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Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Letteratura
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D. Di Sora: Dalla Russia dimenticata. Il dolce far niente del proletariato, tra ieri e oggi, città e campagna (il manifesto, 4.04.1998)

Caduti i muri, crollate le cortine di ferro, la Russia continua ad essere lontana e le vicende di quel paese poco interessanti. Anzi, sembra svanito ormai anche quel poco di fascino che le derivava dall'essere per alcuni un nemico, per altri un punto di riferimento.

Raramente si sente parlare di quanto avviene in quelle lande sempre più distanti e misteriose, e in genere - quando ciò accade - è sempre a proposito di disastri: guerre ai confini dell'impero, inflazione, rovinosi crolli di borsa. Di tanto in tanto giunge fino a noi un film. E, distillati con il contagocce, accolti con diffidenza dai lettori e dai librai, pochi libri.

Forse però proprio perché è rapidamente tramontata la superficiale curiosità dell'89 (quando si traduceva di tutto e chiunque avesse messo piede in Russia scriveva sull'argomento), i libri che arrivano tradotti fino a noi sono oggi di regola assai belli, quasi a compensare l'attuale distrazione e a premiare gli scarsi cultori rimasti. Libri importanti, come nel caso di Sandro di Cegem, di Fazil' Iskander (Einaudi, pp. 614, L. . 38.000, traduzione di Ljljana Avirovic).

Pubblicato in versione "castigata" per la prima volta su rivista nel 1973, circolava a Mosca sia nell'edizione ufficiale, mutilata delle parti considerate irriverenti, sia in dattiloscritto, sia, negli anni Ottanta, nell'edizione americana (Ardis, Ann Arbor, 1979 e 1981).

Straordinaria vitalità di alcue cose: la Russia prima e l'Unione Sovietica poi hanno continuato a produrre libri apparentemente dotati di vita propria, che il regime di turno vietava, bruciava, censurava, e che risorgevano implacabili. Sandro di Cegem è fra questi. La traduzione che ci viene proposta è stata condotta sulla versione del romanzo terminata e rivista nel 1989, che l'autore considera "al momento definitiva". Iskander avverte nella prefazione di avere voglia di scrivere ancora sugli abitanti della Grande Casa, sul loro destino.

Questo infatti non è un romanzo ma un grande ciclo di racconti in cui i personaggi migrano da un testo all'altro, e dove i due luoghi privilegiati dell'azione, il villaggio montano di Cegem e la Muchus marina, sono realissimi e immaginari.

"La storia di una famiglia, la storia di un villaggio, la storia dell'Abchazija e del resto del mondo così come si vede dalle alture di Cegem: ecco il canovaccio del mio progetto", sottolinea ambiziosamente l'autore.

Allora si aprono i cortili svelando gustose scenette quotidiane, dove uomini e animali hanno spesso pari dignità: zio Sandro disteso sotto il melo mentre la moglie, zia Katja "rimproverava ad alta voce una gallina e la gallina, a sua volta, stando allo starnazzare, rimproverava la padrona".

La storia privata e quella pubblica si scompongono e ricompongono come in un gigantesco caleidoscopio, i piani temporali si intrecciano: la rivoluzione, i bianchi e i rossi, la Nep, gli anni del culto, tutto scivola addosso a questi montanari caparbi, attaccati alle loro tradizioni, alla loro dignità immutabile.

Possono vincere o perdere, nello scontro con il potere, gli abitanti di Cegem, ma la loro supremazia morale non è mai in discussione. Pastori ricchi e poveri, briganti suscettibili, principesse pigre e lussuriose, persino forse gli animali e le piante, soggiacciono tutti alla stessa legge arcaica di nobiltà. Si muore ancora per onore, in questo mondo che oppone le sue leggi immutabili al caos esterno. E con la sfrontata consapevolezza della propria superiorità, la furbizia accorta degli abitanti si scontra con l'ottusità del potere vestito in giubbe di tussor. Con effetti inevitabilmente comici.

Persino gli anni Trenta si abbattono sul villaggio senza mutarne troppo le abitudini. E il racconto della collettivizzazione di Cegem, guidata dal vecchio patrarca della comunità, Chabug, e degli equivoci che ne nascono, è fra le pagine più deliziosamente ironiche e feroci del libro.

Eppure a tratti questo sapiente svagato narrare provoca un'acuta malinconia, data forse dalla consapevolezza di trovarsi in presenza di una doppia morte: non solo questa Arcadia caucasica troppo irrimediabilmente lontana dai tragici scontri tra abchazi e giorgiani cui ci hanno abituato le cronache degli ultimi anni, ma anche il lettore cui queste pagine erano destinate probabilmente scomparso.

Questo mondo chiuso, con i suoi molteplici attori, con la bizzarria della sua flora e della sua fauna, tenuto insieme da saldi valori morali tradizionali come la lealtà, il coraggio, la giustizia, la dignità - chi interessa, oggi? Rimane il piacere delle storie che ruotano attorno a zio Sandro "astuto navigatore tra i marosi e le secche della Storia", il fascino di personaggi che restano nella memoria, il ritratto di un mondo a cavallo fra mito e realtà.

Un universo tutto femminile e cittadino è invece quello che ci viene proposto da Ljudmila Ulickaja in La figlia di Buchara (edizioni e/o, pp. 144, L. 24.000, traduzione di Raffaella Belletti). Brulicare di cortili, vicoli, casupole che man mano scompaiono, incalzate dalla città che avanza.

Stradine polverose dei sobborghi di Mosca, interni minuscoli, vite intrecciate in cui riserbo e discrezione sembrano impossibili. Sembrano soltanto però, perché di segreti è pieno questo straordinario, immenso formicaio. Segreti di donne, vite di donne.

Gli uomini sono solo comparse, accessori, nei racconti della Ulickaja. Hanno consistenza fragile e cartacea di fronte a donne piene e carnose che conducono vite difficili, faticose, ostinate, ma sempre degne di essere vissute. Come Buchara, la delicata bellezza orientale del primo racconto, che vediamo arrivare nel cortile ancora quasi adolescente su una vecchia Opel Kadett insieme al giovane marito Dmitrij. Scende pigramente dalla macchina, "straordinaria bellezza orientale dai capelli lucenti, forti e rigogliosi, il cui peso faceva rovesciare all'indietro la piccola testa".

Quando però alla coppia innamorata e felice nascerà una bimba Down, goffa e dolcissima, Dmitrij non saprà sottrarsi alla "paura oscura e profonda di fronte al moto invisibile delle misteriose particelle che governano la sorte della bambina già nata e di un'altra creatura che avrebbe potuto venire alla luce...". Andrà via, si trasferirà in casa dell'infermiera Tamara, pori dilatati, capelli ispidi e ricci, gambe grosse.

Ogni racconto un ritratto. Disegnato con pochi segni essenziali, un particolare che focalizza l'attenzione: i capelli di Buchara, le narici come parentesi e le sottili sopracciglia arrotondate di Gulja, "vecchia di razza". E inguaribile, languida civetta che non hanno piegato tre arresti, il lager, ripetuti matrimoni, e che continua a vivere come una libellula, in una stanza tutta dipinta di azzurro: "Gulja viveva come sullo sfondo di una scena teatrale, tanto inverosimile e irreale era la tinta delle pareti, e ogni cosa - dai mobili sciupati in betulla di Carelia alla scolorita cornice di bronzo dello specchio offuscato, aderiva armoniosamente a questo colore innaturale".

Un'ultima, inattesa avventura amorosa con un uomo assai più giovane le offrir l'occasione di farsi invidiare dalle amiche e di afferrare ancora una imprevista briciola della grande festa della vita.

Donne che sono o sono state autentiche bellezze, ex-aristocratiche, storpie, mendicanti. Che si raccontano, s'incontrano, bevono tè o vodka e vivono vite faticose e uniche in un tempo antieroico per eccellenza. Nello scontro con questa realtà sta l'unicità di ognuna, il modo personale di opporsi al destino e alla storia, la via d'uscita che agli uomini sembra misteriosamente negata.

Come per Bron'ka, in quello che è forse il più bel racconto della raccolta (già uscito in Rose di Russia, e/o, 1995). Lei approda con la madre in uno dei cortili di Mosca "sospinta da una delle ondate migratorie dell'anteguerra". Viene assegnato loro uno stanzino, e il cortile le accetta.

Ma Bron'ka appartiene a un altro mondo: "la prima cosa che saltava agli occhi era il rigoglio vegetale dei capelli fulvi, che incorniciavano la fronte bassa tra due delicate parentesi, e solo poi, a un esame pi attento, si rivelava tutto il resto della sua bellezza, fatta di piccole irregolarità".

E alla volontà di emergere della madre, dotata di smisurata vanità, Bron'ka si oppne mettendo al mondo uno dopo l'altro quattro figli, nessuno saprà mai fatti con chi. Solo anni dopo, quando ormai il segreto non interessa più nessuno, il cortile è sparito e Bron'ka vive in un lussuoso appartamento, si confesserà a un'altra donna e dirà: "Vivevo come in un sogno. Come in un incubo.

Mi sembrava sempre che ecco, mi sarei svegliata e tutto sarebbe stato bello e giusto. Anche se non avevo idea di che cosa volesse dire giusto. Sapevo solo con certezza che non si poteva vivere come vivevamo noi. Mangiare, dormire, chiacchierare. Avevo sempre l'impressione che a momenti tutto sarebbe finito lasciando il posto a qualcosa di vero". La vita, appunto.

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