolscevica, lei dice). Non ha vissuto i momenti peggiori della storia italiana del Novecento ma neanche quelli esaltanti della fine del fascismo, della resistenza, del passaggio alla repubblica, della riconquistata democrazia.

Mentre il tempo di Tina si consumava nel grigiore del campo di detenzione e del Gulag, l'avventura drammatica, e a volte rocambolesca, di Aurora proseguiva. Già bambina, quando ancora la madre è libera e non perseguitata in Russia, è sballottata da un parente all'altro per poi finire in istituti pubblici o religiosi. Qui, contro ogni sua volontà, viene battezzata e, come forma ultima di oppressione, le cambiano anche il nome in Annamaria. Finisce anche in un istituto di suore di clausura dal quale evade grazie all'intervento di uno zio che la «rapisce» per un giorno in modo da causarne, in applicazione della regola dell'ordine, l'espulsione. Poi c'è il tentativo di espatrio in Francia con il passaporto falso e la vicenda dell'arresto e del processo. E qui la storia è paradossale perché Aurora, in quegli anni, non era stata una militante comunista: aveva solo avuto, in qualità di figlia di dirigenti comunisti, tramite il partito, un passaporto falso per l'espatrio. Avrebbe dovuto arrivare in Francia ma pedinata da agenti in borghese è fermata prima dell'arrivo alla stazione di Nizza. La storia si complica ulteriormente - e in maniera non chiarita nel libro, proprio perché ambigua in sé - per il ruolo della zia Emilia (sorella di Tina) che fu delatrice pagata dalla questura (e che probabilmente causò il fallimento del tentativo di espatrio) ma che fu anche inviata al confino insieme al suo amante e che Aurora, nonostante la definisca spesso la «zia strega», continuò a frequentare.

D'altra parte, in quegli anni era difficile, per chi avesse a che fare con il partito comunista, capire di chi ci si poteva fidare. C'è un capitolo del libro intitolato «Non credere fintanto che non hai la conferma dai veri compagni». Si tratta di una frase strana contenuta in una lettera di Dante Corneli ad Aurora volta a smentire ipotetiche notizie riguardanti la eventuale morte della madre. Era difficile in quel clima individuare i «veri compagni». Comunque, scontata la galera («l'università» per lei, dove impara le lingue, così come la mamma le aveva imparate quindici anni prima a Mosca), Aurora passa un periodo in un tubercolosario e poi finalmente trova lavoro come impiegata. Come se ciò non bastasse, la sua casa è anche lesionata dai bombardamenti. Ma poi riprende a lavorare e collabora con la lotta partigiana. Sposa nel 1946 un operaio tedesco, Herbert, e negli anni Cinquanta diventa delegata sindacale della Cgil.

Finalmente il passaporto

Tina ottiene finalmente nel dicembre 1957 il passaporto che le permette il rientro in Italia il 7 gennaio del 1958, 36 anni dopo la partenza. Sul risvolto del cappotto porta con orgoglio il distintivo con la faccia di Lenin. Quelli che, come me, «non hanno conosciuto» il dolore hanno difficoltà a comprendere una storia del genere. Insomma perché, dopo tanta sofferenza non ha cambiato idea? Con la fine della guerra per Aurora, e con la scarcerazione e la riabilitazione dieci anni dopo per Tina, riprende un'esistenza normale dopo anni di incredibili avventure, persecuzioni e, appunto dolori. E qui vale la pena ricordare una citazione di Annie Vivanti, riportata dalla stessa Aurora, relativa al suo nome e riguardante il senso del «secolo breve». In francese aurora (aurore) ha lo stesso suono orrore (horreur): «Horreur, chez nous l'Aurore s'appelle aussi». Chi aveva dato nel 1917 - l'anno delle lotte per il pane a Torino ma anche l'anno della gloriosa rivoluzione di ottobre- alla bambina il nome Aurora, non si sarebbe aspettato nei decenni immediatamente successivi un futuro così pieno di orrori.

Ma nelle dichiarazioni di Aurora e nella sua illustrazione - fatta con ironia, con nostalgia e a volte con rabbia - del contenuto disordinato del suo archivio Ace («perché tutto diventi trasparente») non c'è solo dolore. C'è tenacia, speranza di cambiamento, solidarietà, voglia di giustizia e di eguaglianza: insomma i valori del comunismo.

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