NOSTALGHIA
Modificato: Giovedì, 17 febbraio 2005

Viaggi, reportage, pellegrinaggi
in costruzione


Manuel Vázquez Montalbán: La Mosca della rivoluzione (Feltrinelli, Milano 1995)

SCHEDA: Lo sguardo acuto del creatore del grande investigatore privato Pepe Carvalho questa volta punta la sua lente d'ingrandimento su Mosca. Vazquez Montalban percorre ogni angolo di quella che fu la capitale non solo di uno stato, ma anche di un'ideologia, partendo dagli edifici e dalle vie, per tracciare, in una prospettiva insolita in quanto 'guidistica', il grande affresco di settant'anni di storia, dalla presa del Cremlino alla 'perestrojka' . Vediamo stratificarsi una sull'alta diverse città: la vecchia Mosca zarista travolta dalla rivoluzione, i sogni e le utopie architettoniche e urbanistiche delle avanguardie nei primi anni del nuovo regime, la monumentalizzazione del periodo staliniano, il grigiore degli ultimi anni. Vengono rievocati personaggi grandi e piccoli del comunismo sovietico, da Berja a Molotov, da Chruscev a Radek, con una particolare attenzione al disastroso destino degli intellettuali russi negli anni Venti e Trenta. E' come percorrere un labirinto guidati da un abilissimo cicerone che narra, per ogni edificio, per ogni via, per ogni piazza, per ogni stazione della metropolitana, fatti e misfatti della Mecca del comunismo, con distacco e ironia spesso feroce.

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Astrit Dakli: La vongola moscovita (il manifesto, 13.09.1998)

Vista dalla mia finestra, in una bella e tiepida mattina di questa fine estate - babiye leto, estate delle donne, come i russi chiamano questo periodo -Mosca dà di sé un'immagine consolante. Mamme che passeggiano con bambini in carrozzella o per mano, ragazzi che portano a spasso il cane, operai che trafficano a riparare qualcosa in un tombino, uno spazzino - con una tecnologica casacca riflettente arancione, guanti e stivali nuovi - raccoglie accuratamente le foglie cadute dagli alberi. Da un anonimo palazzo di uffici poco più in là, come dall'ambulatorio oftalmico di fronte, entrano ed escono continuamente persone dall'aria indaffarata. Ancora un po' più in là, il cantiere dove nei mesi scorsi si stava costruendo un palazzo per abitazioni è praticamente terminato, si possono vedere gli operai che danno gli ultimi ritocchi esterni mentre qualcuno sembra già abitare gli appartamenti agli ultimi piani. Tendine, lampadari. Vien da pensare: tutto tranquillo, normale. Normale?
E' chiaro che no. I fatti e i numeri non lasciano spazio a dubbi, a interpretazioni ambigue: questo paese è stato rapinato di tutti i suoi risparmi, sottoposto a un terremoto sociale, messo a sacco da bande criminali, oltre metà della sua popolazione - compresa una gran parte dei ceti più istruiti -costretta a vivere sotto la soglia di povertà. Intere cittadine disoccupate, che vivono di patate degli orti. Mortalità in aumento. Generazioni allo sbando. Come si può parlare di normalità? Anche se Mosca, si sa, è come sempre un'altra cosa, e se dalla mia finestra si vede una zona residenziale certo non delle peggiori, non basta a spiegare lo scarto fra realtà dei numeri e apparenza.
Molto, molto più lontano dal centro, dalle parti di corso Leningradsky (si chiama sempre così, anche se Leningrado non c'è più; invece le vie del centro intitolate a poeti e artisti tuttora rispettati sono state tutte rinominate con arcaici nomi ottocenteschi che nessuno usa), nella cucina di una casa molto più modesta di quella che mi ospita, la moglie di un amico russo, con due bambine e parecchi problemi di economia quotidiana stampati sul viso, mi guarda triste durante il rito del tè, chiedendomi - la televisione ha appena trasmesso una serie di notizie sgradevoli, sull'economia a pezzi, su stragi nel Caucaso e nell'Artico, su delitti e miserie varie - perché i giornalisti devono sempre cercare il brutto della vita, quando ci sarebbe sempre anche qualcosa di bello da trovare e da dire, e ciò consolerebbe la gente, che ne ha tanto bisogno per vivere nei periodi difficili come questo. Fuori dalla finestra, il panorama è quasi identico a quello di prima. La finzione della normalità come atto consolatorio? Sforzo di automiglioramento? Purché non si finisca come la celebre frase (seria) di Viktor Cernomyrdin, che tutti usano per sfottere: "abbiamo fatto il massimo, abbiamo ottenuto il solito".

Il ritorno del Gorkij
Ritorno in centro. Sul boulevard Tverskoje, quasi accanto al più fotografato, grande ed emblematico McDonald's del mondo - aprì i battenti in epoca comunista e per anni ogni giorno davanti alle sue porte si formavano file di migliaia di persone, molte venute apposta a Mosca da fuori - c'è l'Istituto di Letteratura "Gorkij", novecento studenti e un manipolo di bravi insegnanti, da sei anni guidati dal rettore Sergei Nikolaevic Esin, che utilizzano una serie di bassi edifici del primo Ottocento sparsi in uno strano e selvaggio giardino. Da una parte le aule piccole e i laboratori lingustici, dall'altra le aule grandi, le biblioteche, un piccolo teatro. Tutto un po' fané, trasandato, scrosticchiato - si vede che mancano i soldi per una vera ristrutturazione o anche solo per una manutenzione come si deve - tranne l'edificio della mensa, che inalbera la singolare insegna "Club Forte" e si presenta come un bellissimo pub inglese, tutto legni, ottoni, lampade, tanto di bancone bar in marmo lucido con birra alla spina e via dicendo. Piena fino all'ultima sedia e animatissima di voci, alle 10 del mattino. "E' gratis per studenti, insegnanti e lavoratori dell'Istituto, nonché per gli ospiti", dice Esin mostrandocela. "La sera, invece, è a pagamento e anche piuttosto cara. Ma così si mantiene e si guadagna anche qualcosa che va a finanziare le attività didattiche". Poi ci sono sponsor, aiuti, affitti di sale per conferenze e mostre, le tasse d'iscrizione degli studenti; "lo stato ci dà solo il 30 per cento dei nostri introiti, il resto ce lo guadagnamo da soli. Pensi che nel '92 l'Istituto era praticamente morto, senza un soldo e senza studenti".
E' questa capacità di adattamento e sopravvivenza - di trovare il buono nelle cose e farsene forti, direbbe la mamma di corso Leningradsky - che costituisce la cosiddetta "anima russa"? E questo vuol dire forse che al di là delle apparenze gli sconvolgimenti degli anni '90 non hanno modificato il modo di essere dei russi? "Le onde sono state e sono ancora forti, terribili", dice Esin. "Ma hanno sconvolto solo gli aspetti materiali della vita. In profondità credo che i russi - o meglio, la Russia - siano rimasti quelli di sempre. La spazzatura arrivata da fuori resta ancora alla periferia dell'anima russa; che è come una vongola, quando manca l'acqua si chiude e continua a vivere dentro se stessa, a lungo. Certo, dei segni di degrado ci sono: in televisione passa roba terribile, le liberie sono piene di porcherie, importate o nostrane, e via così. Però io da qui vedo che aumentano sia i bravi studenti sia i buoni autori; respirano un'aria migliore e più stimolante di quella che respiravano fino a dieci anni fa, anche se devono faticare molto di più. E anche se è vero che ormai da noi ci sono quasi solo studenti moscoviti, venir qui da fuori come era normale una volta è diventato troppo costoso". Primakov migliorerà le cose? "Non c'è dubbio, è una persona davvero in gamba. L'ho conosciuto (ci mostra una foto dove compaiono insieme, ndr) quando tutti e due lavoravamo a radio Mosca, negli anni '60. Anche lui è una dimostrazione che, resisti resisti, alla fine se ne vien fuori".

Sotto sotto...
In metrò, linea rossa "Sokolnicheskaya" (oggi ci sono 11 linee). Da vent'anni non si vede un vagone nuovo, e quelli vecchi sono stati ormai verniciati tante volte da esser diventati più piccoli dentro e più grandi fuori. Ma sono pulitissimi, come tutte le stazioni, sempre impeccabili, mai una lampadina bruciata. Il gettone per entrare è aumentato dal primo settembre del 50 per cento, da due a tre rubli, ma mi accorgo di esser tra i pochissimi a comprarlo e usarlo. Su una decina di varchi, solo uno funziona a gettone, gli altri con le tessere magnetiche o gli abbonamenti (a prezzo invariato). E la gente, a parte qualche cambiamento nel tipo fisico (meno visi caucasici e asiatici rispetto a una volta), è pur sempre la stessa - fiume compatto che scorre sotto la città, indaffarato, serio, con le sue borse e i suoi pacchi, rarissimi i tipi poco raccomandabili (che navigano in superficie, in auto), infinite le nonne, gli impiegati, i fidanzati, i soldati, i bambini, gli operai e tutte le categorie sociali immaginabili. Ancora una volta tutto come al solito, tutto normale?

Timidi segnali
Di nuovo al sole, in uno dei quartieri più nobili di Mosca, tra il vecchio Arbat - dove sembra diminuita la presenza, ancora poco fa scoraggiante, di banditi e prostitute ed è aumentata quella della gente comune che passeggia col gelato in mano - e l'elegante via Precistenkaja. In un bell'appartamento di una casa degli anni Cinquanta, costruita per i generali dell'Armata Rossa e ancora abitata da non pochi di loro, amici comuni mi presentano uno dei più conosciuti "guru" della cultura e della filosofia russa contemporanea, autorevole membro del Consiglio presidenziale (l'organismo che dovrebbe fornire all'esecutivo indicazioni in materia di cultura ed educazione), popolarissimo per una rubrica televisiva settimanale e per aver patrocinato la nascita del nuovo canale "Kultura". Sergei Petrovic Kapitsa ha una visione radicalmente pessimista del futuro destino del paese, e degli stessi fenomeni che Esin apprezza: "I tempi del mondo si stanno accelerando sempre più, mentre la Russia, dal vertice alla base, tiene sempre lo stesso ritmo, fa finta che non succeda nulla". La crisi, secondo lui, ha radici che vanno ben oltre questi anni di terremoto politico ed economico: è "una crisi di stagnazione, di paralisi interiore, come si capisce dal continuo calo delle nascite. I dirigenti danno il cattivo esempio blaterando e trafficando, la popolazione non si mobilita, non spinge, si limita a resistere". E il paese, se non si invertirà molto in fretta la tendenza, affonderà del tutto. "Oggi, si potrebbe dire che la catastrofe è un destino. Primakov? Buona cosa, è un segnale: un primo, piccolissimo passo, mentre la strada è lunga e tutta in salita. Ma è già importante che in alto abbiano capito che bisogna svegliarsi".

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Davide Giacalone: Cuba, melanconia e allegria in attesa che arrivi il futuro (L'opinione, 17.01.2003)

Passeggio lungo il Malecon, all’Avana, mentre sorge il sole del giorno in cui dovrò lasciare Cuba. Volendo potrei tornare fra un paio di mesi, forse i programmi cambieranno, come spesso accade nella vita, e magari tornerò fra anni. Una cosa, però, la sappiamo per certa, la so io, la sanno gli abitanti di questa città unica, lo sanno anche i cani che corrono fra gli spruzzi delle onde: presto o tardi l’Avana, tutta Cuba, sarà diversa. Città melanconica e sorridente, museo all’aperto di se stessa. Quant’è sciocco il turista che cerca il museo del locale folklore, quello che corre alla Boteguita del Medio, per fare il verso al gran bevitore di un tempo. Ma come fanno a non accorgersi che i veri pezzi da museo sono fuori, fra le strade, fra la gente, addosso alla gente? E non parlo solo delle macchine, vero reperto archeologico, che oramai si frammischiano agli ultimi modelli, che sarebbe come incontrare Lincoln e Bush che pranzano assieme. No, qui è tutto un mescolarsi d’epoche.
In che secolo sono state dipinte le grandi scritte del regime, quanti ne sono passati da quando il comunismo avrebbe dovuto battere l’imperialismo? Per noi tutti Kennedy è storia, per i cubani Fidel è il comandate della revolucion. Passeggiando da queste parti s’immagina meglio che cosa deve essere passato per la testa di Darwin quando, alle Galapagos, vide dei dinosauri in miniatura. La melanconia è parte della realtà e del paesaggio, si respira nei vicoli e nel mare. Qui Hemingway scrisse “Il vecchio ed il mare”, sarà bene non dimenticarlo. Ma questo non lascia spazio a melassosa tristezza, tutto al contrario le persone incontrate sorridono di gusto, con serena allegria. Lo spessore e la cultura di questo popolo si trova in tutti, dai piloti dei Coco-taxi (“Con sabor à tropico”) ai venditori di libri in una piazza ove potresti incontrare un leopardiano venditore d’almanacchi. Melanconia ed allegria danzano nel frullatore della storia cubana, con un’epocale dose di ghiaccio, a voler realizzare un gigantesco Daiquiri, dove il palato assetato troverà il fresco, quello curioso sentirà il Lime, quello languido avvertirà il Ron.
Del resto, parliamoci chiaro, come potrebbe essere diversamente? Come potrebbero diversamente girar le cose in questo paradiso delle contraddizioni? La Cuba di Castro è antimperialista per essere antiamericana, i cannoni dei monumenti sono tutti puntati verso Miami, ma se vuoi pagare qualcosa, qualsiasi cosa, la paghi in USD, dollari americani. No, non al mercato nero, non nei traffici clandestini: ovunque e per tutto. Arrivi con i tuoi Euro, vai al cambio ufficiale, in albergo od in banca, e te li cambiano, uno ad uno, in dollari. La valuta reale del paese antiamericano è la valuta statunitense. Su questo non riflettono, i tanti tardoni del classismo occidentale che qui sbarcano lasciandosi stordire dagli afrori del caudillismo caraibico. Con due ragazzi abbiamo preso l’abitudine di incontrarci e chiacchierare. Li invito a bere una cosa in albergo, ma loro non possono entrare. Sarà bene ripeterlo, perché all’orecchio d’uomini liberi questo fatto non dovrebbe suonare del tutto normale: i cubani non possono entrare negli alberghi.
Si dirà che ciò serve ad evitare che dilaghi la piaga della prostituzione, ma può dirlo solo chi è cieco della cecità della ragione: le ragazze entrano, dopo apposita mancia, in dollari, sono tutti gli altri a non potere entrare. Negli alberghi puoi vedere le televisioni di mezzo mondo, grazie al satellite, ma ai cubani è proibito dotarsi di parabola. Ripeto: ai cubani è proibito avere informazioni, di qualsiasi tipo, che non siano passate al vaglio della censura. Guardano i due canali di Stato. Penso ai tanti leader “democratici”, che da mezzo mondo vengono qui per farsi fotografare accanto al lìder: hanno mai chiesto, a Fidel, perché ha tanta paura della CNN? I telefoni cellulari funzionano splendidamente, all’Avana, ma i cubani non possono averli: te li può dare un’azienda per la quale lavori, ma tu, cubano, non puoi andare a comperarne uno. Eppure sono grandi ascoltatori, i cubani.
Passo per Plaza de la Revolucion, dove hanno costruito un enorme pulpito in cemento armato (roba fallicamente freudiana, ottimo punto di partenza per una riflessione sull’uniformità architettonica di tutti i regimi). Qui, mi dice un ragazzo, il primo maggio, Fidel prende la parola, e “abla, abla, abla, abla”, sei ore, otto ore. Sullo sfondo della piazza svetta il grande ritratto di Ernesto Che Guevara: “hasta la victoria siempre”. Penso all’Italia, all’occidente in genere, dove il Che è diventato un’icona romantica senza storia e senza identità: lo hanno sulle magliette i giovani di sinistra, lo attaccano al muro quelli di destra, ed anche la Lega lo ha arruolato fra gli “indipendentisti”. Qui no, qui è uno dei padri della Cuba odierna. In un locale si avvicinano i suonatori, conoscono i loro polli, sanno che il Che fa ambiente, sanno che lo straniero conosce quelle note: “ … de tu querida presentia, comandante Che Guevara….”, sbuffo. Il chitarrista si avvicina e mi fa: “tu, amigo …?” e ride, come dire: sapessi noi.
Ma nel nostro occidente democratico pochi ricordano che Cuba era il paese culturalmente più sviluppato dell’America latina, e pochissimi sono disposti a dire, chiaro chiaro, che in quanto a repressione del dissenso Pinochet era un dilettante. Così si ama ricordare solo che Batista aveva consentito che l’isola divenisse un gran casinò ed un gran casino a beneficio dei portatori di dollari. Sui casinò non saprei dirvi, di ufficiali non ne ho visti e non frequentandoli neanche dalle nostre parti non saprei degli eventuali clandestini. Ma per quel che riguarda i casini, bè, sarà sufficiente consultare una guida turistica, e basterà guardare la faccia fessa ed allusiva di quelli cui dici: vado a Cuba. Non c’è più Batista, ma non per questo è cambiato l’impulso che porta molti da queste parti. Contro le ragazze che vendono servizi sessuali non ho nulla, mi disturba di più l’ipocrisia. Ma quando ti dicono, facendo colazione la mattina, che le due uova e pancetta che stai offrendo hanno un valore di mercato pari ad un basso salario mensile, ti viene in mente che certe conquiste sono possibili solo grazie al grande dislivello di reddito. Il che mi sembra triste più per i compratori che per le venditrici.
Dei dollari ho già detto. E per capire fino in fondo vale la pena di prendere una macchina ed andare verso il mare, verso la meravigliosa spiaggia di Varadero. Procedendo verso i grandi alberghi si cominciano ad incontrare signorotti e signorotte che si aggirano sui prati, con al seguito un carrellino da cui sporgono dei bastoni: giocano a golf. Mangiano di tutto, in grandi ristoranti dove c’è di tutto. Alloggiano in graziose costruzioni, realizzate da poco tempo: lo stile che va per la maggiore è quello coloniale. Quando si dice l’ironia della storia! Milioni di dollari sono stati investiti, milioni ne scorrono ogni giorno, in questo pezzo di Florida oltremare. E questo è uno degli elementi che testimonia per un imminente cambiamento. Ci sono molti cubani che hanno accumulato dollari, ed aspettano il momento giusto per spenderli. Per quel che ho visto non c’è né fame né disperazione, i bambini si divertono e mettono allegria, ma le condizioni di vita sono tutt’altro che ottimali.
I palazzi dell’Avana sono mediamente grandi, spaziosi, evocanti un passato colmo di fasti, ma adesso son ridotti ad un ammasso di cose e persone. Fortuna che il clima consente di vivere all’aperto. Lasciate a questa gente un po’ di libertà, lasciate che il mercato consenta loro di desiderare il meglio, ed accadranno due cose: molti andranno a vivere fuori dal centro, in villette che potranno permettersi grazie ai dollari accumulati quando non si poteva spenderli; ed i palazzi del centro saranno ristrutturati, a beneficio di uffici e turisti, riportando la città allo splendore. Oggi si vive una vigilia: si sa che il presente è destinato a finire e si attende che accada. Certo, come sempre capita in questi casi, ci saranno cubani che si troveranno peggio: gli infiacchiti dalle tessere annonarie, dal razionamento della benzina, gli adagiati sul sussidio, tutti accompagnati dai profittatori di regime, rimpiangeranno questo presente. Gli altri metteranno le vele al vento. Hanno i numeri per poterlo fare, e già lo dimostrano, già lo si vede, se non s’indossano occhiali troppo colorati.
Dette queste cose, però, ne vado pensando anche delle altre. Come la goccia di resina uccise l’insetto, trasformandosi poi in ambra e riconsegnandolo intatto dopo decine di secoli, così la sopravvivenza dei barbutos ha preservato Cuba dalle contaminazioni meno esaltanti. Credo sia questo il motivo per cui alcuni, pur culturalmente attrezzati, sbarcano da queste parti e s’innamorano di ciò che, a casa loro, combatterebbero. Il capitalismo consumista finge di detestare se stesso, e s’illanguidisce nel vedere un mondo che si è sottratto a quella deriva. Lì per lì si dimentica che il consumo, prima di divenire malattia, è libertà. I cubani sono stati preservati dalla malattia fino a veder sopprimere la loro libertà, ma questo non toglie che la malattia è stata tenuta lontana. Che il cielo aiuti l’isola a ritrovare la libertà senza dare la precedenza alla malattia. Da questo punto di vista servirebbe, eccome, una guida saggia, che conduca fuori dal passato senza compromettere o sporcare il futuro.
L’attuale guida non si è dimostrata all’altezza. Non a caso, del resto, i simboli della revolucion li si trova sui turisti, dai cappelli alle stelle, mai sui cubani. E, poi, la revolucion si ostina a definirsi comunista, ma è solo un modo di dire. Fu comunista perché avversata (che errore, che errore) dagli Stati Uniti, fu comunista perché arrivarono gli aiuti economici dall’Unione Sovietica (e ancora restano i pulman siberiani, con i finestrini piccoli, in un’afa che squaglia), ma in realtà fu nazionalista. Castro è un eroe nazionalista, non certo un protagonista del pensiero socialista. In lui si agita, o si agitava, l’orgoglio dell’identità nazionale, non quello dell’universalismo rivoluzionario. Quel nazionalismo ha dato vita ad un regime autoritario, incline alla repressione poliziesca del dissenso, come tutti i regimi contaminato da favoritismi ed arricchimenti (si pensi alle catene d’alberghi, possedute da società spagnole che fanno capo, direttamente od indirettamente, ai gerarchi).
Dell’isolamento dell’isola è responsabile il presunto comunismo castrista, ma è responsabile anche una tragica politica statunitense, che avrebbe potuto chiudere da tempo la piaga apertasi non con la revolucion, ma dopo di questa. Parliamo di sigari, che di Cuba sono una delle anime. Non c’è angolo dell’isola, non c’è persona che non voglia venderti dei sigari. Generalmente si tratta di schifezze. Il tabacco è cubano, naturalmente, ma molti di quei sigari sono pieni di sminuzzaglie, sono lavorati in modo approssimativo, conservati peggio. Presso i rivenditori ufficiali si trovano ottime cose, ma non molto differenti da quelle che è possibile comperare presso rivendite specializzate in Europa. Diciamola così: chi sa scegliere si trova meglio a Cuba, ma chi compera a scatola chiusa acquista più o meno le stesse cose, e più o meno allo stesso prezzo.
Ma basta conoscere le persone giuste per potere avere degli autentici capolavori, dei sigari straordinari ed a prezzi decisamente convenienti. Ho trovato Salomone e Diadema che, da soli, meritano il viaggio, mi hanno offerto dei Robusto di una ligata straordinaria. Ma come si spiega, questo? Perché certi picchi di qualità non si trovano nel commercio normale? La ragione è che Cuba ha incrementato la produzione di sigari senza approntare un controllo di qualità degno di questo nome. Anni fa ci provarono, ma smisero subito, perché troppo spesso si trovavano a dover far critiche al proprio prodotto. Così, chi se ne intende, chi ha i giusti contatti, può trovare cose eccezionali, che se si trovassero sul normale mercato avrebbero un valore alto, ma che, invece, finiscono con l’annegare in una produzione la cui qualità non cresce di certo, e men che meno di pari passo con la qualità.
Tutto questo consente ad altri cubani di accrescere la propria scorta di dollari (come, del resto, anche il commercio di strada dei sigari di bassa qualità), ma immiserisce la gloria e la fama dei Puros, che subiscono un livellamento qualitativo, verso il basso. Se, in questa situazione, vigessero regole di mercato l’offerta si presenterebbe differenziata: sigari di media qualità (si ricordi che si tratta pur sempre di tabacco cubano) a prezzi ragionevoli; sigari eccellenti a prezzi più alti. I controlli di qualità, la trasparenza sulla provenienza delle varie componenti, i tempi di raccolta e quelli di maturazione sarebbero noti e certificati, proprio perché servirebbero a tenere alti i prezzi dei prodotti più pregiati. Ci guadagnerebbero i sigari, la storia, la tradizione, il mercato. Ci guadagnerebbe Cuba. Ma ciò presuppone l’esistenza di un mercato e della concorrenza, altrimenti capita, come oggi capita, che in scatole diverse, con marche diverse, si trovino sigari lavorati dalle stesse mani, nello stesso posto, con le stesse foglie.
A che serve, a quel punto, differenziare l’etichetta? Anche questo, un giorno, sarà considerato ovvio, anche la burocrazia del sigaro comunista, un giorno, sarà un ricordo. Il guaio sta nel rischio che prima di quel giorno si sia spinta la produzione a livelli quantitativi tanto elevati da occorrere, poi, molto tempo per rimediare ai guasti. E’ tutta qui, la sorte di Cuba: sa di non potere restare quello che è, sa che il cambiamento è imminente, ma tutto è legato ad una fatalità, manca di progettualità, è affidato alla sorte, al vento, al frangersi delle onde. Così noi corriamo in quest’angolo di recintato e represso paradiso, fiduciosi che il passato sia in partenza, timorosi che il futuro in arrivo possa essere ostile. Incapaci, alla fine, di valutare i pro ed i contro dell’uno e dell’altro. Dispiaciuti di dovere andare via.

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