La famiglia Giudice

racconta Giovanni figlio di Gaetano Giudice e di Concetta Flavetta

Giovanni Giudice e Carmela Lorefice

Mio nonno Giovanni (figlio di Gaetano a sua volta figlio di Giovanni), persona dolce e mite, era piccolo di statura, biondo e con gli occhi di un bel azzurro chiaro, mia nonna, Carmela Lorefice, alta, mora determinata e volitiva; ambedue di Vittoria in provincia di Ragusa. Il fratello di Giovanni, Salvatore, era partito per primo in direzione di Alessandria insieme con la moglie Francesca (non avevano, né hanno avuto figli), aveva trovato lavoro molto velocemente ed aveva richiamato Giovanni che, per prudenza visto che aveva già due figlie piccole (Giovanna del 1896 ed Elena del 1897), aveva preferito attendere notizie dal fratello. Volgeva il secolo quando iniziò la loro nuova vita in Egitto, paese che amarono pur rimanendo sempre siciliani nella cultura e nelle tradizioni. Era un ebanista e si distinse per la qualità del suo lavoro, non riuscì ad affermarsi economicamente ma permise alla sua famiglia una vita, per allora, decorosa. Deceduti ambedue nel 1936 a pochi mesi l'uno dall'altra, non li ho mai conosciuti. Ebbero quattro figli: Giovanna ed Elena (nate a Vittoria), Gaetano e Giacomo (nati in Alessandria).

 

Giovanna Giudice in Torrisi

    Mia zia Giovannina, sorella maggiore di mio padre,  nacque a Vittoria l'8 settembre 1896 ed emigrò insieme con i genitori agli inizi del secolo, si sposò giovanissima con Vincenzo Torrisi (di origine catanese), deceduto per tisi nel 1914 pochi mesi dopo la nascita del figlio, Silvestro, nato in Alessandria il 16 gennaio di quell'anno. Come si usava allora, Silvestro fu chiamato Vincenzo per ricordare il padre. A lato una foto di madre e figlio. Vice (nomignolo in famiglia) era mio primo cugino ma crebbe praticamente come un fratello minore insieme con mio padre e sotto lo stesso tetto, li separavano 4 anni e mezzo di età ed erano particolarmente affiatati come due fratelli, ambedue guidati nella crescita da Carmela, madre per l'uno e nonna per l'altro, e da Giovanna, sorella per Gaetano e madre per Vice. Vice sposò la bellissima Giuseppina (Doxa) Affendolidis, ebbe con lei 4 bei figli, fece la sua discreta carriera al Ministero degli Esteri con diversi incarichi in Europa, Asia e Africa. Morì a Roma il 15 aprile del 2000. Mia zia Giovannina, una delle persone più dolci nella mia famiglia, era morta il 4 agosto 1978, anche lei a Roma.

 

Elena Giudice in De Martino

    Elena, ma il vero nome era Emanuela, la secondogenita di Giovanni e Concetta Giudice, nacque a Vittoria (RG) il 25 novembre 1897. Nell'infanzia accompagnò i genitori in Egitto e crebbe aiutando la madre nelle vicende di casa. La aiutò ad accudire anche ai due fratelli minori Gaetano, il prediletto di tutta la famiglia e Giacomo, la pecora nera. Forse fu più affezionata a Giacomo proprio per ricambiarlo del suo "status".

    Si sposò il 17 agosto del 1918, sempre in Alessandria, con un bravo meccanico Gennaro De Martino, originario di Trani in Puglia, ed ebbe da lui cinque figli: Lorenzo, nato il 17 marzo 1919, sposato con Titi Bibas e deceduto a Roma il 10 novembre 1995, Giovanni, nato il 24 marzo 1921, sposato con Ilda Di Rienzo (figlia di Rocco Di Rienzo, famoso sarto in Alessandria) e vive a Roma, Savina, nata l'8 gennaio 1924 e sposata con Michele (Shelley) Azzopardi, maltese, e trasferitasi a Sydney in Australia, Carmela (Melina o Mimì), nata il 9 luglio 1926 e deceduta a Sydney l'11 marzo 1998 - di lei ricordo la dolcezza ed un viso bellissimo - sposatasi  con Loris Gamsaragan di origine armena si è poi trasferita a Sydney con i due figli Serge e Patricia,  e infine Edgar, il più giovane (nato il 18 dicembre 1928), ed oggi anch'egli a Sydney e sposato con Anna Musumeci colà emigrata da Catania. Durante la II guerra mondiale, Gennaro, che era nato il 28 maggio 1897, ed i figli Lorenzo e Giovanni furono internati dagli inglesi nei campi di concentramento per prigionieri civili tra il Cairo ed il Canale per ben 4 anni. Nessuna autorità, in Italia, ha mai mosso un dito per riconoscere agli italiani d'Egitto imprigionati per motivi bellici un qualche riconoscimento, diversamente da quanto effettuato per i prigionieri in paesi direttamente belligeranti. Gennaro morì in Alessandria il 28 agosto 1960 ed è sepolto nel cimitero latino nello stesso loculo di mio nonno Mario Flavetta, tomba tuttora esistente.

    Elena morì a Sydney il 9 novembre 1985.

 

Il Cavaliere Gaetano Giudice

    Mio padre nasce in Alessandria il 17 luglio 1909. 

    Raccontava la sorella maggiore Giovannina che, dei quattro figli dell'ebanista Giovanni, Gaetano era quello che sin da piccolo rivelava una forte personalità, interessi poliedrici, la capacità di comprendere gli uomini (capacità non da poco!) ed una propensione al buon gusto ed all'eleganza . Nella foto a destra fa da padrino al nipote Lorenzo primo figlio di Elena. 

    I mezzi familiari non gli consentono di andare molto avanti con gli studi per cui inizia presto la sua attività lavorativa. E qui lo vediamo cambiare spesso lavoro soprattutto per la sua voglia di porsi in evidenza e di comandare. Tra le varie attività partecipa, come capo cantiere, alla costruzione della diga di Assouan, ed è al rientro che, a casa della propria zia Francesca, moglie di Salvatore fratello del padre, incontra l'affascinante, allegra e leggiadra Tina (Concetta) Flavetta.

    Gaetano è molto attratto da questa fanciulla, anche lei dotata di forte determinazione caratteriale,  che sfoggia un diploma in pianoforte del Liceo Musicale Giuseppe Verdi. Più tardi scherzerà spesso con i figli, dicendo: "non so se mi sono innamorato più di vostra madre o del suo tocco al pianoforte". Nella foto: una gita alle Piramidi. Poi, un litigio tra innamorati (Gaetano era un bel uomo non insensibile al fascino femminile), la chiamata di volontari per la guerra in Abissinia contro il Negus, e Gaetano parte con le "camicie nere" verso l'Africa. Al ritorno, alla Muhatta Masr (Stazione ferroviaria) ci sono tutti ad accoglierlo compresa Tina, ma manca la sua adorata madre; conosce allora la sua prima vera sofferenza seguita poi a breve dalla morte del padre.

    Prima foto: a sinistra mio padre Gaetano, al centro Vescia e a destra Passaro. Erano in tre e si autodefinivano i tre moschettieri: erano amicissimi. Mio padre è andato avanti piuttosto bene nella vita, Passaro si è impiegato agli Esteri anche lui e, considerato da dove è partito, ha ottenuto un discreto successo. Vescia invece, ha avuto problemi con la polizia egiziana, problemi con la famiglia, problemi con la/le mogli ... un disastro, almeno così raccontano.

    Seconda foto: mio padre al lavoro come capo mastro nella costruzione della diga di Assuan.

    Foto in basso: in Abissinia durante la guerra d'Africa del 35/36. Mio padre è il secondo in piedi da destra. Era volontario in uno dei reggimenti degli italiani all'estero della Legione Parini. Dapprima partì per l'Italia per arruolarsi e, qualche mese più tardi, quando la nave che li portava in Abissinia, il Vulcania, attraversò il Canale di Suez, li attendeva Maria Uva, famosa soprano che cantava in loro onore. E' stato uno dei periodi dove il patriottismo era sentito in maniera particolarmente forte. In Egitto, ho conosciuto solo tre antifascisti e uno di essi era un carissimo amico di mio padre di nome Garbati (io sono molto amico del figlio che vive a Milano e ricordo come scherzavano sempre sulle diverse idee politiche senza mai offendere ma accettando la diversità - e questa è una caratteristica positiva della vita in un ambiente cosmopolita).

    Poi le note felici, il matrimonio, la nascita della sua primogenita (Carmela detta Mimì) seguita a breve dal maschio, io, (Giovanni detto Nino), e pochi giorni dopo l'assunzione in servizio da parte del Consolato italiano in Alessandria.

    Ma la II° guerra mondiale era in agguato e Gaetano è costretto a partire per l'Italia (l'8 giugno 1940) senza la famiglia a causa di una malattia esantematica contratta dal figlio ancora bebè. "Stai tranquilla" dice Gaetano alla preoccupata ma coraggiosa Tina, "Mussolini ha detto che la guerra non durerà più di sei mesi". Sei anni dopo ritorna a prendere la famiglia, essendo stato trasferito con una promozione presso la Legazione italiana a Beirut nel Libano. Per meriti di guerra era, prima, stato insignito del titolo di Cavaliere del Regno d'Italia direttamente dallo stesso Re Vittorio Emanuele III°.

 Nella foto del 1942, inviata a Gaetano in Italia tramite la Croce Rossa, Giovanni (Nino) nato all'ospedale italiano in Alessandria il 15 settembre 1939, Tina e Carmela (Mimì) nata a casa in Alessandria il 29 marzo 1938.

        A Beirut, bella vita in un crescendo di lusso e comodità che la pur ben retribuita attività diplomatica non poteva consentire; e allora la grande decisione: "entro nell'intermediazione nel mondo degli affari". E la prima batosta gliela diedero alcuni libanesi più furbi di lui.

    In Alessandria gli affari, anche grazie ad un notevole carisma personale, si avviano a felice conclusione uno dopo l'altro; la personalità vincente lo guida al successo ed ecco nascere prima il Lloyd Mediterraneo Italo Egiziano e poi la Navigazione Italo Egiziana. Con lui e le sue Società lavorano numerosi personaggi  allora in vista (tra questi il Conte Calvi di Bergolo cognato di Re Umberto II, il Comm. Vittorio Giannotti proprietario di una raffineria, il diplomatico Ministro d'Italia Camillo Giuriati, il ricco pasticcere greco Pastroudis, l'industriale Giovanni Polvara,  il Colonnello Carlo Simen, l'ammiraglio Angelo Varoli Piazza proprietario di un cantiere navale). L'attività principale consiste nel trasporto di petrolio dal Mar Nero alle raffinerie di Suez, e all'uopo oltre a noleggiare le petroliere Canopo e Recco, ne acquista una che iscrive nel Registro Navale Egiziano e battezza "El Horreja" (La libertà). La foto è scattata sulla nave "El Horreja". Si occupa anche di macchine agricole, desalinizzatori, progetti di irrigazione e fertilizzazione del deserto.

    Poi la nazionalizzazione del Canale di Suez e la guerra del Regno Unito, Francia e Israele contro l'Egitto, la disfatta di questo e la chiusura del Canale per molti anni a venire. "El Horreja" viene sequestrato ed il dissequestro, avvenuto a seguito di un lungo processo, consegna al cav. Gaetano Giudice solo un ammasso di ruggine. E' tempo per ricominciare nuovamente daccapo, ma questa volta in Italia.

    La sua conoscenza del mondo arabo è determinante e, rappresentando alcune grandi aziende italiani di costruzioni, rivolge i suoi interessi a progetti di sviluppo nel Libano, portando a conclusione alcuni contratti significativi (tra questi, la costruzione di un nuovo porto a Jounie), ma  un'ulcera perforata non diagnosticata lo porta via all'affetto dei suoi cari il 9 marzo 1963 nell'ospedale San Giacomo di Roma.

    Nonostante le sue alterne fortune, il cav. Gaetano Giudice si distinse sempre per un'estrema generosità (a volte la famiglia riteneva che raggiungesse il limite dell'esagerazione) che mostrò verso tutti, parenti, amici e chiunque bussasse alla sua porta.

 

   Giacomo Giudice

    Fratello minore di Gaetano, nacque nel 1911 in Alessandria. Piuttosto svogliato a scuola e certamente molto discolo (ne combinava di tutti i colori - raccontavano in famiglia che un giorno la madre, esasperata, gli tirò dietro un ferro da stiro!). Si sposò con Georgette Constantinides, una bella e dolce greca d'Egitto, che gli diede due figli: Giovanni (detto Nino anche lui) e, 16 anni più tardi, Carlo. Oggi i due figli vivono a Sydney e hanno cambiato il cognome Giudice, impronunciabile fuori dai confini d'Italia, in Judd. Amava la pesca e in Alessandria trovava un habitat naturale.   

    Ha sempre lavorato nelle costruzioni, non a livello di progettazione né a quello dell'inaugurazione dell'opera. Giacomo è stato un lavoratore, un capo cantiere, un realizzatore. Non ha targhe che lo ricordano, ma solo amici ed estimatori del suo lavoro.

    Inizia con la diga di Assuan, tantissimi altri cantieri e dopo la rivoluzione di Neghib si occupa della ristrutturazione del palazzo reale di Montazah in Alessandria.

    Durante la guerra, è internato anche lui dagli inglesi nel campo di Tantah.

    Il lavoro più grande e, per gli italiani più nobile, lo realizza dirigendo i lavori per il sacrario dei caduti ad El Alamein.

 

Poi va cercare rifugio in Australia, fa il meccanico alla Morris, infine in pensione e non molti anni fa raggiunge in cielo la dolce moglie Georgette (nella foto con Carlo, il figlio minore), una delle persone più amabile e paziente che si possa incontrare.

 

 

 

La mia infanzia

    Molto ho già raccontato prima. Aggiungo qualche spunto supplementare fermandomi al 1946 quando, a sette anni, partivo per Beirut. 

    Subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia, nel giugno del 1940, gli aerei italiani iniziarono a bombardare Alessandria partendo da Bengasi. Nel 1941, centrarono anche la casa dove abitavamo noi a Ibrahimieh, quartiere di Alessandria, e mia madre con Mimì in braccio e mia nonna con me, scapparono dalle macerie. Due case adiacenti furono colpite, per coincidenza l'altra era quella dove abitava il mio attuale nuovo amico Arnaldo Bracci.

    Andammo ad abitare in un quartiere di Alessandria chiamato Sidi Bishr in uno chalet di legno (Anche la famiglia di Arnaldo si trasferì lì, peccato che non ci siamo conosciuti allora), ove rimanemmo fino al 1946, anno in cui mio padre fu trasferito presso la Legazione diplomatica di Beirut nel Libano. Avevo sette anni quando ciò avvenne e ho conservato tanti ricordi certamente collegati ai periodi più recenti. Ricordo un cane giallo, che assomigliava al cane di Tin Tin e che sporcava tutta casa per la disperazione di mia nonna, che un giorno scomparve così com’era apparso. Ricordo che mio nonno faceva crescere, nella sabbia, pomodori succosi che irrorava d’acqua e di fiducia e che mia madre li porgeva a me e a mia sorella dicendo “questi sono meglio della frutta” (credo che mancassero i soldi per comperarla). Mio nonno, spesso, portava a casa il pane francese caldo e lo preparava con olio d’oliva e sale. Mia nonna, invece, ritirava ogni mattina lo “yaourt” (adesso la parola, d’origine turca, è stata sostituita da “zabadi”) dal lattaio che lo portava in terrine marroni collocate in una cassettiera (che m’incuriosiva tanto), mentre mia nonna gli riconsegnava quelle del giorno prima auto elogiandosi poiché le restituiva pulite ”al contrario di certa gente ...”. E quanto era buona la crema del latte bollito sulla quale la mamma spolverava un po’ di zucchero. Ma ricordo anche i lunghi periodi di malattia accompagnati dalle dolorosissime coppette oppure dal mefitico olio di ricino, tutto poi sempre seguito dall’immancabile tremenda cura d’olio di fegato di merluzzo per almeno un mese. E quel colpo di coltello con il quale, il mio povero nonno inavvertitamente mi colpì la mano elevandomi a livello di martire e attirando su di se gli sguardi di riprovazione di tutta la famiglia e dei vicini di casa; io, certamente, ne approfittavo, quando mi portavano all’ospedale italiano per le medicazioni, per collezionare quei pupazzi con il fondo tondo che stavano sempre eretti. Mi ricordo delle tessere annonarie per la farina e lo zucchero custodite insieme ai documenti d’identità, della rassicurante foto di mio padre sul comodino del letto di mia madre, ove avevo l’onore di dormire quando stavo male, e giacché succedeva spesso, oramai era quasi come se la bella foto fosse tutta mia. E poi ancora della macchina rossa del Re Faruk che ogni tanto sfrecciava entrando in quella villa misteriosa sempre chiusa e nella quale non era possibile sbirciare senza fare irritare gli shawish di guardia.

La villa ieri (io con mia madre) ed oggi.

  Allora nessuna macchina poteva essere rossa in Egitto, poiché il rosso era riservato al re. Il suo organizzatore di divertimenti si chiamava Puli Bey ed era un ex-elettricista che lavorava a palazzo reale; costui fece amicizia con Faruk da ragazzo ed entrò nelle sue grazie. Faruk, più tardi, lo nominò Bey per l'affetto che aveva per lui ma, dicono tutti, soprattutto per la sua capacità di fargli sempre ottenere quello che desiderava. Nella Comunità, si parlava di Puli Bey come di una persona molto discutibile!!

    D’estate, la vita nello chalet acquistava in mondanità. C’erano i cugini Mario e Tina Flavetta, Leda Lattuada, Nuno e Nuna Bertocchini, Mimì e Fifì (due fratelli egiziani), i fratelli Oreste, Pino e Renato Zito, Ketty Formenton, Gianni Monti e con loro si facevano le “grandi scorribande” scavalcando il muro perimetrale del giardino, prestando attenzione a non tagliarsi sui vetri conficcati nel cemento, per andare a mangiare i “loucoumades” (anch’essi hanno cambiato nome e si chiamano “lokmet-elkady”). Poi ogni tanto la combriccola mi portava in una meravigliosa sala chiamata “cinema”, ove, pur non potendo stare in piedi sulla sedia siccome chi stava dietro protestava, ammiravo Tarzan che saltava di liana in liana seguito da Cita e da Jane (peccato che c’erano pochi alberi a Sidi Bishr, poiché anche a me sarebbe piaciuto volare come lui). Spesso si andava al mare e mentre i “grandi nuotavano” io costruivo castelli di sabbia che non riuscivo a fare stare in piedi vicino a quel mare che mi faceva tanta paura, ciò poiché una volta pensai che mi volesse tirare giù sott’acqua non fosse stato per Tina che mi tirò su per i capelli ed un’altra dove riuscii a perdermi e mi ritrovarono piagnucolante mentre cercavo la mamma ciondolante tra la folla (fu allora che scoprii che al mondo c’era tanta gente troppo alta – non vedevo niente!). Ma quando tornavamo a casa, intonavamo in coro “nonna, abbiamo fame!” facendo la felicità di nonna Marta che riusciva a preparare un panino diverso per ognuno e noi andavamo a mangiarlo sulle scale che portavano al laboratorio del nonno. E ancora quella volta che con Tina provammo ad accendere un fuoco sopra un baule di legno sotto la balconata d’altrettanto legno dello chalet, ma che mia madre insistette per spegnerlo a tutti i costi, rovinandoci la festa. E poi il generoso e affettuoso Nuno Bertocchini (divenne più tardi il proprietario della omonima distilleria di famiglia - nella foto la distilleria che oggi mostra un aspetto piuttosto trasandato), che aveva forse 8 o 9 anni più di me, che mi teneva la mano (ero il più piccolo del gruppo) infondendomi tanta sicurezza e mi raccomandava sempre “stai attento” oppure mi diceva, “vieni ti aiuto io” (l’ho rivisto dopo tantissimi anni e, pur non conoscendo nulla di lui e del suo carattere, ho subito sentito rinascere lo stesso senso di rispetto e d’affetto di allora e non mi sorprenderò se un giorno mi dicesse ancora “stai attento”).

Nella foto si vede la parte frontale dello chalet, in piedi mia nonna, dietro e a sinistra della macchina mio nonno, accovacciata mia madre con me, mia sorella, una mia zia acquisita. Subito dopo lo chalet si vede la palazzina dove abitava la famiglia Bertocchini. Nella foto a colori destra, la stessa casa oggi con accanto un'abitazione costruita al posto dello chalet. Nelle foto in basso, la spiaggia come è oggi, a 100 metri dallo chalet.

    Non abitammo sempre a SidiBishr, ricordo un breve periodo vissuto a Bulkley dopo una mia lunga malattia curata all'ospedale italiano in Alessandria (il mio medico curante era il dr. Levante) ed una convalescenza a Helwan, località a sud del Cairo nota per la sua aria balsamica e le sue acque curative.

 

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