Rinaldo Lombardo 

racconta

 

I nonni Carlo Lombardo e Clotilde Oliva

Carlo, il nonno paterno, è sempre stato un mito per me. Forse perché ho preso molto da lui, dal suo comportamento, dall’aspetto fisico, dalla voglia di fare di tutto. Il suo capolavoro rimane la casa da lui progettata e fatta costruire sotto la sua direzione, nel 1929, ad Alessandria in Egitto. E’ un edificio di quattro appartamenti, uno per piano, uno per ogni figlio maschio, uno per i nonni con la figlia, ancora “signorina”.

Il nonno è magazziniere presso la “Compagnia delle acque”. Questa è un’importante Azienda a capitale inglese, incaricata di purificare e rendere potabile l’acqua del Nilo. Il nonno verso il 1938 entra in conflitto con la dirigenza inglese, in difesa degli operai indigeni, fondando il primo sindacato in Egitto. Rimane fermo nei suoi propositi, anche quando gli offrono grandi possibilità d’avanzamento e di guadagni, in cambio della rinuncia alla lotta. Sceglie di non rinunciare e ciò gli sarà fatale. Infatti poco dopo, l’Italia entra in guerra contro l’Inghilterra ed il nonno, con il figlio maggiore, hanno un triste primato: sono i primi due prigionieri civili in Egitto. Più tardi, anche gli altri due figli maschi del nonno, saranno inviati nei campi di prigionia, nel deserto, come tutti gli italiani residenti in Egitto. Il nonno regge poco a quest’umiliazione e dopo circa un anno, muore. 

Però, anche in questo breve periodo, riesce a dare la sua impronta al campo: progetta, realizza ed organizza la tenda di famiglia, mette su la latrina, arrabatta un “aggeggio” per l’ascolto clandestino di radio Londra, si costruisce una seggiola del tipo “da regista”, con un ripiano laterale. La tenda, in modo particolare, è ammirata da tutti gli altri prigionieri, che ne imitano presto le fattezze. E’ scavata in profondità nel terreno desertico, in modo da ripararsi sia dal freddo notturno, spesso sotto zero, che dal caldo diurno (40-50 gradi) e dal vento sabbioso. La tenda vera e propria, è rialzata rispetto il livello del terreno, per consentire il passaggio dell’aria quando è opportuno, ma con la possibilità di essere chiusa all’occorrenza. I quattro letti sono realizzati a branda fissa, con possibile rotazione a rientrare, in modo da lasciare spazio, all’uso diurno della tenda. Qualcuno penserà che se la stiano passando bene, difatti non hanno neanche le zanzare.

Questo è il nonno Carlo. Tra le varie cose tramandate dai ricordi: realizza una scrivania con cassetti a chiusura segreta; compera all’asta, dall’esercito, tre rottami di motocicletta in disfacimento e ne rimonta due, perfettamente funzionanti, lavorando, con grande gioia della nonna, nel salotto buono di casa. Con uguale metodo compera tre auto in disfacimento, le smonta, le rimonta, le fa funzionare, fondando la prima società di “TAXI” in Egitto. Tutto per dare lavoro ai suoi cugini. Purtroppo la tradizione non tramanda altre cose sue, ma deve averne fatte di belle. 

La nonna Clotilde è accanto al nonno con dolcezza, in contrapposizione al suo carattere forte e deciso, verso gli estranei. La ricordo attenta a tutto, premurosa, cuoca eccellente. Ha una predilezione per me e conoscendomi per un gran mangione, si preoccupa sempre del mio nutrimento. Mi rincorre con il panino, con il boccone di lasagne avanzate per me. Le sue specialità sono le piccole e croccanti patate tonde, prima lessate nel brodo e poi fritte; le foglie di vite ripiene; la marmellata di datteri con la mandorla dentro; l’orzata ricavata dal nocciolo delle albicocche; eccetera, eccetera. 

La nonna ha invece una particolare repulsione verso la tristezza. Un pomeriggio, prima di andare da lei, mi fermo a comprare lo spartito per pianoforte, della celebre “marcia funebre di Chopin”. Appena arrivo a casa sua, lei mi chiede cosa c’è dentro il rotolo, che tengo in mano. Raggiante le spiego cosa ho comprato e subito mi dice : “Ma se i soldi spesi tu li avessi impiegati per comprarti un bel panino, ora non saresti più allegro ? “

Non ho molti altri ricordi della nonna, ma riconosco, che dietro ad ogni grande uomo, c’è sempre una grande donna e LEI lo è stata.

Nonno Oliva e nonna Ida, poi zia Tina

Il nonno Oliva, è il padre di mia madre. E’ chiamato per cognome anziché per nome. E’ la classica autorità costituita, anche in famiglia. E’ stato carabiniere e congedatosi è venuto ad Alessandria entrando in “polizia”. E’ per carattere un “carabiniere – poliziotto”, nel senso migliore della definizione. Tutto d’un pezzo, ligio al dovere, inflessibile, pretende che le sue due figlie gli diano del “Lei”. Nei miei confronti c’è intolleranza, anche perché io, a sei anni, sono una carogna e faccio di tutto per stuzzicarlo. Farlo arrabbiare mi diverte. Siamo nel periodo della guerra ed a lui, per limiti d’età, anziché essere deportato nei campi di concentramento, è concesso l’arresto domiciliare, con l’obbligo di non uscire. Io, protetto dagli altri adulti presenti nella casa, passo con le mie automobiline sul suo libro, mentre lui legge; gli nascondo le pantofole, gli faccio sparire il segnalibro, appena lui abbandona per un attimo la sua lettura ed altre piccole amenità. Mi diventa improvvisamente simpatico, quando sento alcuni aneddoti sul suo conto, ma ormai è troppo tardi, io non riprendo la sua stima. Pare che una notte, in caserma si dia l’allarme, per un incendio grave, scoppiato nel paese. Tocca a mio nonno dover svegliare il suo superiore, profondamente addormentato, e lo fa dicendo: “Capitano, c’è il fuoco”. Questo superiore, svegliatosi improvvisamente, chiede: “a fuoco o ad acqua?” La risposta immediata del nonno è: “ad acqua signore”. Ovviamente al nonno è riservato un trattamento di favore, ma a me fa tanto ridere.

Altro episodio narrato, è quello di quando, durante un’esercitazione in montagna, la compagnia di Carabinieri, rimasti bloccati dalla neve, nel rifugio, hanno da mangiare solo fave. A cena il Capitano chiede cosa è stato preparato da mangiare e gli rispondono: “Fave, signor Capitano”. Lui indignato si ritira nel suo alloggio senza mangiare. Al pranzo del giorno dopo la scena si ripete. A cena il Capitano si siede a tavola e senza parlare, si fa servire e mangia le sdegnate fave. Quest’episodio mi fa ridere meno, perché mi dà la sensazione di una morale diretta ai miei capricci.

Ho ancora qualche lampo di ricordi sul nonno Oliva: lui di notte al buio, che aiuta a vuotare il pozzo nero in giardino, oppure l’allarme notturno per le solite incursioni aeree su Alessandria ed il nonno, che rifiuta di trasferirsi nel rifugio antiaereo.

Tutto il suo burbero essere si trasforma con la nascita di mio fratello Lucio. Il nonno così diventa un “micione”. La guerra è appena finita e lui ora può finalmente uscire da casa, quindi prende il passeggino con dentro Lucio e sparisce per tutta la mattina, poi per l’intero pomeriggio. Al tramonto rientra a casa, perché “l’umido fa male al bimbo”, come dice lui. Muore sereno nel suo letto, alla veneranda età di 82 anni.

Non conosco la nonna Ida, moglie del nonno Oliva, perché è già morta quando io nasco. Dalle fotografie si deduce che fosse bellissima. Dalla tradizione di famiglia apprendo, che la sua mamma, la mia bisnonna, era una baronessa austriaca, diseredata per essersi sposata con un ingegnere. Quest’ultimo era colpevole di amare la bisnonna, senza essere un nobile. La cosa allora era grave e forse io, in veste di discendente, dovrei vergognarmene ?

La nonna Ida dà alla luce due bellissime bambine: Iris, la mia mamma e la zia Elda; poi esce dalla scena in punta di piedi. Così, mentre tutti i bambini hanno abitualmente quattro nonni, io, solito privilegiato, ne ho cinque. Si, il nonno si risposa, dopo molti anni di vedovanza, con una signora. A sua volta questa signora è vedova e con due figli da accudire. Anche se la storia è da libro “Cuore” (quattro orfani e due vedovi tutti insieme) credo, che sia stato un matrimonio molto opportuno per tutti e ben riuscito nel tempo.

La “nonnastra”, o quinta nonna, io la chiamo sempre zia Tina, ma per me è una seconda mamma. Per buona parte degli anni trascorsi in guerra, io e la mia mamma viviamo nella casa del nonno Oliva e di zia Tina. Lei si occupa di far moltiplicare i pani ed i pesci, in un periodo di grossi stenti. Lei procura il lavoro a maglia, da realizzare a casa con la mia mamma ed a racimolare così il “sottonecessario”, che in buona parte serve al mio sostentamento. La mia mamma è relegata alle faccende di casa ed all’orto, perché una giovane e bella donna, con il marito prigioniero e lontano, sarebbe un bersaglio facile di certa gente senza scrupoli, circolante per la città. La sera, dopo cena, o quella che così è chiamata, prima del tramonto, si mettono le coperte alle finestre. Si deve evitare l’avvistamento delle luci dagli aerei in ricognizione bellica, che passano a bombardare la città. Il nonno legge, la mia mamma e zia Tina incominciano il loro lavoro notturno a maglia. Io a questo punto, chiedo due coccole e zia Tina mi mette sdraiato a faccia in giù, sulle sue gambe. Tra una grattatina alla schiena e due punti a maglia, io mi addormento, ma non mi mettono a letto, perché i bombardamenti improvvisi potrebbero spaventarmi ed io approfitto della situazione. La domenica pomeriggio altre signore, vicine di casa, vengono da noi, così, intorno ad un tavolo, chiacchierando, lavorano a maglia. 

Mia mamma Iris Lombardo

Si chiama Iris. Sue caratteristiche sono: l’attenzione per tutti, scrivere e tenere le relazioni con i vari parenti ed amici, sparsi per il mondo. Morta lei le notizie, le relazioni s’interrompono.

Rimasta orfana in giovane età, fa da mamma alla sorella, nata dopo. Compie studi classici ed avendole scoperta una bellissima voce di soprano lirico, s’iscrive al Conservatorio musicale. Durante un viaggio in Italia, dopo un’audizione fatta con un importante maestro dell’epoca, le propongono di debuttare al Teatro Massimo di Palermo, con l’opera “Madama Butterfly” di Puccini e l’anno seguente, con la stessa opera, alla Scala di Milano. La carriera brillante della mamma, inizierebbe con facilità impensabili, dato, che le è offerto di entrare subito nell’ambiente, dalla porta principale. Suo padre non vuole nemmeno soffermarsi sull’argomento, commentando che “le cantanti sono tutte poco di buono”. Siamo nel 1932 e questa è la mentalità. Così finisce una carriera brillante, neanche iniziata. Più avanti nel tempo, Iris si toglie qualche soddisfazione, cantando in vari teatri, con l’unanime plauso della critica intellettuale, ma il tutto è ben poca cosa, rispetto a quello che il futuro le prospettava. Nel mio piccolo, anch’io ho studiato musica classica e credo di poter confermare, senza partitismi, che Iris ha una voce splendida. Possiamo immaginare, come per tutta la sua vita si porti dietro questa mancata occasione. La musica rimane la sua passione, coadiuvata prima da mio padre, conosciuto al Conservatorio e poi da me, diventato, nei concerti, suo accompagnatore ufficiale al pianoforte. Partecipo anch’io più volte, quale ragazzino/comparsa, o membro del coro, alle opere nelle quali la mamma è la protagonista : Madama Butterfly, Bohème, Tosca, Aida, eccetera. All’opera del Cairo, tra un atto e l’altro del “Trovatore” di Verdi, la mamma allatta al seno mio fratello Lucio, nato da poche settimane, mentre il Re Farouk e la Regina Farida attendono con pazienza, l’inizio dell’atto successivo.

La mamma e mio padre si conoscono al Conservatorio musicale d’Alessandria. La mamma è la “diva” osannata da tutti, mentre mio padre è come il famoso “mohicano” : l’ultimo arrivato. Mio padre ha una vocina discreta da tenore, ma è privo di studi e poi è un corista. Se aggiungiamo, che il direttore del Conservatorio lo presenta come “un pugile”, si possono immaginare gli sguardi di commiserazione ! Io non ho niente contro la categoria dei pugili, ma descrivo solo i racconti della mamma, che per natura, è molto delicata d’animo e contro qualsiasi tipo di violenza corporale. All’inizio questa presentazione è molto sfavorevole a mio padre, ma quando poi si viene a sapere la sua estraneità con il pugilato, è guardato con occhi più benevoli. La mamma racconta, che guardandolo più attentamente, nota il naso non schiacciato d’Edoardo. Per la verità mio padre è uno sportivo, che pratica la corsa podistica, il calcio, la cultura fisica, ma un maestro direttore di Conservatorio musicale, non sa distinguere le differenze, perciò nasce la definizione di pugile. Superato l’equivoco, non si può trascurare il fatto, che mio padre all’epoca sia “belloccio” e con un certo fascino, quindi la conquista della “diva” non è una cosa impossibile. Non conosco gli approcci e le loro prime intimità, perché, nessuno dei due protagonisti, fa mai confessioni in merito. Pare che dopo le presentazioni in casa, il nonno Carlo faccia di tutto, perché si sposino e da quel momento, la mamma diventa la sua pupilla. Sarebbero guai per chi osasse, anche solo accennare, contro Iris, la benché minima osservazione. Si può immaginare la gioia di questo signore, quando Iris ed Edoardo gli regalano il primo nipotino, al quale, per giunta, è dato il suo nome: Carlo. Un po’ più di un anno dopo, nasco io. Di questa nascita, di quella precedente, delle poppate, del peso crescente, di quante volte ci viene cambiato il pannolino, delle prime parole balbettate da mio fratello Carletto, delle sue tenerezze nei miei confronti, io l’apprendo dai diari della mamma. Sempre da questi diari so che, mezz’ora prima di nascere, io sono portato in giro per la tradizionale visita pre-Pasquale, alle sette chiese e poi però scherzosamente si lamentano perché io “esco” con i piedi, parto podalico. Più avanti dirò, come purtroppo terminano questi diari.

Il periodo di felicità per i due sposini, con i loro nuovi marmocchi, è piuttosto breve. L’Italia entra in guerra contro l’Inghilterra. L’Egitto è un protettorato inglese, gli italiani sono dei nemici da arrestare ed internare. Il nonno e mio padre, che sono iscritti nella lista nera dei nemici, sono i primi ad essere arrestati e rinchiusi nell’edificio delle scuole italiane, per l’occasione diventate prigione. Si trovano ad un chilometro di distanza, in linea d’aria, da casa nostra. Il nonno per consolare mia mamma le dice : “Iris non piangere. Tra quindici giorni saremo liberi. Appena tu sentirai che le truppe italiane hanno preso il porto d’Alessandria, esponi alla finestra la coperta rossa, così sapremo d’essere nuovamente liberi”. Lui non ha mai più visto né la coperta rossa, né la sua casa. Dopo poche settimane, anche gli altri italiani sono arrestati e portati nel deserto di Suez, nei campi di concentramento. Tutte le donne della famiglia, ossia, la nonna, la mia mamma, le zie, si trovano improvvisamente sole, a vivere con pochi soldi ed a nascondersi nei rifugi, con i figli piccoli, durante i bombardamenti d’Alessandria. Le incursioni si ripetono per tre o quattro volte a notte. Io sono piccolo, ma ricordo i lampi artificiali lanciati per illuminare la città, il frastuono delle bombe che cadono, la mia maschera antigas pronta all’uso, il pane bianco mangiato dalla vicina, moglie di un ufficiale inglese, il fatto che a bombardarci siano proprio i nostri fratelli italiani. Tutto questo fino a che, di notte, una bomba colpisce il circolo degli ufficiali inglesi, ubicato a cento metri di distanza dalla nostra casa. Tutti i vetri della casa si rompono; per l’occasione il nonno è osannato, quale progettista e costruttore di una casa robusta e resistente, ma la paura è, a dir poco, tanta. Questo è il segnale, che Alessandria ormai sia una città ambita da tutti i contendenti e quindi abitarla diventa pericoloso. Così le donne di casa prendono la decisione di trasferirsi in un villaggio agricolo, vicino al Cairo: “ Ezbet el nahl “, che traducendo diventa “oasi dei datteri”. L’oasi è molto lontana da casa nostra, da Alessandria, ma ha il pregio di essere a soli duecento chilometri dai campi di prigionia dei padri e mariti. Due volte l’anno i parenti stretti possono visitare gli internati, previo permesso speciale, per lasciare la propria abitazione e compiere, un percorso ben preciso, con la scorta. Il periodo trascorso in quest’oasi non m’impressiona molto la memoria. Ricordo: l’albero del gelso, per le sue squisite more bianche, che noi ragazzi raccogliamo; l’albero del mango, per il suo profumo intenso e per i frutti particolari; l’asinello con gli occhi bendati, che gira in cerchio, trascinando l’asta per portare su l’acqua del pozzo; le polverose stradine di campagna; la stazione, consistente in un unico marciapiede rialzato, completamente vuoto e molto assolato; il piccolo treno a vapore, con due soli vagoni.

La mia vita in Egitto 

Nell’oasi tutto sembra andare avanti senza scossoni. I bombardamenti qua non ci sono, da mangiare c’è quanto basta per non morire di fame, le donne di casa, sotto la direzione della nonna, vanno d’accordo tra loro, i mariti e padri sono lontani, ma si confida nel trascorrere veloce del tempo, per riunire nuovamente l’intera famiglia.

Purtroppo questo lento trascorrere del tempo, con serena rassegnazione dell’intero gruppo, è rotto da una ferale notizia: il nonno Carlo, “in seguito ad un attacco di Angina Pectoris è stato trasferito dal campo d’internamento situato nel deserto di Suez, all’ospedale del Cairo, dove, dopo 200 chilometri di percorso è giunto cadavere. La salma sarà trasferita ad Alessandria, città d’origine del defunto.“ Questo è il laconico messaggio inviato alla nonna, dalle autorità consolari.

Non c’è molto tempo da dedicare a questo dolore, perché sia io, che il mio fratellino maggiore, Carletto, da qualche giorno, abbiamo la febbre molto alta. Sono tutti preoccupati, ma il medico è irreperibile nell’oasi dove abitiamo. Si ricorre ad un medico del Cairo, con grandi sacrifici economici e la sua diagnosi è immediata, ma spietata: si parla di tifo per mio fratello, di paratifo per me. Siamo nel 1941 e queste due malattie infettive, sono sinonimo di morte. Le autorità sono tenute ad isolare le persone infette, con il trasferimento al “lazzaretto” e le nozioni mediche dell’epoca nulla possono fare contro queste due malattie. Il medico commosso dalla situazione, accetta di rinviare la sua denuncia alle autorità, il giorno successivo, per consentire alla mamma di programmare un’eventuale fuga verso Alessandria. Si, dobbiamo scappare dall’oasi per non farsi portare via i due figli ammalati, almeno per fare qualche tentativo di salvarli. Siamo in pieno periodo bellico, in un paese nemico, dove ogni spostamento degli italiani, deve essere autorizzato dal Governatore inglese. Nessun’autorità consentirebbe il trasferimento di due persone ammalate, con l’obbligo dell’isolamento. La mamma decide velocemente di scappare per Alessandria, dove può avere una migliore assistenza e gli avvenimenti seguenti le daranno, in buona parte, ragione. Questa fuga le fa rischiare pene gravissime, non esclusa l’imputazione di spionaggio a favore del nemico, ma tutto ciò non passa neanche per la testa alla mamma, che vuole salvare i figli a qualsiasi prezzo. Il viaggio verso Alessandria è drammatico. I bambini sono febbricitanti, si deve andare verso il Cairo con un trenino, poi cambiare ferrovia, passando per un’altra stazione. Il tutto evitando i numerosi posti di blocco della Polizia Militare, che porterebbe al sicuro arresto della mamma ed al ricovero forzato di noi due bambini, al “lazzaretto”. La mamma ha continuato a ricordare nel tempo quella giornata, il viaggio, come in un incubo e sempre con un pianto in gola, che le impedisce di finire il racconto. Si arriva ad Alessandria e si raggiunge l’abitazione del nonno materno, che ancora non sa nulla. Il nostro vecchio pediatra, il Dottor Ziwar, è avvertito e giunge velocemente in soccorso. Il dottore è egiziano con passaporto greco e quindi può circolare liberamente su tutto il territorio. Con la mamma stabiliscono di curare me a casa del nonno e di portare mio fratello, che appare più grave, all’ospedale greco. Più tardi lo stesso medico si prodigherà ancora, per trovare una soluzione, quando la mamma è convocata dalle autorità, a rispondere della sua fuga dall’oasi. Io ho solo quattro anni, ma moltissimi episodi sono chiarissimi nel ricordo, anche nei minimi particolari. Ricordo le visite quotidiane del medico, la febbre alta combattuta con le pezzuole d’acqua e aceto in testa, le continue assenze della mamma, che va all’ospedale dal fratellino, la zia Tina, che non mi lascia mai, le prime zucchine lesse, condite con il limone, dopo la fase critica della malattia. Dall’altra parte, all’ospedale, mio fratello lotta contro la malattia, con le sue sole forze. Le conoscenze mediche sono arretrate e non si sa ancora come combattere questo male. Tutto è documentato dalla mamma, che trova sfogo nello scrivere sui suoi diari. E’ riportata la febbre, nei suoi valori oscillanti, ma sempre alti, la gioia del bambino, che riceve in dono un piccolo carro armato, di un amichetto, le notti insonni del bambino, sempre più stremato, la presenza degli infermieri, che non possono fare nulla, la preziosa aranciata, bevuta dal bambino, l’acqua di riso molto gradita, l’assopimento riposante, dopo i dolori tormentanti, i colloqui con i medici, sempre più sfiduciati. Il diario continua: “-10 Dicembre. Ieri sera la febbre è arrivata ancora a 40 gradi, poi è scesa a 39,2, ma stamattina Carluccio è più sveglio. Gli ho portato due mele e le ha volute tenere per giocare. Il medico dice, che il cuore è affaticato e poi ha nuovamente il gonfiore all’orecchio destro, ma è meno giallo. Ha bevuto con me dell’acqua di riso. - 11 Dicembre. Stamattina ha 38,1, le pulsazioni sono regolari, ma ha il viso gonfio sui due orecchi. - 12 Dicembre. Oggi è arrivato Eddy dal campo di prigionia. Carlino ha 39 di temperatura. Nel pomeriggio è salita a 40 ed il gonfiore agli orecchi è più accentuato. Il cuore è debole, lo stato è grave.”

Il diario per quattro giorni non riporta più nulla poi la mamma scrive: "- 16 Dicembre. E’ morto Carlino mio.“

Dal diario si deduce, che nostro padre sia arrivato, appena in tempo, per vedere il mio fratellino vivo. Non so come gli sia stata concessa la possibilità di lasciare momentaneamente il campo di prigionia. Io ho la visione di me, che dal lettone, vedo mio padre, seduto sulla poltrona, nel corridoio. In piedi, ai lati della poltrona, ci sono due guardie e mio padre, con la testa tra le mani, singhiozza. E’ la prima volta, che io ricordi mio padre, dalla nascita in poi. Non capisco perché stia piangendo quel signore, credevo che solo i bambini piangessero. Più avanti, con il passare degli anni e con i racconti della mamma, ricollegherò questo pianto alla morte di Carletto.

Rivedo mio padre molto tempo dopo, in occasione di una visita al campo di prigionia, concessa alla mamma ed a me. Ricordo un paio di queste visite fatte a mio padre, ma non ho memoria d’affettuosità, o particolari attenzioni da parte sua, nei miei confronti. Lasciando il campo per fare il lungo viaggio del ritorno a casa, non ho nostalgie, anzi, m’infastidisce il fatto, che la mamma sia molto triste. Oggi capisco il perché di quella tristezza.

Ad Alessandria la vita di guerra, continua per gli adulti e nella totale incoscienza, per noi bambini. Dico noi bambini, perché nel frattempo ho stretto le mie amicizie con i bambini del vicinato. Io sono il più piccolo e cerco in tutto d’imitare gli altri.

Tutti i giorni nel pomeriggio viene il lattaio, a distribuire il latte. In bicicletta trasporta numerosi grossi recipienti di latta, appesi qua e là con ganci. Questi recipienti hanno la forma di grossi bottiglioni in lamiera zincata, con il relativo tappo. Io ho imparato a misurare i tempi: il lattaio arriva, si assenta per salire ai vari piani e consegnare il latte a tutti gli inquilini dell’immobile. A me questo tempo è sufficiente, per le mie malefatte. Tolgo con frenetica cura il tappo, uno per volta, a tutti i recipienti, infilo dentro il mio dito malefico, lo passo sul bordo, al livello del latte, raschio la panna formatasi con le scosse del trasporto. Ovviamente succhio il dito pieno di panna, ogni volta che lo estraggo dal recipiente. L’azione si ripete tutti i giorni e sono diventato talmente bravo, che, credo, l’interessato non se ne sia mai accorto. Oggi la vista della panna suscita ancora in me questa squisita memoria.

Il lattaio passa abitualmente mezz’ora prima dell’autobotte, che viene ad annaffiare le strade sterrate. Si tratta di un camion con una botte colma d’acqua ed un tubo di ferro sforacchiato posto frontalmente, in modo da lasciar passare l’acqua spinta a pressione da una pompa. Regolarmente noi ragazzi l’aspettiamo ai bordi della strada e fingendo noncuranza, ci lasciamo spruzzare abbondantemente, per poi imprecare contro l’autista. Quest’ultimo finge altrettanta noncuranza e quando arriva alla nostra altezza, aumenta il getto della acqua e prosegue per la sua strada, senza badare alle nostre finte invettive, ma sorridendo. Così ci divertiamo tutti.

Un pomeriggio, dopo il passaggio dell’autobotte, non so per quale banale disputa, ricevo un pugno sullo stomaco, regalatomi dal mio amico preferito, Armando, di due anni più anziano di me. Non ricordo di aver patito dolore, ma ricordo lo smacco, per aver preso un pugno dal mio idolo. Più tardi passa, come sempre, il venditore di “tarabucche” (tamburelli in coccio, con la pelle d’asino), che in pagamento non vuole soldi, ma pattuisce il prezzo in bottiglie: quattro per una piccola, otto per una media, quindici per la grande. Zia Tina per calmare la mia rabbia verso Armando, mi consegna qualche bottiglia ed io riesco a comprarmi una tarabucca piccola.

La macchina del vicino, signore inglese, è la passione della nostra banda, perché regolarmente, con i ditini angelici, gli sgonfiamo le gomme. E’ bello sentire l’aria, che esce con forte pressione e poi sempre meno, mentre la gomma si affloscia. Un pomeriggio, durante una di queste operazioni di gruppo, vedo i compagni dare l’allarme e scappare di corsa, ma io non mi rendo conto del perché, fino a che non mi trovo un omone minaccioso davanti: è l’inglese. Non so come, ma riesco a scappare anch’io, o meglio credo che lui abbia voluto lasciarmi scappare, con una fine lezione all’inglese. Resta il fatto, che da questo momento, mi rifiuto di passare davanti all’abitazione dell’inglese e per noi diventa “la casa del mostro”. E’ sott’inteso, che le gomme, miracolosamente non si sgonfiano più.

Un triste giorno, durante una scorribanda, bighelloniamo e passiamo per il nostro solito percorso. Davanti ad una villetta a due piani, improvvisamente uno dei compagni, rimasto indietro, lancia un grido: “Si è impiccata” ! Accorriamo tutti indietro e attraverso il vetro di una finestra, vediamo una giovane donna appesa al soffitto, con una corda al collo! Passato il primo momento di terrore urliamo disperati, fino a che gli adulti ci allontanano e danno a loro volta l’allarme. Pare che per la poveretta non ci sia niente da fare. Da quel momento per noi è “la casa dell’impiccata”. Non passiamo più da quella casa, se non per bravata, sfidando la paura del fantasma. Il giorno dopo, uno dei miei compagni più grandi, vuole ripetere l’esperimento, impiccando un gattino. Per fortuna del gatto, un signore di passaggio se n’accorge in tempo, salvando il gattino dalle nostre grinfie e malmenando noi.

Stando sul tema di sadismo infantile, un altro esperimento tentato dal gruppo, di cui mi ricordo con vergogna, è il tentativo di spennare vivo un passerotto catturato, per vederlo nudo. Anche in questo caso, la nostra malefatta non si compie. Il povero uccellino riesce a svincolarsi ed a volare via, dopo avergli strappato solo una piuma. Racconto il fatto a zia Tina, che amorevolmente mi rimbrotta, facendomi capire, che i passerotti si vergognano a stare nudi.

Il nostro gruppo è formato da soli “uomini”, di 5, 6, 8 anni al massimo, perciò le bambine sono guardate, solo da lontano ed allora cominciano i primi innamoramenti. Due sorelle di nazionalità greca, sono le più ammirate, anzi una in modo particolare ha due occhi grigi fulminanti, incorniciati dai capelli bruni molto ricci: è irresistibile. Lei sa di essere desiderata e mentre da una parte finge di ignorarci, dall’altra ci provoca, affacciandosi mezza nuda, dalla terrazza di casa sua, al secondo piano. La sorella è carina, ma noi “uomini” non la vediamo. C’è una terza “donna” che ruota intorno al gruppo, Enza, ma è trasandata, sciatta, sporca; non è attraente.

Nel frattempo mia mamma è chiamata dalla polizia, che ha scoperto i ladri, negli appartamenti abbandonati delle nostre case. L’edificio costruito dal nonno Carlo è diventato dimora fissa di una banda. E’ così che inizia un altro periodo di tribolazioni, per la mamma. E’ costretta a visitare spesso questi appartamenti vuoti, per far sentire la nostra presenza, pur abitando noi nella casa del nonno Oliva. La nonna e le zie sono rimaste con i cugini all’ Esbet El Nahl. Quotidianamente io e la mamma andiamo a pulire, a chiudere con catene le finestre e le porte, a mettere ordine negli appartamenti, visitati nottetempo dai ladri. La tristezza sta nello spregio di questi ladri, che non si limitano a portare via, o a rompere le cose non volute, o a segare le persiane danneggiandole, ma fanno anche i loro bisogni, in terra nelle varie stanze. A tutto ciò si aggiunga che, l’autobus nel suo percorso passa obbligatoriamente dall’ospedale, dove è morto mio fratello. Regolarmente a me viene un nodo alla gola, perché vedo la mamma con le lacrime agli occhi e lei mi abbraccia. La scena si ripete tutti i giorni. Un giorno, dopo essere entrati in uno degli appartamenti spregiati, la mamma trova in terra un passaporto di nazionalità italiana, rilasciato ad un certo Signor Fortunato Tr….. (ometto il cognome, che però ricordo perfettamente). Evidentemente uno dei ladri, nella sua scorribanda notturna, al buio ha perso il documento d’identità. Portiamo questo documento alla polizia ed il discorso sembrerebbe chiuso qua, anche se è inspiegabile come possa un italiano essere in libertà, in giro per la città, con il passaporto non requisito. Qualche giorno dopo, di pomeriggio, sentiamo bussare ai vetri della nostra camera, posta al piano terra. E’ il signor Fortunato Tr…., che sfacciatamente si presenta, per riavere il suo passaporto. La mamma caccia un urlo, facendo accorrere il nonno, ma il signor F. T. scappa. Altra denuncia alla polizia, altri sopralluoghi, altre consultazioni di foto per il riconoscimento, eccetera. Finalmente si decide di mettere un portiere/guardiano, che con la sua famiglia viene ad abitare al piano terra dell’immobile. Si chiama Taha, è imponente con il suo aspetto, è alto circa un metro e venti. Il turbante, che ormai fa parte della sua persona, quasi lo nasconde. Oltre alla moglie, sempre velata e vergognosa, ha due figlie piccole. Anche per Taha i primi tempi sono duri: si catturano due ladri e viene portato anche lui al posto di polizia. Non si sa perché, ma anche Taha è malmenato dai poliziotti. Pensano sia complice dei ladri e a suon di bastonate, vorrebbero fargli confessare, chissà quali colpe. Finalmente arriviamo noi, la coppia vincente, ossia io alto la metà di Taha e la mamma, per salvare il nostro poveraccio, ormai tumefatto dalle botte. Per me è un ennesimo brutto ricordo: quest’uomo piccoletto, mite e buono, seduto in terra, nella cella con le sbarre, pieno di lividi. Non riesco a capire i motivi e non li capirò mai più. Taha è fatto uscire dalla mamma, che, malgrado la sua femminilità, interviene con fermezza.

Per associazione di idee ricordo il matrimonio della figlia più grande di Taha, 13 anni, con il promesso sposo di 45 anni. L’usanza di promettere e concordare tra le famiglie il matrimonio della figlia, già nel giorno della sua nascita.

Nel frattempo la guerra è finita e di ciò non parlo, perché è storia. Tutti gli uomini tornano a casa, ma la vita è dura: non ci sono possibilità di lavorare, c’è tanta miseria in giro. Mi dilungherò poi, parlando di mio padre, ma ora dico che Edoardo è stato il primo ad essere internato ed è l’ultimo a tornare a casa. La famiglia ritorna ad abitare negli appartamenti voluti e costruiti dal nonno. Due membri del gruppo mancano all’appello: il nonno Carlo e mio fratello Carletto, contributo della famiglia alla guerra. 
Mio padre tarda a rientrare, oltre i tempi della detenzione, perché parlando bene sia l’inglese che il tedesco, gli è offerto un impiego di interprete, presso i campi di prigionia dei tedeschi, gestiti dagli inglesi. I dirigenti del campo lo convincono, dicendo che ad Alessandria si patisce la fame, mentre la loro offerta è un buon salario, un trattamento da libero cittadino, anche se con le limitazioni dell’ambiente, cibo in abbondanza, di prima qualità e con la possibilità di fare riunire mio padre con me e la mamma. Edoardo accetta e per un anno ci trasferiamo a vivere ad Ismailia, vicino il canale di Suez. Io sono ancora piccolo, ma di questo periodo ho distintamente chiare alla mente due cose: 

1° - ad Ismailia ho imparato le tabelline aritmetiche, che ricordo tutt’ora; 

2° - le chiuse a diga sul canale, per far superare alle navi il dislivello del corso d’acqua e che questo metodo impiegato è una delle numerosissime importanti invenzioni di Leonardo Da Vinci. 

E’ da questo momento che nasce la mia ammirazione per Leonardo e la mia fissazione di voler sapere tutto di “Lui”. Scoprirò più tardi che sono anche opere sue: la vite senza fine dentro al cilindro, usata a pedali dai contadini per portare l’acqua del Nilo sui loro campi; la ruota a pale che trainata dall’asinello bendato, porta su l’acqua dai pozzi, eccetera.

La mamma e mio padre si riuniscono e dal loro amore nasce il mio nuovo fratellino: Lucio. Come tutti i membri della nostra famiglia, anche lui nasce nella nostra maternità, che è un edificio separato dal nostro, solo da un giardinetto di casa. In pratica ci si parla dalle finestre. Infatti, la notizia della nuova nascita ci è comunicata dalla levatrice, che si affaccia alla finestra chiamandoci. Io ho otto anni e sto giocando con i cuginetti al montaggio del “Meccano”. Sono proprio io che mi affaccio ed apprendo la notizia. Sono raggiante e commosso. Non so quali siano i miei compiti verso questo nuovo arrivato e sono imbarazzato, ma orgoglioso, perché io ho un fratellino ed i cuginetti ancora non lo hanno. Nel pomeriggio gli zii accompagnano tutti noi bambini a vedere il film “Buffalo Bill”. Io mi preparo da solo per andare al cinema, perché ormai sono grande! Pulisco le mie scarpe da ginnastica, le preferite ed uniche che ho, passandoci sopra la pietra umida del bianchetto, proprio come ho visto fare la mamma. Gli otto giorni di degenza della mamma alla maternità, li passo a casa dei cugini.

Tutti i pomeriggi, subito dopo il pranzo, andiamo a fare la “siesta” nel lettone degli zii. Dopo il pisolino, abbiamo lo spettacolo cinematografico in casa. A quell’ora passano quotidianamente centinaia di cavalli da corsa, in fila indiana, che tenuti ciascuno da due uomini a piedi, vanno a fare il passeggio. Per un giuoco di luci, noi stando a letto, attraverso le feritoie delle persiane chiuse, vediamo distintamente tutte le ombre dei cavalli e degli uomini passare sul soffitto. E’ facilmente immaginabile il divertimento di tre bambini di otto anni, alla presenza di questo spettacolo. La ripetizione del fatto nei giorni, ci dà l’idea di costruire un apparecchio di proiezione cinematografica. Abbiamo molti fotogrammi di pellicole da film, che abitualmente ci scambiamo a scuola; disponiamo di una grossa lente che era del nonno e che io posseggo tutt’ora; dalla nonna prendiamo una scatola da scarpe rettangolare; lo zio ci presta la lampada della sua scrivania; la zia ci sistema un lenzuolo sulla parete, la “ lanterna magica” è fatta. Quando lo spettacolo è allestito invitiamo gli adulti a sedersi sulle sedie disposte per l’occorrenza, dietro pagamento di un regolare biglietto d’ingresso. Il primo giorno, la nonna, gli zii pagano, ma data la brevità dello spettacolo, il giorno seguente si rifiutano di prendervi parte, con conseguente bancarotta della nostra impresa cinematografica.

Al pomeriggio passa un mendicante non vedente. Noi ragazzi lo chiamiamo il “santone”, perché pare che, si sia fatto accecare di propria volontà, dopo aver visto la “Pietra Nera” della Mecca. Ora vive d’elemosine, girando per la città con un percorso sempre uguale. Quando arriva da noi, gli facciamo sempre festa, perché in cambio dei nostri soldini ci facciamo dire l’ora esatta. Tutti i giorni l’ora cambia, anche se solo di pochi minuti, ma regolarmente il “santone” l’indovina. Noi possiamo controllare con l’orologio, sulla torre della fabbrica di Coca Cola, che per noi è bene in vista. La sua precisione ci stupisce sempre. Le proviamo tutte, per smascherare un suo ipotetico imbroglio. Pensiamo che non sia cieco, o non del tutto, mettendolo alla prova, ma il risultato è che non vede neanche le ombre. Pensiamo che in preparazione alla nostra domanda si faccia dire l’ora da qualcuno, poco prima di raggiungerci. Con questo dubbio lo precediamo nel suo percorso, facendo con lui, non visti, un lungo tratto di strada. Ma non è avvicinato da nessuno e così ci convinciamo, che il “santone” ha un suo orologio biologico. 

Qualcuno leggendo questi miei ricordi, si ritroverà tra i personaggi descritti: ma è storia vera. Spero solo di averne parlato bene.

Lucio, con la sua nascita, completa il nucleo familiare. Non che Carletto sia dimenticato, tutt’altro. Le nostre visite al cimitero sono molto frequenti, ma finalmente Iris si rasserena dopo tante traversie subite. Edoardo è ancora alla ricerca del suo futuro, però gradatamente anche gli stenti cessano, per fare posto ad una vita più agiata.

Iris ricomincia a cantare nei concerti, è richiamata, con Edoardo, nei nuovi allestimenti delle opere liriche. In casa nostra si sente ancora musica e canto, la guerra sembra essere lontana. Iris riprende il lavoro a maglia, ma non è più per necessità o peggio per fame: fa maglioni per mio padre, per me, per Lucio, per tutta la famiglia; fa calzini e vestitini per i neonati dei parenti e degli amici; fa una vestaglia intera di lana per sé.

Questo periodo felice si rannuvola brevemente. Mio padre, in accordo con uno dei suoi fratelli, constatando che in Alessandria non c’è più futuro, né per i genitori, né per i figli, incomincia ad interessarsi dell’Argentina, del Brasile, dell’Australia, per una eventuale emigrazione. Dopo attento esame, la scelta cade sull’Australia. Ci sono alcuni amici di famiglia e dei cugini di Edoardo, che già da laggiù scrivono con tanto entusiasmo. Ci consigliano come procedere per ottenere il visto d’ingresso. Ci sottoponiamo a tutte le richieste consolari e si fanno tutte le analisi cliniche, per l’idoneità fisica dell’intero gruppo.

Infine le autorità concedono l’insperato visto. Ora, prima di partire, si deve vendere l’immobile costruito dal nonno Carlo e la casa di proprietà del nonno Oliva, passata per eredità alle due figlie. Si tratta di rompere una tradizione, dei legami familiari, fin qua molto sentiti. Incominciano gli screzi tra i fratelli per come vendere e perché vendere le proprietà. La mamma, che sperava in un rifiuto dei visti consolari, è tristissima, perché non vuole lasciare la famiglia, gli amici, le abitudini, per andare in una terra sconosciuta e con tante incertezze. Dopo numerose riunioni tempestose tra fratelli, la casa patriarcale è venduta. Il pensiero di separarci mette nel panico anche noi cugini, fin qua abituati a stare sempre insieme. Ci facciamo le grandi promesse di non perdere i contatti tra noi, di rincontrarci. Incomincia il peregrinare di Iris, Edoardo, Lucio ed io, da una casa all’altra, iniziando provvisoriamente con un appartamento in affitto.

Passato poco tempo, dopo aver venduto l’immobile della nostra infanzia, c’è una svolta improvvisa. Nel lungo periodo d’attesa per i preparativi alla partenza verso l’Australia, Edoardo è richiamato a lavorare per la “Compagnia delle acque”. Anche il fratello, promotore dell’emigrazione programmata, è chiamato a dirigere una importante officina meccanica. Il futuro ora è più roseo per tutti ed i programmi d’emigrazione sono abbandonati definitivamente.

La partenza per l'Italia

La vita procede serenamente per i miei genitori, che vedono crescere me e Lucio. Tutto va avanti senza scosse fino al 1953, quando in Egitto scoppia la rivoluzione. E’ capeggiata da Naguib, ma presto anch’egli è deposto, con il colpo di mano del suo luogotenente Nasser. Il Re Faruk è detronizzato e scappa in Italia; i suoi nobili, i ministri, sono condannati ai lavori forzati. Agli stranieri, proprietari delle grandi industrie, si requisiscono le imprese e si costringono alla fuga dal paese. Gli stranieri come noi, con medio tenore di vita, sono tollerati, ma non ben visti. Dopo tutti i soprusi fin qua subiti dalla popolazione indigena, per mano nostra, c’è una giusta rivalsa con la caccia allo straniero. Regna la più completa anarchia, come quasi in tutte le rivoluzioni. Ci si aspetta da un momento all’altro, nuovi passaggi di potere. Si teme il peggio. Ora Alessandria non offre più un futuro a noi stranieri. Si programma così un graduale rimpatrio verso la nostra tanto amata Italia. Io frequento l’ultimo anno al Conservatorio musicale, quindi sarei pronto per dare l’esame di diploma in Italia. Mio fratello Lucio ed i cugini della sua generazione, sono ancora piccoli e potrebbero facilmente inserirsi negli studi in Italia. Mio cugino Alfeo, della mia stessa generazione, è iscritto all’Università di medicina di Alessandria e la sua preparazione gli consentirebbe di inserirsi brillantemente in Italia; di fatto qua diventerà un apprezzato medico, con una brillante carriera. L’altro cugino, Roberto, nel frattempo si è inserito nel mondo del lavoro e potrebbe avere degli agganci per trasferirsi professionalmente in Svizzera, ma poi andrà come tecnico in Colombia. L’incertezza del rimpatrio riguarda gli zii e mio padre, che essendo circa cinquantenni, potrebbero trovare difficoltà ad inserirsi in un’attività. Esaminati i pro ed i contro, io parto per primo, accompagnato dalla mamma e da Lucio, che vengono per affidarmi, dietro presentazione, ad una signora di Milano.

Siamo nel Luglio del 1956. Con una nave turca, diretta a Napoli tentiamo di lasciare il porto d’Alessandria. Dico tentiamo, perché c’è in corso una burrasca ed un mare grosso tali, che il pilota del porto non riesce ad abbandonare la nostra nave per salire sul suo rimorchiatore. Siamo solo all’imboccatura del porto, ma il pilota fa diversi vani tentativi. Il rimorchiatore a tratti è sbattuto sul fianco della nave, poi è allontanato dalle onde altissime. I tentativi si ripetono per circa mezz’ora e quando finalmente il pilota mette piede sul suo rimorchiatore, scoppia naturale l’applauso di tutti noi passeggeri, che dal ponte, assistiamo all’evento. La nostra nave riparte verso il largo, ma sembra che non riesca a procedere. Si arrampica con la prua in verticale sulle onde ed al culmine sta un attimo in equilibrio trova il vuoto sotto di sé e con un pauroso colpo sotto alla chiglia, fragorosamente e scricchiolando, si rituffa sull’acqua, poi giù ancora in verticale per la china dell’onda. A questo punto sembra scendere direttamente verso il fondo del mare, ma s’immerge brevemente e come per miracolo, la nave si raddrizza, si rialza di prua e riprende la risalita della nuova onda. Si ha la sensazione di essere sulle montagne russe, al “Lunapark” e di non fare nessun progresso in avanti. I marinai hanno subito un gran da fare per distribuire sacchetti di plastica e limoni. I passeggeri, alcuni sono rivolti verso il mare ad alleggerirsi, altri sono già scesi nelle cuccette. Presto rimaniamo sulla tolda della nave solo la mamma, io e mio fratello. Lucio resiste un po’, ma è pallido e preferisce farsi accompagnare da me nella sua cuccetta. Io ho molta paura, perché scricchiola tutto ed il ballo non cessa, ma ritorno da Iris. Presto si fa buio, s’intravede solo la schiuma delle onde, tutto il resto è nero. L’atmosfera non è piacevole, ma ci avvertono che la cena sarebbe pronta. Scesi al ristorante troviamo la sala vuota. Tutti i camerieri si mettono a nostra disposizione. C’imbandiscono la tavola fino a farci scoppiare. E’ tutto buono e curato ed io non posso, non voglio rinunciare a nulla. Ricorderò per sempre questa cena. Dimentico il mare in burrasca, anche se i piatti vagano sul tavolo e si fermano sul bordo rialzato, per contrastare le scivolate. Dopo cena, io ed Iris andiamo ancora un po’ sul ponte, aggrappandoci qua e là, per non finire in mare, poi la pancia piena concilia il sonno ed andiamo a dormire. Non saprei dire nulla sulla notte, perché messo un piede sul letto, io non ricordo di aver messo il secondo, che sono già addormentato. Mi sveglio che è giorno e la nave, questa volta, procede diritta: la tempesta è cessata. Fatta la colazione, ancora abbondante, il mare, dal ponte, ha tutt’altro aspetto, rispetto la sera precedente. Ora incomincia il vero godimento della traversata.

Il giorno del nostro previsto arrivo è emozionante. All’alba è annunciato, che stiamo per passare dallo stretto di Messina. Sto per vedere l’Italia. Mi alzo alla svelta dalla cuccetta, non ricordo di essermi lavato, ma so di essere sul ponte in prima fila a godermi lo spettacolo. Per un po’ aspetto impaziente, guardando l’orizzonte, come un vecchio lupo di mare, fino a che qualcuno mi avverte: “se vuole vedere l’Italia, deve andare dall’altra parte della nave”. Ho sbagliato lato! Corro dall’altra parte e mi si presenta uno spettacolo, che non dimenticherò mai: vedo per la prima volta nella mia vita, le montagne vere, non quelle di carta da pacchi, che mia mamma faceva per il Presepio. Tutta la mattina la passo a guardare la costa italiana, le sue isole, le montagne. Confesso che sono emozionato, ma anche un po’ intimorito. Sto arrivando alla meta, non è più solo un programma, è una realtà. Si realizzeranno i miei sogni? Che difficoltà io incontrerò? A quest’età sono anche un po’ timido e penso, con chi dovrò parlare? A chi dovrò presentarmi? La mattina è lunga ed i pensieri sono tanti. Oggi so come sono andate le cose, i sogni che si sono avverati, quali no, com’è cambiata la mia vita, rispetto ai programmi giovanili. Tutto sommato devo dire, che il mio bilancio è positivo, se lo paragonassi ai pensieri di quel lontano giorno, sul ponte della nave.

Al porto di Napoli ci aspetta Emilia, un’amica d’infanzia di Iris. Tra loro si riconoscono a fatica, dopo tanti anni di separazione, con in mezzo una guerra e tante vicissitudini. Lei, tra l’altro, ha recentemente perso il marito, per un banale errore di un farmacista, che lo ha avvelenato, sbagliando una prescrizione medica. E’ sconcertante per me vedere questa signora parlare dei suoi guai grossi, con il sorriso sulle labbra, con un’ironia da commedia, quasi non parlasse di sé. Ci racconta della sua vita di partigiana, di quando per scappare dall’inseguimento dei tedeschi, fanno calare il sipario antifuoco del teatro San Carlo, eccetera. Io ascolto, entusiasta di tutto: della parlata napoletana, l’allegria delle strade, la dignitosa povertà dell’epoca, le uniformi dei Carabinieri, i canti in sottofondo, la comunicabilità della gente, che si chiama e si cerca. E’ tutta una poesia. Ero stato preparato dai racconti della mamma, ma la realtà supera ogni immaginazione. Passiamo a Napoli due giorni, ma sembrano solo poche ore. Purtroppo il nostro programma non prevede di più, siamo diretti a Milano, che è la nostra meta principale.

Qua prendiamo contatto con quella che sarà la mia “guardiana” e con quello che sarà, per diversi anni, il mio mondo, ma di ciò dirò altrove, più avanti. La mamma e Lucio tornano ad Alessandria e subito dopo, scoppia la guerra dei sei giorni, tra Israele e l’Egitto. Le notizie che mi giungono non sono certo belle. Da Alessandria ogni comunicazione è chiusa. Io sono da solo in Italia, a diciannove anni, senza nessun’esperienza di vita, con pochi soldi. Per fortuna mi segnalano la presenza di un ingegnere, amico di mio padre, che con la famiglia vive a Milano. Queste persone si rivelano degli angeli custodi per me, dandomi tutta l’assistenza morale e materiale possibile. Con loro mi sento a casa mia. Sono sempre da loro, con i loro due figli della mia stessa generazione.

Un anno dopo il loro rientro ad Alessandria, Lucio e la mamma ritornano a Milano, per stare definitivamente con me. Mio padre ci raggiungerà dopo un altro anno, il tempo necessario ai preparativi, per il definitivo abbandono dell’Egitto (mi consta che la “Sacra Famiglia” ci abbia messo meno). Lucio è ancora piccolo e chiede alla mamma se, essendo tanto tempo che non mi vede, debba darmi del “lei” o può ancora darmi del tu.

Nel frattempo io ho un’audizione con il maestro Pietro Montani di Casa Ricordi, il quale dopo i complimenti, mi comunica la prima doccia fredda. Gli studi da me portati avanti, pur avendo passato l’ultimo esame con Francis Poulenc, non sono parificati con l’Italia. Ergo, devo sottopormi nuovamente a tutti gli esami, lasciando intercorrere un tempo prestabilito tra uno e l’altro. Insomma, io, che ho già in repertorio il Concerto per pianoforte ed orchestra di Listz, dovrei perdere circa cinque preziosi anni di parcheggio, per l’esame del quinto corso, solfeggio, ottavo anno, eccetera. Il colpo psicologico è grosso. Per farmi consolare, vado a trovare un famoso concertista del passato, con una lettera di presentazione del Professore Domenico De Polis, mio insegnante di Storia della musica. Questo ex-grande lavora all’archivio di Casa Ricordi. E’ un signore molto anziano, piccoletto, veste in maniera molto dimessa e porta le classiche maniche nere dell’archivista. In un attimo vedo il mio futuro con pessimismo. Se perdessi i cinque anni preventivati, se riuscissi a diventare un concertista famoso, come pare che questo signore fosse, la mia vita futura è di fare al massimo l’archivista in Casa Ricordi ? E tutti i miei sogni ? Dopo un breve colloquio con l’ex-concertista, scappo a casa dell’ingegnere, amico di mio padre. Il mio problema è grandissimo: cosa posso fare nella vita ? Salvo qualche consiglio, devo decidere da solo.

Qua l’Ingegnere mi spiega quali siano le possibilità di lavoro, che offrono gli studi tecnici . Mi spiega con molta convinzione, il fascino di questo settore e la relativa brevità di giungere alla autosufficienza economica. In poche parole l’Ingegnere mi fa capire, che anche se i sogni di diventare concertista si sono dissolti, occorre programmarsi nuovamente e qualcosa di buono verrà fuori. Quindi io devo dare un grosso colpo di spugna e ricominciamo tutto da capo.

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