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Il periodo "francese" a Pistoia (1796-1814)  
O Roma o morte! Garibaldi e le giornate “pistoiesi” del 1867.
Il “Biennio rosso” - 1919-1920 a Pistoia  
La " marcia su Roma" dei fascisti pistoiesi 
Quei giorni dell’Armistizio a Pistoia (settembre 1943)
Formazioni partigiane ed eroi della Resistenza pistoiese (1943-1945)

Pistoiesi nella Battaglia del Senio (1944-1945)

Brasiliani a Pistoia (1944-1945)

Gli irriducibili fascisti pistoiesi della Valtellina (1944 -1945)

La “repubblica conciliare” pistoiese, prematura e discussa, ma “utile” anticipazione del “compromesso storico” (1968- 1969) 

Storia della CNA pistoiese in occasione del cinquantesimo anniversario della sua fondazione, 1953-2003.

 

Il periodo "francese" a Pistoia (1796-1814)

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"Adì 26 giugno 1796: passò il generale Bonaparte per la strada nova e capitò direttamente a Pistoia con una armata di quindicimila uomini e gran numero di ufiziali". La "strada nova" citata dall'anonimo cronista, era la "Modenese" che valica l'Appennino passando per l'Abetone e termina a Capostrada, alle porte di Pistoia. Inaugurata nel 1781 "con rabbia dei bolognesi e gelosia dei fiorentini" farà di Pistoia il passaggio preferito di commercianti e viaggiatori, ma anche, in periodi instabili, di ogni sorta di eserciti. Città portata per vocazione alla tranquillità, Pistoia era già salita alla ribalta europea una decina d'anni prima per gli echi del Sinodo diocesano del 1786 con cui il "giansenista" Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia e Prato, cercò senza successo di apportare riforme che riconducessero la Chiesa alle origini spirituali, appoggiato dall' "illuminista" e modernizzatore granduca Pietro Leopoldo. Ma torniamo a Napoleone che il 26 giugno 1796 passeggia in città ed ispeziona i suoi soldati accampati fuori Porta al Borgo, in procinto di dirigersi a Livorno per occuparne il porto ed inibirlo ai traffici inglesi. La Francia rivoluzionaria, animata dallo slancio liberatorio in nome della solidarietà fra nazioni sorelle, era ormai solo un ricordo, ma alcuni "democratici", come il poeta Filippo Pananti, di passaggio a Pistoia, ebbero vedendo sfilare l'Armée d'Italie, la percezione che, al di là delle intenzioni del Direttorio, si trattava comunque di una ventata d'aria nuova che in Italia avrebbe finito per sconvolgere gli antichi privilegi feudali ed ecclesiastici ed in Toscana il calmo progresso del riformismo leopoldino. Tuttavia prevalse la paura per eventuali intemperanze dei francesi, che formalmente non erano invasori perché il loro arrivo nella neutrale Toscana avveniva col forzato benestare del granduca Ferdinando III. Finita la parentesi "livornese" il presidente del Buon Governo granducale, Giuseppe Giusti, timoroso del "contagio francese" diede il via ad un persecutorio controllo politico al quale, ad esempio in Valdinievole, non sfuggirono l'economista ginevrino Sismondi ed il patriota pesciatino avv. Celestino Chiti la cui figlia Ester, per ironia della sorte, sposerà successivamente proprio il figlio di Giuseppe senior, Domenico Giusti, dai quali nascerà Giuseppe Giusti, il futuro poeta. Il secondo ritorno francese in Toscana nel 1799 fu indubbiamente più traumatico. A Pistoia l'Armée, già scesa dalla Modenese il 31 dicembre 1798 e nei giorni successivi per impadronirsi dello stato di Lucca, occupò la città il 30 marzo 1799 quando, per giungere in soccorso della Repubblica Partenopea, aveva ormai avviato anche l'invasione del Granducato. Ferdinando III fuggiva a Vienna mentre a Firenze il gen. Gaultier e l'ambasciatore Reinhard assumevano il comando militare e politico-civile. Ligi agli ordini del Direttorio, lasciarono piantare "alberi della libertà" e circolare coccarde tricolori, ma non diedero certo spazio alle istanze di concreto rinnovamento dei democratici locali. Ben presto la richiesta di imposizioni straordinarie alla Comunità civica pistoiese per il mantenimento dei soldati e le requisizioni di cavalli suscitarono tanto malumore che il 13 aprile, assente gran parte della guarnigione, si verificò un tumulto spontaneo di contadini convenuti in città per il mercato. Finì a pezzi l'Albero della Libertà piantato in Piazza del Duomo, fu rimesso il sigillo granducale a Palazzo Pretorio e occupata, armi alla mano, la Fortezza di Santa Barbara. Qualche "giacobino" ne uscì sonoramente bastonato. Per l'intervento pacificatore del vescovo Falchi Picchinesi e di altri benpensanti, timorosi della reazione francese, il tumulto si esaurì nella giornata. Il giorno seguente il delegato Kerner, comandante la guarnigione, istituì la Municipalità con a capo il patriota Aldobrando Paolini, già seguace del riformismo leopoldino e ricciano. Mentre veniva costituita la Guardia nazionale, il comandante della piazza, il "cisalpino" Peyri, catturava 23 promotori del tumulto. La neonata e zelante Municipalità indisse una festa patriottica per il 5 floreale (24 aprile), ma i "municipalisti" interessavano agli occupanti soprattutto come fidati intermediari per mantenere l'ordine pubblico ed assicurare frequenti e forti contribuzioni. Dopo altri tumulti a Serravalle, Borgo e Pescia (4 e 5 maggio), alcuni nobili ed ecclesiastici toscani , tra i quali i pistoiesi Rospigliosi, Tonti, Cellesi, Talenti e Trinci, erano deportati come ostaggi in Francia dalla quale tornarono nell'agosto del 1800. Ma i francesi sconfitti dagli austro-russi alla Trebbia (Napoleone era in Egitto) ed incalzati per gran parte della regione dalle bande aretine dell'inatteso e temibile moto sanfedista del Viva Maria, originato dal "binomio di fame e fede" (G. Turi), dovettero ritirarsi. Il 4 luglio 1799 il granduca Ferdinando III rientrò a Firenze e due giorni dopo le sue truppe entrarono in Pistoia dalla quale i francesi se ne erano andati non senza prima aver estorto altre pesanti contribuzioni. La città ne uscì stremata. Il Civinini, cronista pistoiese del periodo, scriveva: "vale ?il pane soldi cinque la libbra. Si campa in gran afflizione" e gli faceva eco un altro cronista, il Bonacchi, che affermava: "Le genti povere urlano la fame e il pane vale soldi 6 e denari 4 la libbra". L?Albero della Libertà viene bruciato ed la Statua della Libertà posta dai "giacobini" nella loggia del Palazzo civico viene sostituita da un altare, mentre nelle chiese pistoiesi si celebrano Te Deum di ringraziamento e si festeggia con un pranzo per 500 poveri. Cremani, nuovo commissario del Buon Governo granducale, si distingue nello "spurgo dei democratici dalla pubblica amministrazione" e nella schedatura dei "notati per giacobinismo". Tuttavia la repressione in Toscana, a parte il raccapricciante episodio del "pogrom" antiebraico scatenato a Siena dalle bande del Viva Maria, fu lontana dagli eccessi che caratterizzarono il ritorno di Ferdinando IV di Borbone a Napoli e che contribuirono in molti ambienti italiani a rendere nuovamente popolare la causa francese. Ad esempio a Pistoia molti dei catturati seguirono la sorte che il 26 agosto toccò al giovane barbiere "giacobino" Filippo Tozzelli, detto "il Rigaglia", condannato a 8 mesi e messo per un po?alla berlina fuori del tribunale: i Lorena non volevano fare né martiri, né eroi. Nel giugno del 1800 le sorti si rovesciano nuovamente: Napoleone, vince a Marengo ed in ottobre ritornano i francesi: questa volta a giungere a Pistoia sono le truppe cisalpine nelle cui file milita il capitano Ugo Foscolo. Il loro comandante, gen. Domenico Pino, ricostituisce subito la Municipalità con a capo Paolini, appena liberato dal carcere granducale, mentre a Pescia il 24 riprende i suoi incarichi il patriota Chiti. Ricomincia però anche la richiesta di pesanti esazioni: cosa accadeva a chi non pagava? Ad esempio, come ricorda il Bonacchi, il 27 ottobre a Carlo Fabroni che "non volle pagare una contribuzione, l'anno [sic] serrato in casa con le sentinelle al palazzo a sue spese fino a quel tanto che non avrà pagato." Lo stesso giorno alla fattoria Smilea di Montale avveniva un tumulto contro i francesi per una requisizione di cavalli. Sono tempi di carestia che tocca l'apice nel primo semestre del 1801. Le disposizioni del plenipotenziario Petiet erano volte alla non ingerenza negli affari interni toscani, pertanto i Quadrumviri, che ancora formalmente reggevano lo stato in nome di Ferdinando III, cercarono di sciogliere la Municipalità pistoiese. Paolini rispose ricostituendo la Guardia Nazionale e resistette a queste pressioni anche grazie alla sostituzione, da parte del gen. Miollis, dei "Quadrumviri" con i "Triumviri", "patrioti moderatissimi". Il pistoiese divenne poi anche capo del Buon Governo toscano. Ma lo scenario sarebbe di nuovo mutato con la pace di Luneville fra Francia e Austria che, pur lasciando la Toscana nell'orbita francese, la trasformava nel 1801 in Regno d'Etruria. Sul piano pratico fu una sostanziale riedizione del granducato con Lodovico I di Borbone Parma al posto dei Lorena. I francesi, tramite il gen. Murat, se ne fecero garanti: sciolsero le municipalità e, nell'attesa dell'arrivo del sovrano, richiamarono i Quadrumviri licenziando il Paolini da presidente del Buon Governo. Pistoia ebbe come Gonfaloniere il nobile Francesco Talini; seguirono sei anni tranquilli e una certa ripresa produttiva per cui il cronista poteva annotare nel 1804: "Si gode finalmente di un vivere migliore: il pane si paga tre soldi la libbra?". Del periodo si ricordano soprattutto due avvenimenti: la visita della Reggente Maria Luisa ed il passaggio del papa Pio VII (8 nov. 1804) diretto a Parigi per l'incoronazione imperiale di Napoleone. In seguito al trattato di Fontenbleau la Toscana venne annessa nel 1808 all'Impero Francese come Governatorato retto da una Giunta con a capo Cesare Balbo sostituito nel 1809 da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone. Il Governatorato fu, alla maniera accentratrice francese, diviso in tre Dipartimenti comandati da un Prefetto a loro volta suddivisi in Circondari comandati da un Sottoprefetto che nominava i Maires delle varie località sotto la sua giurisdizione. Dal Circondario di Pistoia, un territorio pressoché equivalente a quello della Diocesi di Pistoia-Prato, dipendevano 18 Mairies: Pistoia stessa, le 4 Cortine pistoiesi, Prato, Monsummano, ecc. Scorrendo i cognomi dei Maires pistoiesi (Rospigliosi, Tolomei, Cellesi, Tonti, Marchetti, Sozzifanti) si nota come ora i Sottoprefetti puntassero piuttosto sul nobilato locale che sui democratici filofrancesi. In città continuò il clima di stabilità politica e istituzionale contrassegnato da una ripresa dei lavori pubblici e da un certo sviluppo economico che non poté però dispiegarsi pienamente per le conseguenze del blocco continentale. La funzionalità delle nuove norme (codici napoleonici, stato civile, catasto geometrico-particellare, ecc.) produsse la modernizzazione della pubblica amministrazione e della società e creò le premesse per un diffuso consenso. Tuttavia i francesi, (popolarmente definiti "nuvoloni" dalla pronuncia, nuvolon, delle prime parole, Nous voulons, dei loro avvisi) introdussero anche misure che colpirono la religiosità popolare quali il matrimonio civile, la soppressione degli ordini religiosi e la svendita dei loro beni, quasi tutti accaparrati dal notabilato locale. In particolare impressionò l'invasione napoleonica dello Stato Pontificio e la deportazione in Francia del papa Pio VII. La misura senz'altro più impopolare fu comunque l'introduzione della leva obbligatoria, necessaria per un esercito moderno e sovente impegnato come quello francese, che portò "alla desolazione delle famiglie" pistoiesi anche perché era possibile finire coinvolti nella guerra di Russia e non tornare più. L'arruolamento avveniva per sorteggio, ai prescelti era consentito di esser sostituiti pagando adeguatamente un altro giovane: numerosi furono i renitenti ed i disertori, specie fra i ceti popolari. Col tramonto di Napoleone si concluse nel 1814 l'esperienza "francese", ma per Pistoia e la Toscana la restaurazione non significò, come in altre parti d?Italia, un violento ritorno al passato. Tornarono precedenti ordinamenti, ma furono anche mantenute alcune innovazioni del regime napoleonico (sistema ipotecario, codice di commercio, stato civile, pubblicità dei giudizi, ecc.) che favorirono il successivo evolversi politico-civile della società sotto il governo saggio e tollerante di Leopoldo II.

Carlo Onofrio Gori

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O Roma o morte! Garibaldi e le giornate “pistoiesi” del 1867. 

Alcuni garibaldini pistoiesi

Il legame tra Garibaldi e la  Toscana è stato recentemente riproposto e ben documentato dal libro di Francesco Asso, Itinerari garibaldini in Toscana e dintorni 1848-1867 edito dalla Regione nella collana "Toscana Beni Culturali”. Dal primo incontro con la Toscana a Livorno il 25 ottobre 1848 dove, reduce dalla Prima Guerra d'Indipendenza, sbarca con Anita e ad altri settantadue seguaci, alla vicende successive alla caduta della Repubblica Romana, dalla Spedizione dei Mille ai tentativi della liberazione di Roma, c'è sempre un passaggio dell'Eroe  in questa terra.

Il libro citando ben 117 luoghi ripercorre la storia di questo rapporto in otto itinerari punteggiati da 253 epigrafi che rappresentano un patrimonio di memoria che, sostenuto da una narrazione intensa,  intende valorizzare, mettendo in rilievo non solo la partecipazione alle vicende risorgimentali delle città, ma anche dei piccoli paesi.

Anche a Pistoia una lapide posta  all’altezza del n. 40 nella centralissima via della Madonna ci rammenta che il: “XIV Luglio MDCCCLXVII Giuseppe Garibaldi qui fu ospitato, di qui parlò al popolo plaudente fatidiche ed amorose parole mallevando prossima la liberazione di Roma. Sciogliendo il voto del popolo pistoiese, a perfetta memoria del fatto, la famiglia dell’avv. Giuseppe Gargini  QLP II Luglio MDCCCLXXXII”.

Tuttavia i rapporti fra Pistoia (città che già aveva dato il suo tributo di volontari alla Prima ed alla Seconda Guerra d’Indipendenza) e Garibaldi risalivano a ben prima: ad esempio si annovera fra i Mille un pistoiese, il quarantatreenne Pietro Beccarelli da Saturnana, località collinare appartenente all’allora municipio di Porta al Borgo che oggi è un rione del Comune di Pistoia.

Com’è noto le navi garibaldine “Piemonte” e “Lombardo” nel viaggio verso Marsala fecero sosta per rifornimenti presso il forte di  Talamone e  Beccarelli, uno dei tanti pistoiesi che in quei tempi, secondo una consuetudine protrattasi anche nel Novecento fin quasi alle soglie del boom economico dei primi anni Sessanta, si recavano in Maremma a far carbone, ebbe l’occasione di unirsi alle Camicie Rosse. Il pistoiese infatti figura al n. 77 della lista ufficiale dei “Mille” (1089), fornita dal Ministero della Guerra e pubblicata nel 1864 dal “Giornale militare”, come: “Beccarelli Pietro di Emanuele, nato a Porta al Borgo nel 1822, morto il 14 agosto 1871”. Il noto garibaldino toscano Giuseppe Bandi, di  Gavorrano, fondatore de “Il Telegrafo” di Livorno, nella sua storia de I Mille, giudicato da  Benedetto Croce il libro più riuscito nella folta memorialistica sulle Camicie Rosse, descrisse il modo curioso col quale si arruolò Beccarelli: “…mentre aspettavo una barca che mi portasse a bordo, ecco accostarmisi un pover'uomo, tutto cenci e smunto come il Battista nel deserto, che mi dice: - Sor uffiziale mi dia qualcosa per su' carità. - Come! Chiedi la carità a me che ho già fatto testamento e mi son fatto ungere ... ?  - Che vuole? Le febbri m'hanno strutto e non si trova da lavorare. Creda in Dio che ho fame, e non ho un picciolo in tasca. Son venuto da Orbetello stamani, e non ho trovato da sdigiunarmi… - Hai moglie, hai figlioli ? - Né figlioli, né moglie. - Allora, caro mio, morire per morire, l'è meglio morir da bravo con noi, che crepar di fame. Almeno ti metteranno in musica. Hai tu paura delle palle? Il Maremmano fe' cenno che no. - Allora - soggiunsi - monta meco su questa barca, e da ora in poi sarai soldato di Garibaldi. - Viva Garibaldi sempre ! - esclamò il disgraziato, non più disgraziato e mi seguì.  Si chiamava Becarelli, da Saturnana nel pistoiese, ed era bracciante”. (1)

Carlo Paiotti,  un compianto cultore di storie pistoiesi che citò questo brano del tenente Bandi in una vecchia pubblicazione per il  Centenario dell’Unità d’Italia,  scrisse anche, ammettendo però di non saperne molto di più, delle presenza di un altro pistoiese fra i Mille, che al n. 722 della lista del suddetto “Giornale militare” viene così rammentato: “Palmieri Palmiro di Fortunato, nato a Montalcino il 2 marzo 1841, morto in Orbetello il 3 aprile 1871”. Su questo garibaldino, presunto pistoiese, anche noi di più non sappiamo.

Quel che è certo invece è che dopo Beccarelli, a più riprese, altri 250 pistoiesi avrebbero raggiunto Garibaldi nella Campagna Meridionale. Fra questi Giuseppe Civinini (1835-1871), giornalista, poi direttore de “La Nazione” di Firenze e politico noto a livello nazionale, che si distinse per competenza e correttezza nell'intendenza delle Camicie Rosse tanto che da allora divenne e fu per lungo tempo segretario del Generale. Infatti il giovane pistoiese seguì poi l’Eroe nel 1862 sull'Aspromonte, ne condivise la prigionia al Varignano,  l'esilio a Caprera e fu di nuovo vicino a lui, nel pieno della mischia, a Bezzecca nel 1866 (2). Oltre ai due citati, altri pistoiesi tra i quali Giuseppe e  Raffaello Becherucci, Olimpio Banci, Torello Orlandini, Luigi, Gianni, Ettore Regoli, Giuseppe Tesi, Aristide Turi, Pilade Fabroni, si distingueranno nel corso degli anni durante le diverse fasi dell’ epopea garibaldina. (3)   Infine un famoso ufficiale dell’Eroe, il colonnello Stefano Dunyov (1816-1889), ungherese di origine bulgara, diverrà cittadino pistoiese d'adozione dal 1872 ed alcune  epigrafi  poste all'altezza della sua abitazione in  via Verdi n. 19 dalla municipalità e dai due Stati, ne commemorano le gesta.

Ma torniamo a quel 1867 che resterà per lungo tempo vivo nel ricordo dei pistoiesi. In seguito alle elezioni del marzo di quell’anno, a Firenze (capitale dal settembre 1864) era stato rieletto il parlamento ed il capo del nuovo governo, Rattazzi, subentrato a Ricasoli, confidando nell'intenzione già manifestata da Napoleone III di non intervenire nella questione romana, qualora nella città fosse scoppiata una rivoluzione, sembrava obiettivamente incoraggiare Garibaldi ad una spedizione per la presa di Roma, meta agognata dei patrioti e dei democratici dopo che anche il Veneto si era unito all’Italia in seguito alla guerra del 1866.

A Pistoia nel 1867 la vita politico-amministrativa, complice anche un  suffragio elettorale ancora appannaggio di pochi istruiti ed abbienti, sembrava ormai egemonizzata dai moderati tanto che lo stesso Civinini, faticosamente eletto al parlamento nel 1865 per  la sinistra,  era stato ora clamorosamente rieletto nelle file della destra ricasoliana.

I democratici pistoiesi (garibaldini, mazziniani e qualcuno definito “anarchico”, tutti strettamente sorvegliati da sottoprefetto e polizia) vedevano nell’ambita visita del Generale alla città anche un'occasione per serrare le file e per una rivalsa, sia nei confronti dei “paolotti” filopapalini,  sia verso i liberalmoderati, i cosiddetti “malvoni” (dagli effetti emollienti della pianta), patriottici ed anticlericali, ma sempre e comunque filogovernativi. (4)

L’occasione sembrò presentarsi quando  Garibaldi giunse a fine giugno alla Grotta Giusti di Monsummano, ufficialmente per curare la sua vecchia artrite, ma molto probabilmente, data la vicinanza della capitale ed essendo la Toscana un  punto strategico per la progettata spedizione romana, anche per una serie di contatti politico-organizzativi, che possiamo intuire, data l’ovvia segretezza della questione, attivati soprattutto da suoi emissari e rivolti in più direzioni ed a vari livelli.  Rattazzi infatti, pur fra molte ambiguità, dava sempre più l'impressione di esser pronto ad utilizzare le manovre della Sinistra tendenti a suscitare un'insurrezione a Roma; successivamente, appena i garibaldini fossero entrati nello Stato Pontificio, con la scusa di riportare l'ordine, avrebbe mosso le truppe regolari per occupare il Lazio. Rimaneva tuttavia sempre l'incognita dell'atteggiamento dell’imperatore francese Napoleone III: avrebbe veramente mantenuto la vecchia promessa di non intervenire in caso di rivoluzione romana, stretto com'era fra le pressioni di un'opinione pubblica clericaleggiante e gli impegni personali contratti con Pio IX? Pertanto il controllo del governo Rattazzi sui democratici, teso ad impedire incontrollate “fughe in avanti” era in quei giorni strettissimo. Infatti di lì a poco  non dovette sfuggire alle autorità governative la visita di 150 garibaldini pistoiesi guidati da Francesco Franchini e Giuseppe Gargini, che con banda musicale al seguito, si erano mossi verso Monsummano per rendere omaggio al Generale che, da parte sua,  promise senz’altro una sua imminente visita alla città. Terminate le cure, il 1 luglio Garibaldi venne ospitato in quel di Vinci dai suoi vecchi amici fratelli Martelli e dal borgo leonardiano avvertì l'avvocato Gargini che, avendo anche l’intenzione di rendere omaggio alla tomba di Francesco Ferrucci a Gavinana, sarebbe stato suo ospite a Pistoia il 14 e il 15 luglio.

L’8 luglio il Generale fu a Pescia e così parlò alla folla: “Sono molto commosso della cara dimostrazione che la gentile e simpatica gente toscana mi fa. Voi, popolo toscano, avete fatto molto per l'Italia, più di quanto alcuni del popolo credono. Avete il Pantheon di Santa Croce, ove si rinchiude la maggior parte degli uomini più prodi che abbia avuto l'Italia; le vostre sublimi memorie e il vostro gentile idioma hanno molto contribuito alle altre province italiane. E' stato fatto molto, ma l'Italia non è ancora completa ; ciò vuol dire che le manca qualche cosa, e questo qualche cosa è Roma”. Un grido “O Roma o morte” interruppe Garibaldi, che continuò : “Sento una voce, uscita dai ranghi del popolo, che ha fatto palpitare l'animo mio. Sì, Roma è stata sempre il mio pensiero. Andiamo là e presto. Assicuratevi pure che senza Roma non vi sarà quiete, né prosperità, né sicurezza, in Italia possibile ! Addio !” .  (5 )

In una calda domenica di pochi giorni dopo, il 14 di luglio, ricorrenza significativa per tutti i progressisti, Garibaldi mantenne la promessa fatta ai pistoiesi e fu calorosamente salutato al suo arrivo alle 11,30 alla stazione, da una moltitudine entusiasta che, fra le vie della città imbandierata a festa, lo accompagnò alla casa del Gargini. Affacciandosi ad una finestra rivolse poi un breve, ma appassionato indirizzo di saluto alla folla sottostante che successivamente sarà così riportato dalla stampa locale: “Cittadini! Queste manifestazioni so che voi non le dirigete all’individuo, ma al principio; esse mi fanno conoscere che la causa del nostro Paese va avanti. - Di prepotenze l’Italiani non ne vogliono; e voi me lo avete manifestato con la vostra dimostrazione di oggi. - Se il patriottismo di Pistoia avrà seguito come spero anche nelle altra Città d’Italia, compiremo l’Unità della Patria. - Con uomini come voi, ogni impresa diventa facile - L’Italia la vogliamo, e la vogliamo a dispetto dei nemici interni, e di qualunque despota straniero - L’impeto di una Popolazione trionfa di tutto (Una voce grida Roma o morte) Si, a Marsala io lo ho detto per primo: o Roma o morte, ora dobbiamo dire Roma e vita, si dobbiamo dire Roma e vita, perché l’Italiani devono andare a Roma come a casa loro (Una chiesa in vicinanza suona le campane, e delle voci della folla gridano che sono i Paolotti che fanno suonare.) Di campane ne va lasciata una per segnare le ore, e del resto ne faremo tanti soldi, e se occorrerà tanti cannoni (Una voce della folla grida Viva il Martire d’Aspromonte) Io non sono Martire, il poco che ho fatto e sofferto non lo cambierei con qualunque Impero - però la palla che mi colpì al piede, non mi poteva uccidere, perché quella che mi ucciderà dovrà colpirmi a cuore. - Sebbene vecchio, spero che sarò con voi a Roma - Addio”. (6) 

La giornata si chiuse con un affollatissimo meeting all’Arena Matteini dove Garibaldi con accanto il Gargini con la consorte Marietta, il Franchini e padre Gavazzi, assistette ad una rappresentazione teatrale,  mentre negli intervalli l'attore Lollio declamò alcuni versi, composti in onore del Generale dalla signora Giulia Civinini Arrighi, sorella del suo ex-segretario on. Civinini, ormai definitivamente approdato ad altra sponda politica come confermò  la sua significativa assenza.

Alle nove, allora erano quelli i ritmi della vita, tutto finì ed una banda musicale scortò l’Eroe fino a casa Gargini che nella notte sarebbe stata sorvegliata da una guardia d’onore di venti garibaldini. Prima di addormentarsi il Generale ricevette l’omaggio floreale di alcune signore che contraccambiò col dono di una foto con dedica.

Alle cinque del mattino successivo Garibaldi in compagnia  del Gargini, di padre Gavazzi, di Lucio Roda, Sandro Gherardini, Beppe Becherucci e qualche altro salì verso Gavinana  ed in ogni paese incontrato lungo il viaggio ricevetti doni e calorosi festeggiamenti. Al termine del patriottico pellegrinaggio a Gavinana il Generale si fece promotore di una sottoscrizione perché ivi venisse eretto un monumento a Ferrucci. La bella e significativa giornata fu però inopinatamente rovinata perché qualcuno durante il ritorno rubò il poncho al quale Garibaldi, fin dalle sue imprese americane, teneva così  tanto che, “quasi ne pianse”. (7 )

Alle 5,30 del mattino successivo, Garibaldi accompagnato a Porta Lucchese, ripartì per Vinci salutato da una banda musicale e dai fedelissimi inneggianti alla presa di Roma. Il Generale non poteva immaginare che, suo malgrado, appena due mesi dopo, il 24 settembre,  avrebbe di nuovo fatto sosta a Pistoia nella stazione ferroviaria, allora punto nevralgico nel movimento fra Nord e Sud Italia, dopo che il governo, impaurito dall’ atteggiamento di Napoleone III, lo aveva “scaricato” e fatto arrestare a Sinalunga nei pressi del confine pontificio. In quel frangente i garibaldini ed i democratici pistoiesi tentavano inutilmente di liberare il Generale, destinato ad esser tradotto al famigerato carcere di Alessandria, dando poi vita a tumulti protrattisi in città fino al giorno 26. Ma di queste tre vibranti giornate, del ruolo svolto da Pistoia nel diffondere nel Paese la notizia dell’arresto, come dei sessantasei pistoiesi  che di lì a poco, il 20 ottobre, sarebbero stati di nuovo vicini a Garibaldi nella sfortunata impresa di Mentana, speriamo di avere l’opportunità di parlarne più diffusamente in un prossimo articolo. (8)

Carlo Onofrio Gori

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1)   Cit. in C. Paiotti, Due garibaldini pistoiesi fra i Mille, in “Guidanuova” ,  pp. 96-98. 

2)   Cfr. C.O. Gori: Giuseppe Civinini. Profilo di un garibaldino pistoiese, in “Camicia rossa”, a. 22, n. 2 (mag./lug. 2002), pp.15-16

3)   Cfr. Garibaldi a Pistoia. Mito, fortuna, realtà, Pistoia, Comune di Pistoia, 1982.

4)   Cfr. G. Petracchi, Mito e realtà di Garibaldi in una città di Provincia. Pistoia 1859-1904, in Garibaldi a Pistoia...cit., pp. 12-53.

5)   Cit. in E. Bartolini, Giuseppe Garibaldi e la sua visita a Pescia, in “Guidanuova” ,  pp. 105-109

6)   Garibaldi a Pistoia. 14 luglio 1867,  in “Il Progresso”, a. 1, (11 giu. 1882).

7)   Garibaldi e Pistoia, n.u., Pistoia (17 lug. 1904), p. 7.

8)   Altri pistoiesi sarebbero poi  stati ancora col Generale con l'armata dei Vosgi a Digione nel 1871. Sulle vicende del monumento pistoiese a Garibaldi cfr.: C.O. Gori,  Pistoia e Garibaldi: storia di un “tormentato” monumento equestre, in “Camicia rossa”, a. 22, n. 4 (nov. 2002/gen. 2003), pp.28-29. Su un noto pistoiese ammiratore di Garibaldi, cfr.: C.O. Gori, Policarpo Petrocchi ammiratore di Garibaldi. Profilo di un letterato pistoiese autore del Novo dizionario universale della lingua italiana, in “Camicia rossa”, a. 23, n.2/3 (mag./ott. 2003), pp. 29-30

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Il “Biennio rosso” - 1919-1920 a Pistoia

 

"OPERAI!! "Su fratelli, su compagni, Su venite in fitte schiere, Al DUILIO c’è il Calmiere , che il risparmio vi darà." Il Vero Calmiere è l’EMPORIO DUILIO PISTOIA - FRATELLI LAVARINI - PISTOIA Porta Vecchia - Sotto la Torre - Centro della Città" Questa pubblicità, ammiccando all’Inno dei lavoratori, campeggiava nei primi mesi del 1919 in quarta di copertina di due giornali cittadini Il Popolo pistoiese, liberale, e la cattolica Difesa del popolo, in realtà la pubblicità Lavarini compariva anche sul socialista Avvenire, ma in forma opportunamente diversa. Il grande Emporio Lavarini, sovrastato dalla torre della Porta Vecchia trasformata in stile liberty nel 1899 da Giacomo Lavarini, era all’angolo fra via degli Orafi e l’odierna via Buozzi, oggi al suo posto c’è una profumeria. Il proprietario Antonio forse non pensava che dopo pochi mesi dopo, il 4 luglio, nel corso dello sciopero generale contro il carovita i lavoratori sarebbero entrati davvero in "fitte schiere" nell’emporio, la merce asportata, rubata, gettata alla rinfusa per la strada, la casa sovrastante perquisita. Evidentemente, in attesa degli effetti del vero calmiere ottenuto dalle agitazioni di quei giorni, il "calmiere-Lavarini" non aveva soddisfatto le categorie a reddito fisso, le più colpite dalla svalutazione della lira e dall’aumento dei costo della vita seguite alla ristrutturazione economica post-bellica. I saccheggi dei negozi del Lavarini (che poi aderirà al fascismo) e del Galigani, furono tuttavia gli unici che si ebbero in città. Erano stati presi di mira perché non si erano cautelati, come avevano fatto altri esercenti, portando le chiavi alla Camera del Lavoro, che praticamente aveva assunto il potere, ed erano quindi privi del relativo cartellino di riconoscimento. In effetti il cosidetto "biennio rosso", dai moti contro il caro-viveri della primavera del 1919 all’occupazione delle fabbriche del 1920, per estensione geografica e per il coinvolgimento di tutte le classi sociali, per la profonda volontà di cambiamento, rappresenta indubbiamente uno dei momenti di più alta tensione sociale che si siano avuti in Italia. Le masse, letteralmente affamate ed esasperate contro gli speculatori, occupano prepotentemente non solo i negozi, le fabbriche ed i campi, ma anche la scena politica, anche se ciò non si tradurrà poi in effettiva presa del potere. A Pistoia, come nel resto d’Italia, questo elemento di novità sarà sancito dalle elezioni politiche del novembre, le prime a suffragio universale maschile e col sistema proporzionale, che vedranno trionfare i socialisti seguiti dai cattolici del neonato Partito Popolare Italiano, tali risultati verranno confermati dai socialisti pistoiesi, con la conquista della maggioranza assoluta, nelle elezioni amministrative dell' ottobre 1920. Di tutto ciò si hanno vari echi sulla stampa locale. L’Avvenire, organo socialista settimanale del Circondario di Pistoia (7.7. 1901-22.7.1922, resp. Ugo Trinci, poi Pietro Querci) rispecchia negli articoli e nelle prese di posizione sugli avvenimenti, le divisioni del Partito Socialista che, pur esaltando la rivoluzione ("fare come in Russia" era lo slogan più gridato) e sostenendo le agitazioni e gli scioperi, non riuscirà a darsi obiettivi politici intermedi, a creare decisive alleanze, né in senso riformista, né in senso rivoluzionario, con i mezzadri e i contadini, fortemente influenzati dai cattolici, e con le classi intermedie (maestri e impiegati, piccoli commercianti, reduci, ecc.). A Pistoia, finiva per prevalere la corrente massimalista, spesso verbale e inconcludente, che auspicava la dittatura proletaria, deterministicamente immancabile, e che vedeva, ad esempio, nelle elezioni soltanto "un mezzo per agitare le masse, per elevarne la temperatura rivoluzionaria" (L'Avvenire 25.10.1919). Seguivano la corrente comunista astensionista, particolarmente forte nella sezione di Capostrada e fra i giovani socialisti, i comunisti ordinovisti, attivi a San Marcello sotto la guida di Savonarola Signori, poi dirigente del PCI, mentre la Camera del Lavoro, guidata da Alberto Argentieri, era la roccaforte dei riformisti rimasti nel partito e costretti sovente mimetizzarsi con un linguaggio massimalista. Pungolava "da sinistra" L'Avvenire, il periodico anarchico Iconoclasta! (23.4.1919-1.1.1920, resp. Gino Silvestri, poi Agostino Puccini) che sui fatti del 4 luglio uscì con un articolo dal titolo significativo "Esaltiamo la teppa" (Iconoclasta! 24.20.1919). La voce del mondo cattolico era la Difesa religiosa e sociale ( 2.2.1896 - 27.12.1919, resp. Michele Regolini) e sostituita dal 15 gennaio 1920 da La Bandiera del popolo (chiusa nel 1925) già supplemento del precedente, espressione del Partito Popolare entrato ufficialmente nella vita politica anche per contendere ai socialisti il consenso delle masse. La storiografia ha spesso criticato l’anticlericalismo dei socialisti, ma occorre ricordare che uno dei motivi ricorrenti dei giornali cattolici era il viscerale antibolscevismo. La stampa cattolica contando sulla rete delle parrocchie e sul sostegno delle casse rurali, si rivolge essenzialmente ai contadini ed alla piccola borghesia nella difesa dei tradizionali valori cattolici, famiglia, religione e nella richiesta di moderate riforme sociali ispirate al principio della collaborazione fra capitale e lavoro. Evidenti le contraddizioni fra l’anima conservatrice del partito e quella popolare. Ad esempio a proposito del sindacalista cattolico cremonese Guido Miglioli, a volte presente a Pistoia in questo periodo, i "conservatori" puntano l'indice contro "…l’eccesso del rivoluzionarismo tendente ad ottenere il predominio di una classe a discapito dei diritti di tutte le altre, che l’on. Miglioli co’ suoi scarsi seguaci sembra essersi preso l’arduo incarico di tenere a battesimo" ("Difesa" 21.6.1919), mentre i "popolari" scrivono "… le idee dell’on. Miglioli in fatto di riforme agrarie, così malamente e moncamente riferite dalla stampa, enunziate dalla sua voce e svolte nel suo ragionamento appariscono lucide e chiare se pure talvolta di concezione ardita. E sopra tutto impressiona lo spirito intimamente cristiano al quale egli informa il suo dire…" ("Bandiera" 15.1.1920). Alle elezioni del 1919 si ridimensionano fin quasi a sparire, sintomo della crisi profonda del vecchio sistema politico fondato sul prestigio personale, sui comitati elettorali e sulle pratiche clientelari, i liberal-conservatori e i democratico-borghesi, che, non a caso, erano state le forze più nettamente interventiste. I democratici (repubblicani, socialisti riformisti, massoni, Fratellanza artigiana) pubblicavano la Voce del popolo, organo della democrazia pistoiese (17.5.1919-15.11.1919, direttore Filippo Civinini); anticlericalismo e antibolscevismo erano i leit motiv del giornale, sorto in vista delle elezioni del 19191 nelle quali i democratici finirono per perdere il tradizionale ruolo risorgimentale di punto contatto fra borghesia progressista e masse popolari. Il Popolo pistoiese (18.6. 1881 - 24.12.1926, resp. nel 1919 Carlo Susini ) era la voce del Partito Liberale, una forza rappresentativa della proprietà terriera conservatrice che fin dal 1860 fino al 1919, a volte alleandosi con la destra cattolica, domina la scena politica locale. Nel 1919 viene eletto in queste file il giovane e brillante proprietario terriero ex-combattente avv. Dino Philipson, il cui nome era curiosamente storpiato dai popolani in "Filìssone", che sarà poi uno dei fondatori del fascismo pistoiese. Questo non a caso, poiché di fronte ai moti popolari alle agitazioni contadine all’occupazione delle fabbriche, già nel 1919-20 nel pistoiese, si incominciano a formare in ambiente monarchico-liberale, sotto l’impulso di agrari e industriali locali, "fasci" di "forze d’ordine" che raccoglieranno adesioni di forze socialmente e politicamente eterogenee, noto il caso del transfuga socialista Ildebrando Targioni più volte ospitato sulle colonne del "Popolo", comunque di estrazione interventista, unite nella lotta al "disordine" ed al bolscevismo. Andranno a costituire la base di massa del fascismo, che, ricordiamolo, nel 1919 a livello nazionale aveva ottenuto solo poche migliaia di voti.

Carlo Onofrio Gori

 

Il fascismo pistoiese pur non riuscendo ad esprimere nel tempo, per varie ragioni, un "uomo forte" (1) ebbe probabilmente, più di quanto si sia pensato finora, un ruolo rilevante durante gli avvenimenti della "marcia su Roma" acquisendo meriti che in seguito pesarono forse nella decisione di Mussolini di elevare il Circondario pistoiese a Provincia. Sarebbe utile in tal senso un approfondimento in sede storica, risulta comunque evidente che Pistoia, terminale toscano della ferrovia Porrettana (la "Direttissima" Firenze-Bologna verrà costruita solo più tardi negli anni Trenta), aveva nel 1922 una posizione strategica nelle comunicazioni tra il Nord e il Centro Italia e che il controllo della stazione ferroviaria da parte degli squadristi pistoiesi nelle giornate tra il 26 ed il 29 ottobre 1922, permise di coprire le spalle alle colonne fasciste che marciavano su Roma, mettendole al sicuro da possibili sgradite sorprese soprattutto nei primi incerti momenti della proclamazione stato d'assedio. Il fascismo pistoiese giunse all’appuntamento della "marcia su Roma" dopo un percorso iniziato ufficialmente solo il 22 gennaio 1921 sotto la guida di Nereo Nesi. Tuttavia già durante le agitazioni operaie e contadine del "biennio rosso" 1919-1920, un liberale, Dino Philipson, giovane e ricco proprietario terriero, aveva avuto parte decisiva nella genesi del fascismo locale (2). Philipson, pur finanziando il movimento e rivendicando poi esperienze squadristiche, non fu tuttavia un fascista in senso vero e proprio (successivamente passerà addirittura all’antifascismo). Il suo vero scopo era quello di servirsi delle squadre fasciste per stroncare il movimento operaio e contadino per poi, in un secondo tempo, ricondurre il fascismo nell’alveo della legalità. A tal fine nel marzo-aprile 1922 ispirò la nascita dell’Unione Democratica Pistoiese privando così il fascio pistoiese dell’apporto diretto di quegli esponenti del notabilato agrario e conservatore che in varie altre parti d’Italia avevano finito per snaturare in senso reazionario le confuse tendenze sinistreggianti (sindacalismo, futurismo, repubblicanesimo) espresse dal movimento fascista nazionale al suo sorgere nel 1919. La svolta di Philipson aprì quindi la strada in sede locale all'affermazione della componente della media e piccola borghesia urbana che ebbe l'esponente di punta nella figura di Enrico Spinelli, studente universitario di farmacia, ex-combattente; violento nelle imprese squadristiche non sarà tuttavia privo di una parte propositiva riassumibile in alcune teorie espressione del cosiddetto "fascismo di sinistra": primato dell'industria, collaborazione fra un capitale "controllato" e il lavoro, lotta alla rendita parassitaria, un partito di "duri e puri". A Spinelli, il fascismo agrario pistoiese contrapporrà poi il commerciante Ilio Lensi, capo delle squadre d'azione nel 1922, uomo rozzo e violento, ma ambizioso al punto di prestarsi a qualsiasi ruolo. Gli anni dal 1919 al 1922 vedono dunque il movimento fascista, finanziato dagli industriali e dagli agrari e spesso tollerato e sostenuto da apparati centrali e periferici dello Stato, crescere ed affermarsi nel Paese grazie alla violenza squadristica. E’ quest’ultima che stronca, in Italia ed anche nel Pistoiese, nell’agosto del 1922, al culmine di un biennio di sangue, lo "sciopero legalitario" antifascista indetto dalle organizzazioni operaie il 31 luglio. Proprio in questi frangenti, il 5 agosto 1922, usciva in città il settimanale "L'Azione fascista". Il foglio segnava un significativo successo dell'ala intransigente permetteva ai fascisti di non dover più elemosinare spazio sul settimanale liberale "II Popolo pistoiese" e che sentiva di essere ormai forte a sufficienza per scrollarsi di dosso il peso della mal sopportata alleanza nel patto del Blocco nazionale con i liberali dell'onorevole Philipson. Su questo giornale troveremo la cronaca del ruolo svolto dagli squadristi pistoiesi durante le giornate dell’ottobre 1922, preannunciate già il 19 agosto da un fondo redazionale dal titolo "La marcia su Roma". Nel settembre il giornale, in vista delle elezioni comunali, sviluppa una forte polemica con i liberali di Philipson, rifiutando qualsiasi apparentamento e nel contempo attacca il mondo cattolico con lo scopo di ridurre alla sottomissione quegli esponenti del popolarismo, che seppur in concorrenza e spesso in contrapposizione ai "rossi", continuavano a rappresentare con le loro organizzazioni nelle campagne un serio pericolo per gli interessi dei ceti agrari dominanti. Intanto mentre il governo del giolittiano Facta mostra tutta la sua inconcludenza e varie amministrazioni comunali di sinistra, in Italia come nel Pistoiese, sono obbligate a dimettersi dalla violenza fascista, il consiglio nazionale del movimento si riunisce per stabilire i tempi della "marcia". Mussolini, che aveva intanto rinunciato alla pregiudiziale repubblicana e riallacciato i rapporti con D'Annunzio, sembrava inizialmente accontentarsi di una partecipazione fascista ad un Governo Giolitti, ma dopo la manifestazione di Napoli del 24 ottobre (sorta di "prova generale" alla quale prendono parte 40.000 camice nere) alza il prezzo e pretende la Presidenza del Consiglio. Si sposta così da Napoli a Milano, iniziando varie e complesse trattative politiche con Roma che vedono coinvolti numerosi personaggi, tra i quali , sembra, anche lo stesso Philipson (3), mentre a Perugia un "quadrumvirato" formato da Bianchi, De Vecchi, De Bono e Balbo si occupa del coordinamento operativo della "marcia". Tra l’altro, alcuni storici , attribuiscono proprio al "quadrumviro" Balbo la decisione di forzare la mano al titubante Mussolini dando il via alla dimostrazione di forza che, per quanto riguarda Pistoia, comincia già dal 26 ottobre. Un manifesto convoca in sede gli iscritti e gli squadristi dichiarando disertore chi manca alle disposizioni, mentre: "Gli onesti lavoratori, i cittadini tutti sono pregati di continuare la loro attività …gli scioperi…vengono …considerati… azioni delittuose"( 4 ). Il 27 ottobre, dopo le 10 del mattino, su camion e automobili parte il primo gruppo di circa 200 squadristi salutati "da una numerosa folla di simpatizzanti fascisti…che cantano inni patriottici" ( 5). Enrico Spinelli comanda la colonna formata di quattro squadre. Ai suoi ordini sono: Dino Orlandini, capo della "Disperata", Nello Paolini, comandante della " Pacino Pacini", Dino Lensi, alla guida della "Cesare Battisti" e Giuseppe Costa, leader della "Randaccio". La colonna si dirige verso Empoli dove è stabilito un punto di raccolta e dove giunge in serata dopo aver sostato alcune ore al passo di San Baronto. Intanto in città sotto la guida di Lensi si formano 12 squadre di 25 uomini ciascuna che il giorno dopo occupano gli edifici statali, mentre Leopoldo Bozzi, di estrazione liberale, futuro podestà di Pistoia ed artefice dell'operazione "Pistoia-Provincia", occupa con gli ex-combattenti ai suoi ordini la sede dei telefoni e dei telegrafi e, soprattutto, l'importante stazione ferroviaria (6). Quindi quella numerosa presenza di fascisti in città che a prima vista appare come una disobbedienza gli ordini dei quadrumviri che invitavano a tralasciare il controllo delle città "sicure" per portarsi a Roma (7) , diventa invece determinante nel quadro generale della "marcia". Curzio Malarparte asserì che fascisti pistoiesi avessero avuto precisi ordini in tal senso . Lo scrittore-giornalista pratese scrisse infatti di un treno di carabinieri respinto da alcune fucilate fasciste al ponte di Vaioni e di un camion di guardie regie provenienti da Lucca fermato a Serravalle dal fuoco di alcune mitragliatrici (8) . Di ciò non si hanno prove, si ha comunque fondata notizia che a Pistoia il 28 ottobre venne bloccato in stazione un treno che portava a Roma un battaglione di alpini, carabinieri e guardie regie (9). Intanto la colonna guidata da Spinelli aveva proseguito in treno per Chiusi e Orte dove trovava la linea interrotta da alcuni carri rovesciati. Dopo aver aggirato l'ostacolo pretendendo posto in un altro convoglio si era diretta per Monterotondo dove giungeva nelle prime ore del pomeriggio del 29. Poco dopo la mezzanotte del 30, i fascisti pistoiesi ripresero la marcia per Roma fermandosi in attesa di ordini, come tutte le altre colonne, alle porte della città. In questi momenti domina in loro l'incertezza. Un partecipante, Giulio Innocenti, scrive: "... non sappiamo ancora quale piega hanno preso gli avvenimenti. La piazzaforte di Roma dispone, si dice, di cinquantamila uomini, "se sparassero?". Questa è la domanda muta" (10 ) Infatti se lo stato d'assedio avesse avuto il suo corso e fossero intervenute le truppe, per gli squadristi non ci sarebbe stata partita, ma nella Corona e nei ceti dominanti prevale la tesi, ora che il movimento operaio è stato praticamente stroncato, di non sbarazzarsi del fascismo, ma di inserirlo, condizionandolo, nel sistema. Quindi il re respinge la firma dello stato d'assedio dichiarato da Facta (che si dimette) e il 30 ottobre affida il governo a Mussolini. Quest’ultimo giunge a Roma in treno e presenta subito il suo ministero nel quale figurano anche esponenti liberali e cattolici. A questo punto gli squadristi possono entrare in città come fa anche la "colonna Spinelli", raggiunta nel frattempo a Roma dagli altri duecento fascisti pistoiesi della "colonna Lensi". Il pistoiese Martino Moscardi annota : "La nostra entrata è stata trionfale. Tutti i militari indistintamente, tutti i picchetti delle caserme ci accoglievano con l'onore delle armi, fraternizzando entusiasticamente con noi"(11). Le due colonne dopo essersi unite alla squadre di Bottai in una sanguinosa "spedizione punitiva" nei quartieri "rossi" del Trionfale e di S. Lorenzo marciarono poi, insieme alle altre, nella parata della vittoria che ebbe luogo nel pomeriggio del 31 davanti al Re al Quirinale. Poco dopo la sfilata vennero devastate le sedi di vari giornali, la Direzione nazionale del Partito Socialista e la Casa del Popolo di Roma. Si contarono molti morti e feriti. I primi atti del governo Mussolini, saranno l'abolizione della nominatività dei titoli, più volte auspicata dagli industriali, il ritiro di un precedente progetto di riforma agraria, già passato alla Camera e l'istituzione della Milizia: primi passi di un "regime" ventennale e liberticida, con buona pace di coloro, non ultimi i giornalisti del liberale "Popolo pistoiese" e del cattolico "La Bandiera del popolo", che avevano salutato l'avvento di quel ministero con fiduciosa speranza o con inerte rassegnazione (12).

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1) Cfr. A. Cipriani, Il fascismo pistoiese. Genesi, sviluppo, affermazione, in "Microstoria", n. 16 (mar./apr. 2001); C.O.Gori, Figure del fascismo pistoiese. Una città che non seppe esprimere figure forti, in "Microstoria", n. 16 (mar./apr. 2001).

2) Cfr. C.O. Gori, Il "calmiere Lavarini" durante il Biennio rosso. Le giornate pistoiesi ripercorse attraverso i giornali di allora, in "Microstoria", n. 11 (mag. 2000). Su questi aspetti cfr. anche: R. Risaliti, Nascita e affermazione del fascismo a Pistoia, in Farestoria, n. 1 (1983); G. Petracchi, La genesi del fascismo a Pistoia, in 28 ottobre e dintorni, Firenze, Polistampa, 1994

3) Cfr. M. Francini, Primo dopoguerra e origini del fascismo a Pistoia, Firenze, Libreria Feltrinelli, 1976, pag. 133, n.21

4) "L'Azione fascista" (28 ott. 1922).

5) G. Innocenti, Ave Roma!... Diario della marcia su Roma..., Pistoia, Arte della stampa, 21 aprile 1923, pag. 7

6) ivi, pag. 6

7) E' questa la tesi dello storico Marco Francini in Primo dopoguerra ...cit., pagg. 132-133

8) Cfr. C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, in Opere scelte, Milano, Mondadori, 1997, pagg. 264-265

9) Cfr. M. Francini, Primo dopoguerra...cit., pag. 134

10) G. Innocenti, Echi di guerra, in "L'Azione fascista", (4 nov. 1922)

11) cfr. Innocenti, Ave Roma! ...cit. pag. 18

12) Cfr. "Il Popolo pistoiese" e "La Bandiera del popolo" del 4 novembre 1922.

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Quei giorni dell’Armistizio a Pistoia (settembre 1943)

 

Dopo il 25 luglio 1943, giorno della caduta del fascismo, anche a Pistoia i reparti tedeschi, da tempo presenti alle Casermette ed al Campo di Volo, sono in allerta per far fronte alla sempre più probabile defezione dell’alleato italiano, avvenuta poi l’8 settembre. L’ufficiale Marcello Venturi, rimasto alle Casermette per “per la liquidazione di tutti gli affari del Rgt. Nembo”, ormai in Sardegna, annota nel suo diario: “Le unità tedesche non preannunciano più i loro movimenti” (1). Nei primi giorni di quel settembre 1943 c’è dunque un insolito via vai di militari tedeschi in questi dintorni della città, zone oggi urbanizzate, ma che allora erano “campagna”, rivelato anche da un  curioso episodio avvenuto sulla “camionabile” del viale Adua, dove, come riporta una cronaca de "La Nazione",  “giorni sono...un camioncino guidato da Gino Capecchi e con a bordo i macellai  Giuseppe Mannori e Francesco Civinini... si scontrava con l’auto tedesca WH 863332 guidata dall’ufficiale Muller che procedeva sulla sua destra e a normale velocità. Pare che il Capecchi non abbia atteso di dare la precedenza alla suddetta macchina”. Il cronista dopo essersi minuziosamente soffermato sull’entità dei danni e sulle ferite riportate dai malcapitati protagonisti della vicenda così conclude: “I carabinieri hanno rimesso ora un rapporto all’autorità giudiziaria”(2). L’articolo potrebbe sembrare la banale cronaca di un incidente stradale se  non fosse apparso il 10 settembre 1943 , cioè già due giorni dopo l’annuncio dell’Armistizio! Non sappiamo dove si recasse l’ufficiale Müller della Wehrmacht, ma è probabile che non fosse in gita di piacere. Erano giorni drammatici, ma sugli smilzi quotidiani (di solito un solo foglio) a fianco di formali bollettini di guerra, compaiono molti articoli del tipo: “Impiegato percosso da un colono”, “Investito da una bicicletta”, “Ubriaco in contravvenzione” ecc,. che danno la sensazione di una fuga nella minuta normalità;  ad esempio un grave episodio avvenuto il 9 settembre a Firenze, l’uccisione di un antifascista durante un volantinaggio antitedesco da parte di un ufficiale italiano, viene semplicemente titolato “Doloroso incidente in Piazza Vittorio Emanuele” (3). Segno evidente dell’incertezza dei tempi e dei timori del cronista e, probabilmente, del vigilare di una censura ancora attiva. Dai  pochi  numeri de “La Nazione” di quei giorni presenti nella Biblioteca Forteguerriana, possiamo capire la reazione popolare all’annuncio dell’Armistizio dalla cronaca della festa patronale di San Marcello dove, “quando giunse per radio il Proclama Badoglio. La folla comprese la gravità dell’annuncio, ma si raccolse nuovamente in chiesa … per ringraziare della cessazione delle ostilità”(4). Mesi dopo il foglio “Tempo nostro”,  ricorda con sdegno “repubblichino” che quel fatidico giorno “il popolo tripudiava e le colline apparivano cosparse di gioiosi falò”(5). Anche il noto pedagogista e scrittore Mario Lodi, a quel tempo militare a Pistoia, vede : “…centinaia di falò festosi. Per tutti la guerra pare davvero finita”(6). Tuttavia che la guerra non fosse affatto conclusa lo capirono subito gli elementi più politicizzati,  sia antifascisti (7) che fascisti (8), che da quella sera si attivano per affrontare la nuova situazione.  Sono giorni di grande tensione e confusione, spesso le testimonianze che nel tempo si sono susseguite tendono a fondere e confondere date e fatti. Quel che appare  sicuro è che nella serata del 9,  mentre tra i soldati italiani “non c’è …un ufficiale che prenda l’iniziativa”, (9)  “i reparti motorizzati tedeschi presenti a Pistoia trasferivano i propri automezzi da un punto all’altro della città. Ci fu…un insolito movimento e la città assisté non senza trepidazione”(10). Questa eloquente sfilata nel centro cittadino probabilmente induce,  ricorda il militare Cino Frosini,  le ex-camice nere (militarizzate da Badoglio dopo il 25 luglio) della 369ª Coorte  a farsi incontro ai camerati tedeschi “…facendo saluti romani, facendo vedere che dietro le stellette dell’esercito italiano avevano ancora il fascio …della milizia”(11), ma i tedeschi non si fermano, forse ancora incerti sulle intenzioni delle non poche truppe italiane ancora armate rimaste in zona (12). La cosa è confermata da Venturi che annota: “9 settembre, i tedeschi  trasportano tutto il loro materiale  al campo di volo e caricano sugli aerei. Resta nella casermetta n. 1 il solo personale addetto alla stazione radio...”(13).  Dunque quella che sulle prime si presenta come l’occupazione tedesca in atto, appare poi alla popolazione come una ritirata e ciò incoraggia gli antifascisti a reagire alle provocazioni della ex-milizia (14). Davanti alla caserma di Piazza dello Spirito Santo si invitano le ex-camice nere a sciogliersi ed a consegnare le armi, ma qualcuno spara e inizia un lungo combattimento al termine del quale i militi si arrendono e vengono sottratti alla furia popolare dal parroco della vicina chiesa. Sull’episodio potrebbe sorgere un primo interrogativo: con cosa si combatte, se il comandante della piazza gen. Volpi presso la Caserma Umberto I di via Atto Vannucci  respinge con decisione una richiesta di armi fattagli da una delegazione antifascista e, malgrado le insistenze di Venturi e di altri ufficiali, proibisce ai suoi uomini di prendere qualsiasi iniziativa antitedesca? Una risposta viene da Venturi stesso che annota: “In città si spara: mando tre volontari completamente armati per trarre d’impaccio un mio sottufficiale che ha esaurito i mezzi di fuoco”(15). Nel frattempo un altro ufficiale, il pistoiese Vasco Melani, di nascosto, rifornisce di armi gli antifascisti dal retro della Caserma Gavinana di via dei Baroni. Il secondo più consistente interrogativo sorge sul giorno in cui ha luogo il combattimento. Un testimone ammette apertamente di far confusione fra il 9 ed il 10, altri dicono il 9,  tuttavia molti propendono per il 10 (16).  Due testimoni indicano decisamente date diverse e meno attendibili:  l’8 settembre per l'antifascista Vincenzo Nardi nella sua “Relazione per la concessione della medaglia d’oro alla città di Pistoia” (17) presentata tre anni dopo quella data, mentre il fascista Loris Lenzi, in un suo articolo apparso su “Il Ferruccio " del 6 novembre 1943, fa risalire l’episodio all' 11 settembre (18). Come spiegarlo? Nel primo caso - come nota giustamente Claudio Rosati -  "la data spostata all'8 fa acquistare all'avvenimento un altro spessore storico" (19), mentre meno chiaro appare lo scopo del Lenzi. Desta sospetto, scorrendo il suo articolo, che la data dell'11 settembre sia inspiegabilmente ripetuta più volte tanto da definirne beffardamente i protagonisti come "I "Rivoluzionari" dell'11 settembre "i coraggiosi dell11 settembre", quasi si volesse convincere il lettore che proprio quello era il giorno. Cosa invece accadde l’11? Venturi annota: "11 settembre:  Voglio, pretendo ordini. Nessun ordine...riesco finalmente a parlare col Generale...Troppo tardi... entrano velocemente nelle casermette venti fra carri armati e autoblinde ...ufficiali delle SS mi sono davanti con pistole mitragliatori impugnati"(20). Un testimone, Paolo Vannucchi, vede proprio "…il sabato 11  i capoccioni della Milizia , liberati dai tedeschi a passeggio per il centro, tronfi, in compagnia dei liberatori...” (21).  L’11 settembre è dunque il giorno che i forti reparti tedeschi del II  Panzerkorps  SS provenienti dalle colline invadono la città e le truppe italiane si squagliano o si arrendono. “Non si parlava d'altro la mattina di domenica 12 settembre..."(22), il giorno dell’eccidio di Piazza San Lorenzo. Questo tragico episodio, secondo la ricostruzione di Vannucchi, avvenne in seguito ad una calcolata provocazione volta ad affermare l'autorità tedesca impressionando una cittadinanza ormai impotente, ma ancora inquieta, con un esempio memorabile. Alcuni soldati tedeschi spargono la voce che si stanno per ritirare ed invitano la popolazione ad entrare nei magazzini della Caserma “Francesco Ferrucci” del Distretto Militare per prendere i materiali abbandonati dai soldati italiani. Molti ci credono ed entrano,  ma nel pomeriggio la provocazione trova il suo terribile epilogo: i tedeschi tornano improvvisamente e fucilano sei cittadini. Questa, sulla scorta di quanto abbiamo finora trovato, la cronaca a nostro avviso più attendibile di queste giornate ed ecco forse anche spiegata la ragione del “repubblichino”Lenzi nel posticipare la data nel suo articolo apparso a nemmeno due mesi dai fatti: era da poco nata la RSI e voleva,  mettendo il più possibile a ridosso gli avvenimenti di P.za dello Spirito Santo e di P.za San Lorenzo, giustificare in qualche modo davanti alla popolazione l'eccidio compiuto "a freddo" dall'alleato tedesco presentandolo invece come necessaria reazione "a caldo" ad una sparatoria avvenuta nemmeno un giorno prima ad opera, a suo dire, di “una canea assetata di sangue e nutrita d’odio”(23).

(Originale dell’articolo:  Co.O. Gori, Pistoia e i giorni del “tutti a casa”. Cronaca dell’8 settembre 1943 e dell’occupazione tedesca della città, in “Microstoria”, a. 4, n. 23 (mag./giu. 2002).                                                                                                                    

Note:  

1) M. Venturi, Dal diario di un  ufficiale, in Pistoia 8 settembre 1944-8 settembre 1949, Pistoia, 1969.

2) Cronaca di Pistoia. Le indagini intorno ad un investimento, in "La Nazione", (10 set.1943)

3) Cronaca di Firenze. Doloroso incidente in Piazza Vittorio Emanuele, ivi

4) Corriere di S. Marcello. La Conclusione delle feste patronali, ivi. De “La Nazione”in Biblioteca  per il periodo che ci interessa sono presenti  solo  i  numeri  dell’8, 10, 11, (senza cronaca di Pistoia).  Quello successivo data 16 settembre.

5) Noterelle, in "Tempo nostro", n. 3 (25 dic. 1943).            

6) La guerra che ho vissuto. I sentieri della memoria, a cura di M. Francini, Pistoia, pagg. 345/6.

7) Cfr. G. Bianchi, Appunti sul CLN clandestino di Pistoia, in "Farestoria",  n. 16 (1991), pag. 21.

8) Cfr. G. Pisanò, Io fascista, Milano, Il Saggiatore, 1997, pag. 16.

9) La guerra che ho vissuto....cit.,  pagg. 345/6.

10) Noterelle, in "Tempo nostro", n. 3,  cit.

11) Cfr. R. Bardelli-M. Francini, Pistoia e la Resistenza, Pistoia, Tellini, 1980, pagg.82-83.

12) Secondo Mario Lodi i soldati italiani presenti a Pistoia erano circa 20.000:  cfr. La guerra che ho vissuto, cit. , pagg. 345/6.

13) M. Venturi, Dal diario  ...cit.

14)  R. Bardelli-M. Francini, Pistoia ...cit., pag. 83.

15) M. Venturi, Dal diario di ...cit.; cfr. Il Comitato d'Azione, Al popolo della provincia di Pistoia, (11 set. 1943), in Pistoia 8 settembre...cit.

16) Sulle varie testimonianze cfr. Cfr.: R. Risaliti, Antifascismo e Resistenza nel Pistoiese, Pistoia, Tellini, 1976, pagg.: 12, 145;  G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975, pag. 40; R. Bardelli-M. Francini, Pistoia cit. pagg.:  30,  37, 81-85;  La guerra che ho vissuto..cit. pagg.: 30, 124, 243, 323, 344.

17) Relazione per la concessione della medaglia d’oro alla città di Pistoia, in R. Bardelli-M. Francini, Pistoia... cit. pag. 30.

18) L. Lenzi, Le barricate, in "Il Ferruccio" (6 nov. 1943).

19) C. Rosati, La gente di una città occupata: Pistoia 1943-1944, Pistoia, Società Pistoiese di Storia Patria, 1989, pagg.  3-6.

20 ) M. Venturi, Dal diario di ...cit

21) P. Vannucchi, Il 12 settembre 1943... a Pistoia, In Piazza San Lorenzo, i tedeschi..., in "Farestoria" n. 21 (1993), pagg. 51-53.

22) ivi

23) L. Lenzi, Le barricate, cit.

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Formazioni partigiane ed eroi della Resistenza pistoiese

 

Varie formazioni, agli ordini del comandante della XII Zona, Vincenzo Nardi, liberarono Pistoia; alcune erano di orientamento comunista (“Volante”, “Baronti”, “Valiani”, “Valoris”, “Calugi”, “Stella rossa” “Banda comunista n. 1”, “ SAP Lamporecchio”, “Fantacci”), altre di ispirazione azionista (“Giustizia e Libertà”, “Pieve a Celle”, “Puxeddu”, “Castellina” “Corallo” “Frosini”, “Fedi”) e, con l’apporto dei gruppi di “Difesa della donna” e di altre piccole squadre, tra le quali una di ispirazione cattolica, dopo alcuni scontri periferici con i tedeschi in ritirata, raggiunsero il centro cittadino l’8 settembre 1944 (1).

Al di là del valore delle formazioni che parteciparono al momento culminante della Resistenza pistoiese ed ai precedenti avvenimenti, occorre in particolare soffermarsi sulla rilevanza militare di tre unità: la “Fedi”, che operò nella pianura pistoiese, l’ “XI Zona” e la “Bozzi” che spaziarono invece ben oltre l’ambito provinciale e regionale. Inoltre, se la “Bozzi” agirà in forte collegamento il “centro” comunista, le iniziative dell’ “XI Zona” e della “Fedi” saranno invece determinate dalle forti individualità dei loro comandanti Manrico Ducceschi (“Pippo”) e Silvano Fedi.

Silvano Fedi da un un ritratto del pittore Grazzini nei momenti della lotta armata

La figura di Silvano è particolarmente cara ai pistoiesi. Cadde, non lontano dalla città, sulle pendici della collina di Montechiaro, dove oggi svetta la scultura che lo ricorda. Fedi matura, già in ambito studentesco, una inconsueta, rischiosa e decisa opposizione al fascismo e subisce, insieme agli amici La Loggia, Fondi e Giovannelli, una condanna del Tribunale Speciale. Si definisce “comunista libertario” e parla di un’umanità affrancata dal bisogno in un mondo senza frontiere. In città, subito dopo il 25 luglio '43, è tra gli animatori di una forte manifestazione. Dopo l'8 settembre organizza una formazione che, pur collegata al Partito d'Azione, è costituita da elementi anarchici e rivendica una completa autonomia, anche dal CLN. Si muove continuamente tra città e campagna, sia nel versante di Pistoia sino alla zona di Quarrata e alle colline del Montalbano, sia in quello di Fucecchio e Lamporecchio, sorprendendo il nemico con azioni abili e clamorose. Audacissimo e spericolato attacca infatti per ben quattro volte il distretto militare, catturando ingenti quantità di armi e materiali che vengono poi distribuiti anche ad altre formazioni. Inafferrabile conduce, spesso senza spargimento di sangue, assalti ai vari presidi fascisti cittadini e alle carceri mandamentali, liberando prigionieri politici ed ebrei e costringe così i nazifascisti a porre su di lui una rilevante taglia. Nel primo pomeriggio del 29 luglio ‘44, in una stradina di campagna, cade combattendo insieme a Giuseppe Giulietti in un'imboscata tesagli dai tedeschi. La presenza dei soldati in quel posto e a quell'ora ancora oggi non trova convincente spiegazione e per questo molti pensano che sia stato tradito da una delazione di qualche spia locale. Per le sue azioni gli verrà conferita la med. d'argento al v.m. Il comando della “Fedi” verrà poi assunto da Enzo Capecchi e successivamente da Artese Benesperi, sino alla liberazione di Pistoia nella quale la formazione giungerà dopo aver occupato Vinci, Lamporecchio e Casalguidi. 

“Pippo” saluta i suoi uomini al rientro da una riuscita incursione

La comune esperienza sui banchi del liceo classico “Forteguerri” lega la figura di Fedi a quella di Ducceschi. L’armistizio trova Manrico, allievo ufficiale del V Rgt. Alpini, a Tarquinia da dove, sfuggendo ai tedeschi, si dirige a Firenze per prendere contatti col Partito d’Azione. Organizza sulla montagna pistoiese, in collegamento col CLN militare toscano, la prima Brigata “Rosselli”. Viene poi designato comandante dell'XI Zona e, con i suoi partigiani pistoiesi e lucchesi, “copre” i contrafforti della linea Gotica dalla Val di Lima, all'Abetone, alla Garfagnana, alle valli del Pescia e della Nievole. Sorveglia, tra l'altro, la Statale 12 che passa per l’Abetone, arteria cruciale per gli spostamenti delle truppe nazifasciste. “Pippo”, attento più agli aspetti militari dell’azione partigiana che a quelli di equilibrio politico, con i suoi uomini, che raggiungeranno il ragguardevole numero di circa 500, ingaggia vere e proprie battaglie contro i convogli nemici nelle quali può a volte usufruire dell'appoggio aereo alleato. E’ infatti collegato, tramite il pistoiese Giovanni La Loggia, agente dell' Oss paracadutato ed aggregato al suo gruppo, con l'intelligence americana, impegnata nel pesciatino con le missioni “Berta” e “Carnation, e grazie a ciò verrà spesso rifornito con aviolanci ed allaccerà “sul campo” ottimi rapporti con le truppe brasiliane prima e statunitensi poi (2). Suoi partigiani, con divise ed equipaggiamento americano, contribuiranno anche a “tenere” nell’inverno 1944-45 (fino allo sfondamento di metà aprile ‘45), un tratto della “Gotica” contrapponendosi nella zona di Pian degli Ontani a reparti tedeschi e della div. “San Marco” della RSI. In un paio d’occasioni, nel pistoiese ed in lucchesia, alcuni suoi nuclei, pur fra divergenti opzioni operative, collaboreranno con la “Bozzi”. Al momento della liberazione di Lucca parte dei suoi uomini si aggrega, come Battaglione Autonomo patrioti italiani “Pippo”, alle truppe alleate e con esse partecipa alla liberazione di alcune città dell'Emilia ed entra successivamente in Milano. Dopo la Liberazione viene decorato con la “Bronze Star” americana. Nel dopoguerra la scelta più difficile, quella estrema: decide di togliersi la vita a soli 28 anni.

Il partito comunista subito dopo l’8 settembre affida all’artigiano fiorentino Gino Bozzi, attivo antifascista fin dal 1927, l’organizzazione di una formazione partigiana. Il primo nucleo della futura “Bozzi”, composta da fiorentini e pistoiesi, si forma a Poggio Forato nella zona di Vidiciatico nell'Appennino bolognese, poi la base è nella foresta del Teso e “copre” anche le zone di Maresca e Campotizzoro, allora importante centro dell’industria bellica. I primi tempi sono dedicati all'organizzazione: recupero di armi, costituzione di una rete di supporto, inserimento e preparazione di nuovi combattenti. Proprio nel corso di contatti col “centro” del PCI in vista del passaggio all'azione militare, muoiono il 4 gennaio ’44 in seguito a due distinti scontri con i fascisti, lo stesso Gino Bozzi (colpito il 27 dicembre e spirato poi all’Ospedale di Pistoia) ed il dirigente comunista Faliero Pucci. In seguito a questi avvenimenti, nel freddo e difficile inverno ‘44, la formazione vive un serio momento di crisi. Si riorganizzerà, sotto la guida politica del gappista fiorentino “Nando” Borghesi, agendo nella zona sovrastante Montale, spostandosi poi verso il Passo della Collina e l’ Acquerino e congiungendosi infine ad est con le formazioni del Pratese operanti sui monti della Calvana. Il crescere del numero dei componenti la “Bozzi” e la difficoltà di reperire cibo per tutti, spinge “Nando” a cercare rifugio nel più fertile versante emiliano. Inizia così la lunga marcia di trasferimento segnata dalla battaglia di Treppio (17 apr. ‘44) dove l’aglianese Magnino Magni si sacrifica per consentire lo sganciamento dei compagni verso l’ Emilia. Qui la “Bozzi”, inquadrata nel btg. garibaldino “Menotti”, si distinguerà come una delle formazioni più affidabili del famoso comandante “Armando” (Mario Ricci) partecipando all'occupazione di Fanano e di Toano (10 - 21 giu. ‘44) ed alla costituzione della repubblica partigiana di Montefiorino. In seguito alla fusione con la formazione pracchiese “Venturi”, e con la “Filoni”, operante nella zona di Maresca, diverrà “Brigata Garibaldina Gino Bozzi” (9-10 lug. ’44). Caduta Montefiorino, rientra definitivamente in Toscana e, mentre alcune sue formazioni rimangono (o poi tornano) ad operare nella zona di Pracchia-Orsigna-Maresca, il grosso della Brigata si sposta in Garfagnana, dove libera varie località ed infine si insedia a Coreglia (15 ago. ‘44). La “Bozzi” si scioglie nell'ottobre del ‘44 dopo una intensa attività di pattugliamento nell'alta valle del Serchio in collaborazione con i brasiliani della FEB. Successivamente molti dei suoi componenti si arruoleranno volontari nei Gruppi di Combattimento del ricostituito Esercito italiano e risaliranno la penisola a fianco degli alleati; alcuni, come ad es. Alfredo Bani, inquadrati nel “Cremona”, prenderanno parte ai combattimenti che dal basso Senio in poi condurranno alla liberazione di Venezia, altri, come ad es. lo stesso “Nando” Borghesi, nel “Legnano”, Ardengo Sostegni nel “Friuli” e Mario Innocenti nel “Folgore”, parteciperanno alle importanti operazioni militari che porteranno alla liberazione di Bologna e di gran parte della Pianura Padana (3).

Non possiamo ovviamente rammentare qui tutti gli altri episodi, personalità ed eroi della Resistenza  locale (4), ma è doveroso concludere ricordando i numerosissimi  fiorentini e pistoiesi, tra cui la med. d’oro Villy Pasquali, che dopo l’8 settembre non si arresero e contribuirono in Jugoslavia all’ epopea della “Divisione Garibaldi”. Formatasi dall’unione delle divisioni  “Venezia” e “Taurinense”, e rimasta unità dell’esercito italiano, la “Garibaldi” combatté gloriosamente a fianco dei partigiani slavi fino al marzo del  1945 per  la liberazione di quella terra dal nazifascismo.

 Carlo Onofrio Gori                                                                                                                     

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1). Cfr. R.Risaliti, Antifascismo e Resistenza nel Pistoiese, Tellini, 1976.

2) Cfr. G. Petracchi, Al tempo che Berta Filava…, Mursia, 1996.

3) Cfr. G. Verni, La Brigata Bozzi, La Pietra, 1975.

4) Cfr. R.Bardelli e M. Francini, Pistoia e la Resistenza, Tellini, 1980; La guerra che ho vissuto …(a cura di M. Francini), Unicoop, 1997; Guida ai monumenti della memoria nel comune di Pistoia (C.O. Gori et al.), Edizioni del Comune, 1995; Resistenza nazionale e locale … (a cura di C.O. Gori), Proteo, 2003.

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Pistoiesi nella Battaglia del Senio (1944-1945)

 

Organizzato dall'Associazione culturale Proteo in collaborazione con l'Assessorato agli Istituti culturali del Comune di Pistoia, la Biblioteca Forteguerriana e la Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia si è svolto in Pistoia Il Convegno "Resistenza nazionale e locale: apologia o libera ricerca?" articolato nelle due sessioni dell'11 giugno e del 26 settembre aperte rispettivamente, dopo le introduzioni del presidente Fabrizio Carraresi, dalle relazioni dei professori Renato Risaliti e Giorgio Petracchi. Il Convegno per l'importanza dei contributi (oltre ai relatori sono intervenuti nella prima sessione Carlo Onofrio Gori, Giovanni La Loggia, Fabrizio Nucci, e nella seconda Giuseppe Grattacaso, Alessandro Affortunati, Fabio Giannelli, Andrea Ottanelli, Giampaolo Perugi, Luigi Angeli) e per una numerosa e qualificata partecipazione di pubblico, è risultato notevolmente interessante ed ha avuto vari echi a livello nazionale. Gli amici dell' Istituto che vi hanno attivamente preso parte mi hanno chiesto di scrivere per QF un articolo sulla mia relazione La Linea Gotica e la Battaglia del Senio: ovvero gli scontri "negati" fra italiani "in divisa" che, in forma ovviamente ridotta, ha costituito anche l'oggetto di un articolo apparso recentemente sulla rivista fiorentina "Microstoria" (1). La ricerca nasce dal fatto che nelle miei studi sul periodo 1943-45 mi ero da tempo imbattuto in un problema particolare che inizialmente mi aveva incuriosito.

In sostanza da parte certa storiografia, soprattutto espressione di alcuni ambienti militari, si insisteva (e si insiste tutt'oggi) a sottolineare che i reparti "regolari" italiani, schierati al fronte,  i  "badogliani" con gli Alleati e i "repubblichini" con i tedeschi, non si erano mai scontrati. Francamente nel quadro generale della Campagna d'Italia questo non appare a prima vista  un problema fondamentale, visto che, da una parte, il contributo delle forze armate del "Sud" alla Guerra di Liberazione fu importante, ma non decisivo e che, dall'altra, l'esercito di Salò, fu quasi sempre impegnato nella repressione antipartigiana, occorre inoltre sottolineare il ruolo giocoforza subordinato di queste forze italiane nei confronti dei rispettivi alleati. Tuttavia mi sono in seguito appassionato al problema, anche per le evidenti implicazioni di carattere politico e storiografico che già da subito si intuivano: si voleva operare in sostanza una distinzione fra  "militari gentiluomini" che avevano combattuto lo straniero "a viso aperto" e gli altri, gli "irregolari" (i partigiani) viceversa  impegnati in una subdola e "fratricida" "guerra civile" nelle retrovie del fronte. Com'è noto gli Alleati nutrivano forti dubbi sulle capacità e lo spirito combattivo di quel che rimaneva dello sconfitto Regio Esercito e preferirono utilizzare le truppe italiane nelle retrovie in unità ausiliarie. Tuttavia alla lotta per la Liberazione progressivamente parteciparono, oltre alle formazioni partigiane della Resistenza, anche unità regolari del ricostituito esercito italiano che affiancarono al fronte con unità sempre più consistenti le forze alleate. Dal 29 settembre 43 al 22 marzo '44 entrò in linea, il I Raggruppamento Motorizzato, una brigata che si distinse nel settore di Cassino nella battaglia del Garigliano per la conquista di Montelungo; dal 18 aprile 1944 esso fu ampliato e trasformato in Corpo Italiano di Liberazione al cui attivo vanno le vittorie di Monte Marrone e successivamente quelle che portarono alla liberazione di un ampio settore del versante adriatico fino a raggiungere  il Metauro il 25 settembre 1944. Viste la buone prove fornite dagli italiani e visto l'impiego di considerevoli forze, distolte dal fronte italiano per lo sbarco in Provenza, gli Alleati autorizzarono nel settembre '44 la costituzione di 6 Divisioni combattenti: "Cremona", "Friuli", "Folgore", "Legnano" "Mantova" e "Piceno", dette per sminuirne l'importanza"Gruppi di Combattimento", armati, addestrati, equipaggiati e strettamente controllati, tramite gli ufficiali di collegamento (B.L.U.), dai britannici.  Si trattava di forze che già nei giorni confusi dell' 8 settembre si erano salvate dalla dissoluzione in alcuni casi combattendo vittoriosamente contro i tedeschi in Corsica, Sardegna e Italia Meridionale e che poi avevano partecipato interamente o con propri reparti all'esperienze del I Raggruppamento e del CIL. E' altrettanto noto che anche i tedeschi erano generalmente diffidenti e scettici verso i fascisti disposti a combattere e preferirono inserirli direttamente nelle proprie unità con funzioni prevalentemente ausiliarie, accontentandosi poi di utilizzare le forze organizzate dalla RSI nella repressione antipartigiana. Salvo rare eccezioni, l'entità numerica delle unità “repubblichine” ammesse al fronte dai tedeschi in Italia fu quindi  relativa, trattandosi di formazioni quasi tutte costituite su base volontaria e molto selezionate, in gran parte provenienti da quei pochi reparti che l'8 settembre scelsero di continuare a combattere a fianco del Reich e che godevano di una certa fiducia tedesca. In questo ambito in sede storiografica è stata ricordata soprattutto la partecipazione di alcuni battaglioni della “Decima Mas”, del “Nembo/Folgore” e delle “SS italiane” alla battaglia di Anzio-Nettuno. Successivamente, su insistenza del governo di Salò, i tedeschi autorizzarono la costituzione di 4 divisioni ("Monterosa", "San Marco", "Littorio" e "Italia")  composte in parte da elementi di leva, in parte da ex-prigionieri ed in parte minore da volontari. Le addestrarono in Germania e poi, di controvoglia, le rimandarono in  Italia nel settembre '44, più o meno quando al Sud venivano organizzati dagli Alleati i Gruppi di Combattimento ed il fronte si andava assestando sulla Linea Gotica. I tedeschi dalla fine del 1944 schierarono gran parte dei reparti di queste 4 divisioni, già colpite al rientro in Italia da numerose diserzioni,  soprattutto nelle retrovie in funzione antipartigiana e in parte sul versante occidentale della "Gotica", preferendone l'impiego, per ragioni di controllo, in modo molto frazionato, per cui due reparti della stessa divisione, inseriti in formazioni tedesche di maggiori dimensioni, si potevano trovare nello stesso momento a molti km. di distanza l'uno dall'altro e in punti diversi del fronte. Mentre alcuni di queste unità, ottennero l'unica effimera vittoria militare della RSI in Garfagnana, a fine dicembre 1944, gli Alleati cominciarono dai primi del gennaio 1945 a schierare i Gruppi di Combattimento nella parte centro-orientale e adriatica del fronte. Quindi, apparentemente, il problema degli scontri fra “italiani in divisa” non sembrerebbe proprio porsi. Infatti la storiografia, diciamo così, “indipendente”, vicina o meno alla Resistenza, non fa alcun cenno ad eventuali scontri tra "italiani in divisa" limitando la partecipazione dei "repubblichini" al fronte agli episodi di Anzio, alla ricordata  offensiva in Garfagnana ed a qualche sporadico episodio nelle Alpi Occidentali,  dimenticando spesso della battaglia del Senio (2). Sembra da tutti accettato il principio che da una parte e dall'altra si era voluto evitare "scontri fratricidi" schierando i reparti italiani in punti diversi del fronte, ma allora perché da parte della storiografia militare quell'insistere sul fatto che tra "italiani in divisa" non c'erano stati scontri? C'era però il "problema"  del Senio su cui si fermò il fronte adriatico della Linea Gotica dal 18 dicembre '44  (liberazione di Faenza) fino all'aprile 1945. Qui gli Alleati decisero di rafforzare le proprie posizioni in vista dell'offensiva progettata per la primavera fronteggiando i tedeschi a monte e a valle del fiume fino al limite delle Valli di Comacchio. Per varie ragioni il ruolo dei Gruppi di Combattimento nella Battaglia del Senio, su cui gli storici si sono finora forse non sufficientemente soffermati, rappresenta un momento importante nella storia della Guerra di Liberazione 1943-1945 (3). Innanzitutto per l'entrata in linea del primo Gruppo,  il "Cremona",  in cui era fortissima la presenza di volontari toscani (2) raggiunto poi nella zona a monte del fiume dal "Friuli" (8/9.2.45), dal "Folgore" (1.3.45) e dal "Legnano", tanto che "…alla fine di marzo, la linea italiana ormai conta quasi 50.000 uomini pronti a scattare verso ….la pianura padana " (4), poi per l'inquadramento nel dispositivo alleato (sovente alle dipendenze operative del "Cremona") della 28ª Brigata partigiana garibaldina ravennate "Mario Gordini" guidata da Arrigo Boldrini, il leggendario “Bulow” e della "Brigata Maiella" comandata da EttoreTroilo, già da tempo in linea con gli Alleati ed inquadrata ora a fianco del "Friuli" sul corso superiore del fiume, infine perché già dal gennaio '45, come ci dicono fonti di Salò "...lungo il fiume Senio... accanto alle truppe germaniche .. fu presente...la forza militare più consistente che la RSI schierasse al fronte Sud" (5), in particolare, " … il battaglione Lupo della Decima Flottiglia Mas, la brigata nera Capanni di Forlì, il Battaglione Camice nere Forlì, i bersaglieri del Mameli  e reparti delle grandi unità "(6). Mi sembrava quindi umanamente impossibile che queste forze contrapposte, prima e dopo lo sfondamento sul Senio non fossero venute allo scontro. Nei parlai anni fa a Pistoia con il compianto Roberto Gasperini reduce del "Cremona"  (22° Rgt.) e guardandomi  come uno che  "scoprisse l'acqua calda" confermò la mia ipotesi: gli scontri con "quelli della X Mas" c'erano stati, eccome! Mi raccontò, tra l'altro, praticamente le stesse cose che compaiono più sotto nella testimonianza del volontario partigiano  umbro del “Cremona” Ruggero Lupini. Tuttavia rimanevano autorevoli dichiarazioni che affermavano il contrario, mentre vari libri, pur ammettendo presenze contrapposte, non facevano cenno al verificarsi di scontri "fratricidi". Chi nega gli scontri cita innanzitutto questa dichiarazione di Mussolini ai suoi soldati in addestramento in Germania: "Tornando in Italia non abbiate la preoccupazione di incontrare sulla linea del fuoco altri italiani, sia pure incoscienti e rinnegati" (7). E' vero che per volontà degli opposti comandi militari, si cercò (per un motivo "politico" o forse perché si temevano fraternizzazioni?) di non contrapporre al fronte le truppe del Regio Esercito e quelle della RSI come dimostra una direttiva segreta del generale John Harding, capo di s. m. di Alexander che recita: "In ordine all'impiego dei gruppi di combattimento italiani sulla linea del fronte, il comandante in capo desidera vivamente che siano evitati scontri fratricidi i quali potrebbero diffondere i semi di guerre civili o vendette fra italiani. Pertanto egli desidera che i gruppi di combattimento non vengano dislocati in modo da fronteggiare truppe fasciste italiane, ma soltanto tedesche. Nulla da obiettare, invece che siano collocati in zone adiacenti a quelle tenute dai fascisti, in modo che questi ultimi possano all'occorrenza disertare trovando ospitalità tra le truppe connazionali" (8). Lo stesso comportamento era tenuto anche dall'altra parte:  "Il battaglione "Nuotatori Paracadutisti" prese la responsabilità della linea sul Senio…Il comando di raggruppamento germanico insistette perché non fosse resa nota l'entrata in linea del battaglione italiano, anche perché oltre il Senio era segnalata la presenza di truppe regie." (9 ) La cosa sembrerebbe confermata anche da Umberto di Savoia che successivamente affermava: "Sul fronte del Po una sola volta furono segnalate formazioni fasciste di fronte al "Cremona". Ma non vi fu azione. Non vi fu sangue"  (10 ). Anche Gen. Emilio Faldella in un articolo sul ruolo del ricostituito esercito italiano nella fase finale della Campagna d'Italia testualmente affermava: "Fu grande fortuna che queste truppe poterono compiere il loro dovere senza scontrarsi con altre truppe italiane, anch'esse convinte di assolvere ad un dovere verso la Patria, le quali erano impiegate in altro settore del fronte" (11). Queste interpretazioni vengono senz’altro accolte anche da giornalisti-storici come ad esempio Arrigo Petacco che scrive: "I soldati italiani del Raggruppamento Motorizzato entrano in campo per la prima volta, accanto agli Alleati a Mignano Montelungo, l'8 dicembre. Dieci giorni dopo, quasi a dare un'immagine netta delle due Italie che si fronteggiano, scendono nelle loro postazioni a fianco dei tedeschi i soldati  dell'Esercito Fascista Repubblicano. Ma le formazioni del Nord e del Sud non si incontreranno mai sul campo di battaglia"(12). Infine la ciliegina sul dolce la mette Luciano Garibaldi finendo per spiegarci, in un libro recente, una della ragioni politiche per cui si è voluto negare questi scontri " …lungo la Linea Gotica, nell'inverno '44 e nella primavera '45, furono evitati scontri diretti fra reparti del Regio Esercito e forze armate della Rsi…Lo storico…Deve però rilevare come fosse costante, nelle due Italie, l'ansia di evitare la tragedia della guerra civile. Comunisti a parte, ovviamente, che al contrario la desideravano e, con l'aiuto degli azionisti e dei socialisti, la concretizzarono"(13 ). Ma cosa accadde veramente sul Senio e successivamente durante l'avanzata alleata in Val padana? Partendo dai ricordi di Gasperini ho in seguito approfondito le ricerche ed ho trovato che "disperse" nei tre ponderosi volumi di Giorgio Pisanò sugli "Ultimi in grigioverde" effettivamente ci sono alcune testimonianze di reduci “repubblichini” che parlano di scontri il  "Friuli" e il "Barbarigo"  e poi, soprattutto, fra il "Cremona" ed i vari battaglioni del 1° gruppo di combattimento della “Decima”. La presenza nel "Cremona" di numerosi soldati pistoiesi e toscani (sia di "leva", sia volontari ex-partigiani) mi ha dato recentemente la possibilità di intervistare alcuni sopravvissuti alla battaglia del Senio ed alla dura legge del tempo. Sono comunque in grado di affermare raccogliendo e confrontando fonti memorialistiche dell'una e dell'altra parte, che ora cominciano ad emergere (o riemergere) con visibilità, che sicuramente sul Senio si verificarono scontri fra reparti italiani: è in fondo nella logica della guerra sparare per primo al nemico, anche se connazionale. E' questa la conclusione che ho  tratto da queste testimonianze che non hanno finora avuto rilievo oltre l'ambito locale e da ricordi di reduci apparsi in vari periodi su riviste specializzate e che oggi, grazie ad Internet, possiamo anche rintracciare nel Web nei siti di associazioni combattentistiche o di giornali locali in formato html. A Nord, nel dicembre 1944 la X Mas, al tempo stesso "corpo franco" agli ordini del principe Borghese, ma anche formazione "regolare" perché parte integrante delle forze armate della RSI e parte essenziale della "marina repubblicana", schierò sul Senio il Battaglione "Lupo" costituito a La Spezia nel marzo 1944 e successivamente impiegato in Piemonte in funzione antipartigiana nella ripresa della città di Alba. Posizionato inizialmente sulle posizioni appenniniche il 27 dicembre del '44 il battaglione giunse a Pratolungo e fu schierato tra gli abitati di Alfonsine e Fusignano alle dipendenze tattiche della 16ª divisione corazzata Panzer-grenadier Reichsfùhrer SS. Ricorda un reduce: "La linea di combattimento, da Alfonsine, spostandosi verso ovest, coincideva parzialmente con l'argine destro del Senio fino a breve distanza da Fusignano, per spostarsi poi sull'argine sinistro dove le opposte postazioni distavano anche meno di dieci metri, trovandosi le une e le altre sui fianchi dello stesso argine. Le case semidistrutte offrivano comodo asilo ai tiratori scelti anglo-americani "(14).  Il battaglione Lupo entra in azione dal 27 al 29 dicembre '44 e dopo circa tre mesi di guerra di posizione  il 20 febbraio viene avvicendato e stanziato a Marostica ed è sostituito il 25 febbraio a Lugo da altri reparti del 1° gruppo della "Decima" e cioé dal gruppo artiglieria "Colleoni" a sua volta raggiunto a metà marzo dal Btg "Nuotatori-Paracadutisti" e da una compagnia dei radiotelegrafisti del "Freccia". Questi battaglioni fronteggiano oltre a inglesi e canadesi anche  il GdC "Cremona". Il "Barbarigo"  invece viene aggregato inizialmente alla IV Divisione Paracadutisti tedesca nella zona di Riolo Terme, a monte della valle del Senio,  ed ha di fronte il Gruppo di Combattimento "Friuli" e la Brigata Ebraica (15). Si tratta, da parte fascista,  di reparti che hanno esperienze di lotta antipartigiana oltre al "Barbarigo" che è già stato al fronte ad Anzio. La Divisione "Cremona" costituita dal 21° e 22° Rgt. di fanteria, dal 7° di artiglieria e dal 131° Btg. da 47/32 al comando del gen. Clemente Primieri, dopo l'8 settembre 1943 era schierata nella parte occidentale della Corsica e si era distinta insieme con la Divisione “Friuli” e le  altre forze italiane guidate dal gen. Giovanni Magli, nella liberazione dell’Isola trovando la collaborazione dei partigiani corsi ed, in ultimo, dei  contingenti gollisti. Dal 19 al 27 ottobre si trasferisce in Sardegna. Passa poi in Continente e per i suoi meriti acquisiti sul campo viene scelta dagli Alleati per essere riaddestrata, con metodi e criteri delle grandi unità britanniche, nel Sud ed poi nella zona di Ascoli Piceno. Diviene un'unità motorizzata ed altamente specializzata con un organico corrispondente a quello di una Divisione leggera di 9.500 uomini ed entra in linea l'8 gennaio '45 nel settore dell' VIII Armata britannica passando alle dipendenze del I° Corpo d'Armata Canadese fra la ferrovia Alfonsine-Ravenna ad Occidente ed il mare ad Oriente sostituendo la 1ª Divisione Canadese. Il Gruppo, subito impegnato dai tedeschi (12 gennaio), malgrado la preparazione si trovò in difficoltà soprattutto per la carenza di effettivi in alcuni reparti dovuta ad alcune defezioni dopo il rientro sul Continente, mentre l'afflusso di richiamati di leva era alquanto problematico. Il governo ricorse allora a volontari, principalmente esperti ex-partigiani delle zone liberate, ma anche giovani motivati che fino ad allora non avevano combattuto. Anche il PCI esortò i giovani a partecipare alla guerra di liberazione, così che a più riprese molti gappisti romani, garibaldini umbri, marchigiani, toscani ed infine romagnoli, tra la fine del 1944 e gli inizi del '45 si arruolarono e dopo brevi periodi di addestramento (a volte anche direttamente) furono inviati ai reparti del "Friuli", "Folgore", "Legnano", ma soprattutto del "Cremona", che era già in linea. Ad esempio, come scrive il "cremonino" Aldo Fagioli  a Firenze il 25 gennaio (solo per citare una data) si arruolarono numerosissimi ex- partigiani della Divisione garibaldina “Potente”, mentre da Pistoia, ricorda il "folgorino" Attilio Ciantelli, il 16 febbraio partirono circa 500 giovani molti dei quali provenienti della Brigata "Bozzi" da altre formazioni fra i quali Franco Andreini, poi caduto ad Alfonsine e decorato al valore (16). L' enorme afflusso dei volontari nei GdC fu un fenomeno nuovo che  come ha affermato il gen. Musco, allora colonnello del "Cremona" "...non trova riscontro neppure nella storia delle nostre Quattro guerre di Indipendenza" (17)  ed ha ragione il "cremonino" Lupini quando nota: "L'apporto dato dai volontari alla linea gotica non si può valutare solo in termini militari, fu il loro esempio a salvare l'esercito italiano del sud dallo svuotamento, man mano che si liberavano le regioni dell'Italia centrale, e il Governo poté ottenere dagli Alleati di partecipare alla guerra con i 5 gruppi di Combattimento" (18). Nel "Cremona", in particolare, i volontari finirono per raggiungere in alcuni momenti quasi il 60% degli effettivi e diedero vita ad un vivace  esperimento di democrazia, che finì, per sconvolgere l'assetto "badogliano" della Divisione: esperimento non certo incoraggiato dalla Direzione del PCI che non voleva turbative che potessero eventualmente indebolire il carattere unitario e l'efficienza dello sforzo bellico. I volontari erano in gran parte comunisti anche se risultava abbastanza arbitrario dopo vent'anni di dittatura fascista attribuire con sicurezza etichette di appartenenza politica. Del resto anche nelle Brigate "Garibaldi" formate dal PCI, non tutti gli appartenenti erano di fede comunista (noto, tra gli altri, proprio il caso del cattolico e garibaldino ravennate Benigno Zaccagnini, segretario della DC negli anni Settanta) e non tutti quelli che si dichiaravano comunisti intendevano il comunismo allo stesso modo o erano disposti ad assoggettarsi alla disciplina di partito. Ci sono vari scritti che testimoniano della freddezza, se non dell'insofferenza, del sottosegretario comunista alla difesa Mario Palermo, del giovane dirigente Enrico Berlinguer e del capo partigiano "Bulow" Boldrini (i cui uomini invece erano molto disciplinati) nei confronti delle intemperanze "comuniste" dei volontari del "Cremona", quali ad es. i canti partigiani ed antimonarchici, lo sfoggio di pugni chiusi e fazzoletti rossi, etc., ma l'esperimento democratico non si limitò agli atteggiamenti esteriori: i volontari designarono ed imposero ai vertici militari, responsabili di plotone, di compagnia di reggimento  e perfino di Gruppo (19). I designati affiancavano nei vari adempimenti gli ufficiali effettivi alcuni dei quali furono da allora in poi (come si rileva anche dagli scritti apparsi sul giornale edito dal Gruppo di Combattimento, "La Spiga") sempre più sensibili, come anche molti degli effettivi di leva, allo spirito democratico propugnato dai volontari. Come i fatti dimostrarono l'efficienza della Divisione facendo leva sulla combattività degli ex-partigiani e sulla convinzione piuttosto che sulla costrizione, ne uscì  nei fatti esaltata. Rafforzato quantitativamente e qualitativamente il "Cremona" attaccò a nord i tedeschi conquistando dopo duri combattimenti il 3 marzo con l'apporto dei partigiani di Bulow, Torre di Primaro, e poi si riattestò in una guerra di posizione  nella zona di Fusignano-Alfonsine. Una importante testimonianza è quella di Lupini: " ...i Repubblichini della Decima Mas...ci chiamavano per nome con il megafono, lusingandoci ed incitandoci alla diserzione...il più delle volte però ci minacciavano... assicurando che sarebbero venuti per fucilarci...e il 5 febbraio eseguirono a Bastogi un attacco con grandi forze... ci salvò l'incessante mitragliamento del vicino caposaldo Adele... “(20). Quasi certamente altri scontri fra italiani avvennero nella zona di Riolo Bagni interessando da una parte il "Friuli" (e forse anche il "Folgore") e dall'altra il "Barbarigo" della X Mas, reparti della GNR, e probabilmente anche i bersaglieri volontari “repubblichini” del "Mameli" che dal 22 settembre 1944 operarono nella zona del Monte Battaglia ed a dicembre erano nella zona di Riolo Bagni. Interessanti a questo proposito altre due citazioni, la prima da Pisanò sul "Btg. "Barbarigo" della X Mas: "La permanenza nel settore … durò dal 28 marzo al 4 aprile. In questo periodo il battaglione  esplicò una intensa attività di  pattuglia catturando numerosi prigionieri appartenenti al gruppo di combattimento "Friuli" dell'esercito regio. Nel dopoguerra gli ufficiali di tale unità espressero lusinghieri apprezzamenti sulle qualità militari dei marinai della Decima al fronte" (21), la seconda del gen. Poli,  nella quale, come si noterà, non si fa alcun riferimento alla presenza dei "decimini" e quindi anche a possibili scontri:     "Il settore affidato al "Friuli" ad ovest del " Cremona " rivestiva carattere di particolare delicatezza perché si trovava all'estremità di un saliente che offriva all'avversario la possibilità di sfondare le nostre linee. Si iniziò una intensa attività di pattuglia a saggiare, sia da una parte che dall'altra, la consistenza dell'avversario. La pronta reazione dei nostri Reparti valse a bloccare ogni tentativo al suo nascere. I "Friulini" eseguirono numerosi colpi di mano sulle posizioni avversarie con il risultato di guadagnare terreno nel saliente avversario ed occupare posizioni tatticamente importanti. Il 10 aprile ebbe inizio l'offensiva alleata e il Gruppo di Combattimento "Friuli" superato il Senio a costo di gravi perdite, liberò Riolo, Bagni, Isola, Caffiano" (22 ). Come abbiamo visto il 10 aprile avviene lo sfondamento sul Senio. Già dal 5 aprile con l'attacco del IV Corpo americano nel settore tirrenico era iniziata l'offensiva finale Alleata. Successivamente l'azione prende una dimensione tale da sorprendere il comando tedesco. Il "Barbarigo" viene tolto dal Senio e schierato tra Portomaggiore e Ostellato ai due lati del limite settentrionale delle Valli di Comacchio. Così ricorda Lupini lo sfondamento sul Senio: " Nella notte del 10 aprile...lo scontro fu veramente accanito proprio nei dintorni di Alfonsine ... perché le truppe tedesche e i repubblichini non potendo resistere al bombardamento del Senio, si erano sparpagliati nei dintorni costringendoci al combattimento personale…" (23). Il "Cremona" con all’avanguardia la colonna del gen. Zanussi supera il fiume in corrispondenza dell'ala sinistra dello schieramento nemico e libera Alfonsine e Fusignano e valica poi, dopo duri combattimenti, il Santerno puntando sulla direttrice della Rotabile Reale. Supera poi la difficile "stretta" di Argenta (Argenta Gap) unico punto non allagato della zona dove dovevano necessariamente passare i reparti alleati. I volontari combattono magistralmente e senza esitazione nelle compagnie più avanzate, mentre gli "anziani" (che tra l'altro si distinguevano dai primi per esser quasi tutti affetti da malaria contratta in Corsica e Sardegna) sono impegnati nei puntuali e precisi reparti di artiglieria. Successivamente al Gruppo viene accordato un breve periodo di riposo, tra l'altro non  pienamente rispettato,  perché alcuni reparti appoggiano un'azione su Comacchio della valorosa 28° Brigata partigiana "Mario Gordini", mentre altri reparti si uniscono all'offensiva inglese sulla strada di Portomaggiore verso Bando. Il 22 aprile tutti i reparti del Gruppo riprendono il loro posto all'avanguardia del V Corpo d'Armata verso il Po lungo la direttrice Portomaggiore-Magliarino-Ariano Polesine. Il 21° del col. Musco conquista Ariano la sera del 23 aprile,  viene liberata Adria,  mentre il 22° del col. Ferrara raggiunge la 56° div. inglese sulla direttrice di Rovigo. Bombardamenti massicci dell'aviazione e delle artiglierie precedono le truppe e i mezzi corazzati. Intanto nella ritirata tedesca l'ultimo reparto della "Decima" ad abbandonare il Senio è il gruppo artiglieria "Colleoni" che poi  si ricongiunge col "Barbarigo" e gli "N.P."  Sul Po, fra gli abitati di Bottrighe e Cavanella dal 23 aprile, si trova il Btg. "Lupo" che attende sulla riva sinistra del fiume gli altri reparti fascisti. In questi frangenti i reparti della “Decima” costituiscono l'estrema retroguardia dello schieramento nazi-fascista a fronte proprio del "Cremona", avanguardia dello schieramento Alleato (24). Il giorno 25 con la fine delle fasi di trasbordo dei Btg: "Barbarigo", "NP", "Colleoni", "Freccia" termina il completamento dei reparti del I Gruppo della "Decima".Durante l' attraversamento del Po accade un episodio significativo così ricordato dal cap. Stripoli del "Lupo":  "Il mattino del 25 aprile sulla riva destra del Po apparvero uomini che gridavano in italiano di aiutarli a traghettare…in una situazione caotica… gli uomini della 3ª compagnia impulsivamente corsero a dare aiuto a coloro che ritenevano loro camerati. Ma le imbarcazioni del "Lupo" giunte a poche decine di metri dalla riva destra, furono prese sotto il tiro di armi automatiche…alcuni marò caddero in acqua uccisi…Il fatto si deve attribuire a militari italiani del gruppo badogliano Cremona" (25). L'aiuto della popolazione che fornisce vari natanti di fortuna permette in questi frangenti ai soldati del "Cremona" e ai partigiani di Bulow (dal 24 aprile alle dirette dipendenze del Gruppo) di superare in brevissimo tempo anche con i mezzi pesanti rispettivamente il Po di Volano, il Po di Goro ed il ramo principale del Po. Fonti della "Decima" affermano: "Il 20 aprile, per l'arretramento del fronte, il battaglione iniziò il ripiegamento verso nord attraversando il fiume Po in località Oro. A Santa Maria Fornace, i marò sostennero un violento scontro con reparti della brigata "Cremona" del regio esercito del sud (in uniforme britannica)." (26). Un'altra testimonianza della stessa parte conferma che: " Il Btg. NP. all'alba del 24 aprile riesce a respingere una colonna esplorante inglese che si era addentrata nell'Isola di Ariano. Quasi contemporaneamente il Barbarigo viene impegnato, nella zona di Santa Maria in Punta, dal 21° fanteria Cremona e lo respinge con un contrattacco" (27). A questo proposito anche il ten. della "X Mas" Paolo Posio e il marò Franco Burò ricordano: "Quanti morti! Ricordi Roffo? Cadde sotto i colpi di altri italiani, quelli della "Cremona"...Morirono ... tanti  tanti  altri." (28). Quindi soprattutto dopo lo sfondamento sul Senio si ebbero forti scontri fra la X Mas cui, "…toccò ....coprire le spalle alle ultime formazioni germaniche in ritirata, dal Senio verso il nord " e reparti del Regio esercito (29). Addirittura nelle Valli di Comacchio, fra la Sacca di Scordovari e il Po di Venezia, quasi sicuramente avvennero scontri tra reparti italiani appartenenti alla stessa specialità e cioè fra commandos di "NP" del Sud (Mariassalto)  inquadrati nel Rgt. "San Marco" e affiancati reparti speciali anglo-americani e da partigiani locali e "NP" della "X Mas" di Borghese (30). Dumas Remoli, altro pistoiese arruolatosi a 17 anni (21° Rgt. del "Cremona"), ci ha recentemente raccontato dell'annientamento di un reparto fascista che, asserragliato in un cascinale poco dopo il Po, aveva rifiutato di arrendersi ai "cremonini" (31). Mentre il giovanissimo volontario fiorentino del "Cremona", Fagioli, già stretto collaboratore di Bruno Fanciullacci nei GAP fiorentini, scrive: "I fascisti piazzavano le loro Breda in punti particolarmente alti... e da lì sparavano sulla nostra fanteria mettendo in seria difficoltà anche le truppe che avanzavano ... a bordo delle cingolette...Verso Corbola ...individuammo la postazione fascista nella piazza principale...quando finalmente ci trovammo a ridosso...i soldati addetti al pezzo l'avevano già abbandonata raggiungendo il greto del Po...dopo l'Adige ci aspettava il Brenta, continuavamo ad incontrare una certa resistenza...della fanteria tedesca e di alcuni reparti della X Mas fascista..." (32). Il pistoiese Gualtiero Degl'Innocenti, artigliere di leva nel "Cremona" fin dalla Corsica, ricorda un episodio curioso che confermerebbe , tra l'altro, la presenza sul Senio di qualche reparto delle "grandi unità " di cui parla Pisanò: " ...vedemmo un fascista che ci sparava dall'alto di un campanile e lo abbattemmo...Ho saputo poi che... si era salvato. Finita la guerra ci siano ritrovati a lavorare insieme alla Breda!".  Degl'Innocenti ci ha infatti recentemente precisato che "il fascista" , oggi deceduto, era anch'egli un pistoiese arruolato di leva... ma nell'esercito di Salò! (33). I reparti della X non senza difficoltà per la tremenda efficacia dell'azione dell'aviazione alleata, vengono poi dislocati sulla riva sinistra dell'Adige, nei dintorni di Cavarzere, ma neanche in questa zona possono resistere a lungo mentre proseguono gli scontri casa per casa all'interno dell’abitato dove, come conferma una testimonianza, "il 27 aprile si svolse un'aspra battaglia fra "Cremonini" appoggiati dall'aviazione e reparti tedeschi e italiani della "X Mas" (34). La rotta tedesca è ormai completa e soltanto il gruppo Decima si ritira in ordine. Il Btg. "N.P." si dirige verso Venezia dove si trincera nel collegio navale Morosini in attesa degli alleati anglo-americani ai quali si arrende.  Il resto del I Gruppo della Decima marcia in direzione di Conselve e Albignasego, nei dintorni di Padova. Oltre il Brenta, ricorda il "decimino" Tedeschi "... trovammo però che, oltre ai gruppi di partigiani, c'era un Reggimento di lancieri inglesi. E sapevamo di avere alle nostre spalle le Divisioni italiane "Cremona" e "Friuli", più i neozelandesi del generale Freyberg "  (35), e quindi, completamente circondato, si arrende nella notte tra il 28-29 aprile ai neozelandesi. Da parte sua il Cremona dopo aver raggiunto l'Adige e constatato un affievolirsi della resistenza nemica, aveva superato il Bacchiglione e il Brenta, i fanti del 22° e i partigiani di Boldrini si aprivano la strada per Mestre mentre il 21° raggiungeva il 29 aprile Codevigo. Lo stesso giorno alle ore 23 reparti del 21° e del 22° agli ordini del comandante di quest'ultimo innalzavano il tricolore in Piazza San Marco a Venezia. Si concludeva la “cavalcata” che portò il "Cremona" a compiere da Migliarino a Venezia, un balzo di 140 km in sette giorni. Le vicende successive portarono come abbiamo già visto alla definitiva resa dei reparti nazifascisti mentre il "Legnano" ed il "Friuli" avevano già occupato Bologna e con il "Folgore" stavano affiancando l'avanzata alleata nella Pianura Padana. Il "Cremona" nei tre mesi e mezzo di linea ebbe 208 caduti 608 feriti, 73 dispersi , catturò 3218 prigionieri nemici, e vario materiale bellico. Ricorda ancora Lupini: “Al fiume Po catturammo una colonna di tedeschi di circa 300 uomini e 10 automezzi Fiat, nuovi e non ancora targati (4 autobus e 6 camion Lancia Ro), pieni di refurtiva razziata durante la ritirata; a Serravalle un autobus pieno di viveri e vestiario fu consegnato e distribuito alla popolazione” (36). In taluni desta ancora oggi commozione rivedere la foto di questi ragazzi che entrano sorridenti in Venezia su un cingolato con la bandiera nazionale con lo scudo sabaudo capovolto, forse in spregio a "casa Savoia". Gli uomini del "Cremona" ebbero numerosi decorazioni e riconoscimenti da parte degli Alleati ed anche la giornalista dal fronte Clara Boothe Luce, poi ambasciatrice in Italia, ebbe a scrivere al gen. Primieri che: “...gli Americani guardano con entusiasmo e speranza verso la pagina di storia che il Gruppo Cremona sta scrivendo” (37). Dice di nuovo Lupini: “Fummo tanto stimati per coraggio e umanità che, dopo il 25 aprile, per un mese affiancammo la polizia militare inglese che accorreva dove minacciavano di linciare qualche soldato Repubblichino sbandato. Ricordo le feste della popolazione specialmente nell'accorgersi che eravamo Italiani" (38). Generalmente accadde questo, tuttavia, per la verità, vi furono alcuni episodi (Cavarzere, Codevigo) di "resa dei conti" verso i fascisti che probabilmente videro implicati anche elementi del Gruppo, episodi verificatosi forse anche per l'estrazione politicamente composita dei volontari del "Cremona" (39);  Manlio Mariani parla infatti della presenza di spesso incontrollabili elementi "anarco-sindacalisti" che avrebbero, tra l'altro, progettato un attentato a Umberto di Savoia sventato poi proprio dalla cellula comunista del "Cremona" e dagli uomini di “Bulow” (40). A questo proposito poco dopo la Liberazione, soprattutto da quando Umberto di Savoia durante un rivista tenutasi il 16 maggio a Piove di Sacco ed a Codevigo, fu sonoramente fischiato dai "cremonini", ebbe termine l'esperimento democratico del "Cremona": la divisione fu spostata in Piemonte, gli ex-partigiani via via di forza congedati, gli ufficiali più vicini alle istanze democratiche trasferiti e tutto ritornò alla normalità "badogliana". Quindi, come abbiamo visto, gli scontri tra italiani avvennero sicuramente, non furono certo grandi battaglie e non potevano esserlo e non voglio enfatizzare questo aspetto, significativo, ma in fondo non determinante, ma evidenziarlo nelle sue giuste dimensioni, considerando che spesso in sede storiografica si è dato importanza a episodi molto meno significativi. In tal senso è bene concludere rilevando le motivazioni che hanno indotto molti storici a trascurare (nel migliore dei casi) questi scontri o ad ignorarli (quasi generalmente), o sottovalutarli o a negarli (abbastanza spesso).  Quella degli "scontri" è stata per quasi tutti una verità scomoda: la storiografia vicina alla sinistra per lungo tempo ha evidenziato (giustamente) il valore della lotta partigiana e delle Brigate Garibaldi nella Liberazione, ma ha teso a sottovalutare però (ingiustamente) i contributi di altre formazioni partigiane di diverso colore politico, il ruolo delle forze armate subito dopo l'8 settembre (Cefalonia ad es.)  ed oltre (la Divisione Garibaldi in Jugoslavia, gli IMI, il CIL etc.) tendendo a circoscrivere l'esperienza delle forze armate di Salò alla repressione antipartigiana. Non  si voleva in sostanza dare dignità combattentistica "al fronte" all'esercito di Salò (che, seppur secondaria, ha avuto) e nel contempo non si volevano esaltare troppo i "badogliani" (ma ad es. si possono tout-court considerare "badogliani" “quelli” del "Cremona"?). Viceversa la storiografia vicina a Salò ha ovviamente esaltato e "gonfiato" il contributo delle forze armate “repubblichine”, criminalizzando il movimento partigiano e se ha fornito qualche testimonianza di reduci che si sono scontrati con l'esercito "badogliano" la ha fatto sempre in sordina. Da parte degli ambienti militari filomonarchici si è voluto invece apertamente negare gli scontri per unirsi alla destra, oltre che per le ragioni di cui ho parlato sopra (militari "gentiluomini"), anche per circoscrivere le "responsabilità" della "guerra civile" ai partigiani ed, al limite, alle brigate nere (come se la X Mas e le 4 "grandi unità” non vi avessero ad es. partecipato!). Vorrei concludere rilevando che se questa mia ricerca ha dimostrato, come credo e come anche ha avuto la gentilezza di confermarmi Giampaolo Pansa in una sua recente telefonata, che gli scontri ci furono e vennero negarti per queste ragioni, non ho tuttavia con essa assolutamente inteso dare pari dignità morale a Salò ed alla Resistenza. Penso tra l'altro che, al di là delle valutazioni politiche contingenti che nel corso del tempo finiscono fatalmente per connotare di valenze diverse il giudizio storico su persone ed avvenimenti, il nostro Paese debba ancor oggi rendere omaggio a questi soldati dei Gruppi di Combattimento. Molti di loro (i "vecchi" di leva) potevano facilmente disertare senza eccessive conseguenze dato il clima confuso del periodo, molti altri, che avevano già dato il loro contributo nelle file della Resistenza partigiana, potevano tranquillamente rimanersene a casa. Combatterono valorosamente ed, è bene sottolinearlo, dalla parte giusta, non perché dalla parte dei vincitori, ma perché dall'altra parte, al di là del valore e anche della buonafede di numerosi combattenti, stavano pur sempre i crimini orribili prodotti dal sistema nazista, che seppur ignoti allora nell'ampiezza della loro portata, tutto il mondo ha poi giustamente esecrato.

 

Carlo Onofrio Gori  

 

(Tratto dagli articoli: C.O. Gori, Senio e dintorni, “QF-Quaderni di Farestoria” , a. 3, n. 5 (dic. 2001) e C.O. Gori, Quando il nemico era italiano. Gli scontri tra il Gruppo Cremona e la X Mas sulla linea del Senio, “Microstoria”, a. 3, n. 18 (lug./ago. 2001).

   

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Note:

 

1) C.O. Gori, Quando il nemico era italiano. Gli scontri tra il Gruppo Cremona e la X Mas sulla linea del Senio, in: "Microstoria", n. 18 (lug./ago. 2001).

2) Cfr. A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell'odio e della violenza, Milano, A.Mondadori, 1999, pagg. 177-178.

3): “...di queste benedette divisioni italiane che tennero il fronte per mesi e liberarono l'Italia orientale si scordano tutti. Va bene che avere visto a 20 anni Venezia libera impazzita di gioia è già molto..." in: M. Mariani, Risponde Mario Mariani, in: “Storia illustrata”, n. 303 (feb. 1983).

4)  F. Bandini e A. Ricchezza, Italiani nella bufera. Parte seconda, in: "La Domenica del Corriere" (1965), fasc. 11, pag. 36.

5) U. Franzolin, in: "Il Meridiano d'Italia" (19 nov. 1945), cit. in:  http:// www.italia-rsi.org/

6) G. Pisanò, Storie della guerra civile in Italia, 1943-1945, Milano, FPE, 1965-1966,   pag. 1240

7) L. Garibaldi, La guerra (non è) perduta. Gli ufficiali italiani nell'8a armata britannica (1943-1945), Milano, Ares, 1998, pag. 122 e 237.

8) cfr. Public Record Office, War Office Papers, AFHQ, WO 204/6669,. in: L. Garibaldi, La guerra…cit., pagg.121-122.

9) Cfr. G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde. Storie delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945, Milano, FPE, 1967, pag. 1155. La testimonianza conclude che nottetempo alcuni " repubblichini" traversarono il fiume per lasciare a mo' di sfida un cartello segnalante la loro presenza ai "regi".

10) L. Garibaldi, La guerra... cit., pag. 122 e 237.

11) E. Faldella, Come nacque il nuovo esercito, in "Storia illustrata", n. 89 (apr. 1965), pag. 584.

12) A. Petacco, Come eravamo  negli anni di guerra. Cronaca e costume 1940/1945, Novara, De Agostini, 1984, pag. 158.

13) L. Garibaldi, La guerra…cit., pagg.121-122.

14) E. Maluta, Btg. Lupo...in: http://www.decima-mas.net/frames2.htm

15) R. Lazzero, La Decima Mas, Milano, Rizzoli, 1984, pag. 220.

16) Cfr. A. Fagioli, Partigiano a 15 anni, Firenze, Alfa, 1986., pag. 396 e segg.; L.Guermandi-G.Verni, Firenze, in: Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra/ Walk over, 1984, vol. II, pag. 364; R. Corsini-V. Ghelli, Franco Andreini. Storia di un ragazzo come te, Pistoia, CRT, 1996 e cfr. anche: R. Corsini, Quei ragazzi del '45, in: "Il Tirreno-Pistoia" (21 feb. 1995) , R. Risaliti, Pistoia, in: Enciclopedia...op. cit., pag. 640.

17) Cfr. E. Musco, in: Convegno di studi... Alfonsine ...1974, Bologna, Graficoop, 1975.

18) R. Lupini, Testimonianza diretta di Ruggero Lupini, in: "L'Eco del Sarrasanta", n. 6 (25 mar. 2001), in: "Gualdo Tadino news", cit. in:  http://www.geocities.com/ecodelserrasanta/20010325/10losfo.html

19) Cfr. (tra gli  altri) Lo strano soldato Lo strano soldato, autobiografia della brigata Garibaldi "Spartaco Lavagnini", pagg. 280-295 Milano, La Pietra, 1976,  pagg. 280-295;   M.Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Parma, Guanda, 1975, pp.221-224; E. Nizza, Cremona, Gruppo di Combattimento, in: Enciclopedia... op. cit. , vol. I, pp. 704-711; G. Boatti, Partigiani volontari nel Regio Esercito: l'esperienza del Gruppo di Combattimento Cremona, in: Linea Gotica 1944..., Milano, F. Angeli, 1986, pp.153-160. La disciplina dei partigiani di “Bulow” la riconosce anche Luciano Garibaldi: "Vi sono partigiani comunisti (specie nel Montefeltro, o nel Ravennate, dove comanda  Arrigo Boldrini, il "comandante Bulow") che accettano disciplinatamente di mettersi agli ordini dei giovanissimi ufficiali monarchici con la divisa britannica e le stellette del Regio Esercito giunti con i reparti dell' 8ª Armata", cfr. L. Garibaldi, La guerra…cit., pag. 123.

20) Testimonianza diretta di Ruggero Lupini.... cit.

21) G. Pisanò, Gli ultimi…cit. , pagg. 1115-1116; cfr. anche: G. La Vizzera, Il battaglione Barbarigo, in "Storia del XX secolo", n. 2 (giu. 1995), in: http:// www.italia-rsi.org/farsixa/xabarbarigo.html   e cfr.   Cfr.: E. Maluta, Btg. Lupo...in: http://www.decima-mas.net/frames2.htm  (23 mag. 2001).

22) L. Poli, La guerra di Liberazione 1943-1945, in: http://www.istrid.difesa.it/guerra_di%20_liberazione/libro_poli.htm 

23) R. Lupini, Testimonianza.... cit.

24) E. Maluta, Btg. Lupo… cit

25) Cit. in G. Pisanò, Gli ultimi…cit. , pagg. 1137-1138, sull'episodio cfr. anche: N. Arena, I paracadutisti. Storia, cronaca immagini del paracadutismo militare italiano, Parma, Albertelli, 1996., pag. 226.

26) G. La Vizzera, Il battaglione Barbarigo, in "Storia del XX secolo", n. 2 (giu. 1995), in: http:// www.italia-rsi.org/farsixa/xabarbarigo.html

27) ibidem

28) M. Tedeschi, Sì bella e perduta. Storia del battaglione Barbarigo e dell'amor di patria, Roma, Serarcangeli, 1994,  in: http://web.tin.it/tedeschi/si8.htm  

29) Ibidem

30) A.Zarotti , NP. I  nuotatori paracadutisti, Milano, Auriga , 1994 cap.  "A ranghi compatti" pag. 194: "Ma lasciamo la parola all'Ufficio Storico della Marina che così parla degli N.P. del Sud e delle loro imprese" in:  http://www.decima-mas.net/frames2.htm.

31) Testimonianza di D. Remoli a Carlo O. Gori registrata il  (23 mag. 2001).

32) A. Fagioli, Partigiano .... cit., pag. 396-400.

33) Testimonianza di G. Degl'Innocenti a C. O. Gori registrata il  (23 mag. 2001). Cfr. anche:  Franco Andreini.... cit., pag. 42 l'episodio è riportato con altre parole anche in: La guerra che ho vissuto, Firenze, Coop, 1997, pag. 144.

34) Cit. in: M. Rossi in: http:// www.intermarx.com/ossto/rossifn.html 

35) G. Farotti, Nessuno ci ha piegati. Intervista con il tenente Giorgio Farotti, ufficiale effettivo tra i volontari della Decima, in: M. Tedeschi, Sì bella e perduta. Storia del battaglione Barbarigo e dell'amor di patria, Roma, Serarcangeli, 1994  in http://web.tin.it/tedeschi/si8.htm

36) R. Lupini, Testimonianza... . cit.

37) A. Ricchezza, Il Gruppo Cremona entra in Venezia, in "Storia illustrata", n. 317 (apr. 1984).

38) Testimonianza diretta di Ruggero Lupini.... cit.

39) M. Rossi, Ricerca storica contro il revisionismo. Il caso di Codevigo, in: http://www.intermarx.com/ossto/rossifn.html (23 mag. 2001).

40) Cfr.: A. Boldrini, Diario di Bulow, Milano, Vangelista, 1985, pag.237; A. Ricchezza, Quando i soldati contestarono Umberto..., in "Storia illustrata", n. 300 (nov. 1982); M. Mariani, Però quei fischi gli salvarono la vita, ivi;  E. Musco, Un ricordo incancellabile, in "Storia illustrata", n. 303 (feb. 1983);  G. Cantagalli, Nasceva un'Italia nuova, ivi;  A. Pacciarini, Facevo parte dei sospettati, ibidem;  M. Mariani, Risponde Mario Mariani, ibidem; su Umberto di Savoia  cfr.: G. Oliva, Umberto II. L'ultimo re, Milano, Mondadori, 2000.

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Brasiliani a Pistoia (1944-1945)

       

Pochi lo sanno ma a Pistoia, alla deviazione della strada montalese presso il tabernacolo di Seiarcole, esiste un Sacrario Brasiliano, l’unico in Italia.

Lo spazio, disegnato da Redig de Campos fra i filari di viti della campagna di San Rocco che a stento resiste all'avanzare delle costruzioni, ha oggi ben poco del Cimitero Militare come in effetti lo è stato fino al 1960 quando le spoglie dei caduti vennero - salvo una - portate in patria. Nessun cancello impedisce l’ingresso all’area ben curata in cui si alternano prati, giardini alberi di vario tipo, interrotti da un ampio viale che conduce ad un altare poggiante su un basamento cruciforme bianco, sovrastato da un alto padiglione che allude al calice liturgico, un altro padiglione sul lato destro ricorda una tenda militare, le sagome si stagliano di fronte ad una grande parete di pietra dove sono incisi i nomi dei caduti - alcuni di evidenti origini italiane - che si riflettono sull’acqua della lunga ed ampia vasca antistante. Il fuoco di un braciere che arde perennemente sullo sfondo suggestivo delle colline, che costituivano i primi contrafforti della Linea Gotica sembra ricordare i luoghi dove combatterono i soldati brasiliani. Desta curiosità pensare a dei brasiliani "guerrieri" nel freddo e nevoso inverno appenninico; nel nostro immaginario collettivo il Brasile, malgrado le innegabili contraddizioni sociali, evoca comunque sensazioni di allegria tropicale, sorge quindi la domanda sul perché il pacifico Brasile si unì agli Alleati nel 1944 nell'ultima fase della Seconda Guerra Mondiale e quattrocentosessantacinque di questi ragazzi, che anche la televisione qualche tempo fa nel ciclo di Combat-Film ci ha mostrato cantare e ballare con la vivacità che contraddistingue quel popolo, caddero in combattimento per la liberazione di un paese lontano dal loro e vennero sepolti a Pistoia. Il populista Getulio Vargas era al potere dal 1930 (lo sarà fino al 1954), con un golpe nel 1937 proclamò il corporativo Estado Novo e divenne dittatore. Il suo governo, una sorta di fascismo moderato, era in lotta contro i comunisti di Prestes a sinistra, ed a destra contro i fascisti "puri" del movimento integralista sostenuto da Germania e Italia. Quattro date preludono all’intervento brasiliano: il vertice interamericano del luglio 1940 all’Avana, che aveva sancito l'obbligo per i paesi aderenti ad affiancare chi fosse stato aggredito da potenze straniere, la rottura delle relazioni diplomatiche con Italia, Germania e Giappone nel gennaio 1942, la dichiarazione di guerra dell’agosto 1942 seguita all'affondamento di navi brasiliane da parte dei tedeschi e l’incontro di Natal del gennaio 1943 fra Roosevelt e Vargas che decise l’effettivo intervento brasiliano. In pratica la guerra a fianco degli alleati sancì il rafforzamento dei legami politici ed economici con gli USA e il formale ritorno al costituzionalismo liberale da parte di Vargas. Mentre la popolazione si mobilitava in vari modi per sostenere lo sforzo bellico, venticinquemila uomini saranno via via inquadrati nella Fôrça Expedicionária Brasileira (FEB) ed inviati in Italia. 

Un serpente con in bocca la pipa - racconta lo scrittore Jô Soares - era il simbolo della FEB, la voce popolare diceva infatti che era più facile che un serpente fumasse che il Brasile scendesse in guerra, ma: "Poi il serpente fumò". E per i brasiliani fu guerra vera. La FEB, dotata di una propria forza aerea, sbarcò a Napoli nel luglio 1944 e dopo un periodo di addestramento a San Rossore, ebbe a metà settembre il pass dal comando statunitense inizialmente propenso ad utilizzarla come truppa di retrovia - per entrare in linea. In quel periodo i tedeschi - in Toscana erano appena state liberate Prato e Pistoia - si stavano attestando sulla Linea Gotica che da Massa, traversati i principali passi e monti dell’Appennino, scendeva lungo la Valle del Foglia fino all’Adriatico. Schierata il 15 settembre sul Litorale Tirrenico la FEB iniziò subito le operazioni che da Massarosa a Camaiore e poi per la Valle del Serchio la portarono a liberare numerose località della Garfagnana fino a Barga. Da segnalare già in questi frangenti gli scontri anche con reparti italiani delle quattro divisioni dell'esercito di Salò appena rientrate dall’ addestramento in Germania: tedeschi e americani avevano voluto provare le proprie "riserve", sul cui valore combattivo nutrivano non pochi dubbi. Stabilito il quartier generale Pistoia, la FEB venne, alla fine di ottobre, trasferita nella Valle del Reno. Con l’avanzare del fronte appenninico nell’ inverno 1944/45 la FEB colse importanti vittorie, in particolare vengono ricordate quelle di Monte Castello - posizione tenuta dai tedeschi che aveva fama di essere imprendibile - Castelnuovo, Montese, Zocca e, dopo lo sfondamento nella Pianura Padana, nell’aprile del 1945 quella di Fornovo, dove costrinse alla resa la 148a divisione tedesca e reparti delle divisioni fasciste Italia e Monterosa. La FEB proseguì poi la sua marcia fino al congiungimento con l’esercito francese a Susa. Il 30 aprile 1945, a Milano, nella parata della vittoria, anche un reparto della FEB sfilò insieme ad americani, inglesi, italiani del Gruppo di Combattimento Legnano e partigiani. Ciò a suggello della buona prova militare che offrì la FEB in Italia, dove si distinse anche per la grande disponibilità alla collaborazione con le forze partigiane, per spirito cavalleresco verso il nemico vinto e per l’attenzione alla popolazione ed uno spirito umanitario non frequenti. A Pistoia i brasiliani hanno lasciato un bel Monumento ed un buon ricordo. Nella città toscana fino al rimpatrio funzionò il Quartier Generale di Retrovia dove erano concentrati i più importanti servizi della FEB: l’ Ospedale da Campo, l’Intendenza di Finanza in Piazza S. Lorenzo, il Magazzino in via dei Baroni, il Parco Auto, il Servizio Postale ed, in via Monte Sabotino, una grossa Stazione Radio in collegamento diretto col comando in Brasile. I pistoiesi rimasero subito incuriositi dal fatto che i reparti brasiliani, a differenza degli statunitensi a quel tempo ancora "segregati", fossero misti di bianchi e neri. I medici dell’Ospedale da Campo, che aveva sede in Piazza d’Armi , si prodigarono spesso anche per i cittadini e col tempo - come ci ricorda Miguel Pereira in una sua preziosa e toccante testimonianza - si alimentò un clima di affabilità, nacquero amicizie ed anche amori, in alcuni casi, come il suo, divenuti matrimoni.

Carlo Onofrio Gori

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Gli irriducibili fascisti pistoiesi della Valtellina (1944-1945)

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A quasi sette mesi dalla liberazione di Pistoia (8 settembre 1944) scoppiava l’insurrezione in Nord Italia ed alle ore 15 del 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, veniva fucilato Benito Mussolini. Un paio d’ore dopo, ad una distanza di una cinquantina di chilometri, a Ponte in Valtellina, cominciavano ad arrendersi ai partigiani gli ultimi fascisti in armi: tra i molti toscani presenti nelle loro file troviamo anche alcuni pistoiesi capeggiati da Giorgio Pisanò. Ma chi erano questi “irriducibili” a cui accenna anche Pansa nel suo recente e discusso libro? (1) Per rispondere alla domanda oltre a consultare i vari scritti di Giorgio Pisanò, storico e senatore neofascista, scomparso nel 1997, e di altri, (2) occorre sfogliare il giornale pistoiese degli universitari fascisti repubblicani "Tempo nostro”, uscito come supplemento al periodico federale “Il Ferruccio” fra il novembre 1943 ed il maggio 1944.  L'8 settembre 1943, il ferrarese Pisanò si trovava solo da pochi giorni a Pistoia, dove era stato trasferito il padre, funzionario di prefettura. Quella sera, racconta, pianse all’annuncio dell’Armistizio, ma trovò ben presto la solidarietà di un piccolo gruppo di giovani tra i quali Maurizio Degl’Innocenti, Valerio Cappelli, Rolando Chelucci, Ruy Blas Biagi, Mafilas Manini, Agostino Danesi che insieme ad altri, con l'arrivo dei tedeschi, riapriranno la federazione fascista. (3) Dalla lettura di “Tempo nostro” si coglie subito che per loro non ci saranno dubbi, ripensamenti o possibilità di sosta in “zone grigie"  per precostituirsi quegli alibi che premetteranno ad altri, nel dopoguerra, di giustificarsi di aver indossato le divise della RSI, adducendo per attenuanti costrizioni o necessità, oppure lo scopo di porre un freno alle rappresaglie naziste verso un paese “traditore”. Ne è testimonianza inequivocabile il titolo di alcune rubriche del giornale, “Misteri” ed “Al muro”, in cui, invocando esemplari punizioni,  i giovani “repubblichini” pistoiesi fanno i nomi, non soltanto di coetanei militanti nelle formazioni partigiane (Fedi, La Loggia, Panconesi, ecc.), ma anche di chi, già fascista, dopo il 25 luglio ha tradito, oppure di chi ha aderito alla RSI per convenienza come ad es. “i molti ufficiali…che...si sono ripresentati per il maledetto e lurido stipendio”. (4) In questo contesto emerge ben presto la delusione degli articolisti, capeggiati dal direttore Manini, che nota: “il rinnovo ancora non c’è... sono sempre le solite facce. E le solite facce non sono fascisti puri” che continuano ad agire "nel clima di sempre, bigio ed insincero”. (5) Danesi rincara la dose: “prima del 25 luglio se le cose non andavano bene si poteva dire, a ragione che forze occulte lavoravano contro lo Stato Fascista; ma oggi? ...a tutt'oggi e nei fatti la politica del Partito Fascista Repubblicano non differisce affatto da quella del Partito Nazionale Fascista”. (6) In effetti a Pistoia “…di fatto la composizione del partito ricalcava il vecchio organigramma”. (7) Ma allora in che modo i giovani fascisti pistoiesi, alcuni dei quali sensibili alle vaghe istanze socializzanti di Salò, (8)  potevano affermarsi come artefici del “rinnovamento repubblicano”? Scrive Manini: “Appartenere al PFR deve essere titolo d'onore... Il destino ci offre l'occasione…Sarà impugnando le armi contro il nemico...che ritroveremo noi stessi, sarà nella battaglia che saremo vagliati". (9) Così alcuni coerentemente partono arruolandosi come allievi ufficiali nelle varie formazioni di Salò: Pisanò, Manini, Degl’Innocenti, Stelvio Dal Piaz, Ennio Albano, Leo Maccioni, Luciano Savino, ecc. (10 ) Fra questi si conteranno ben presto i primi caduti come Valerio Cappelli (GNR) e il “parà” Rolando Chelucci, mentre Ruy Blas Biagi  (“NP” X Mas) verrà fucilato dagli alleati presso Firenze dopo un’azione di sabotaggio oltre le linee nemiche. Cosa fanno quelli che restano lo si evince da un articolo di Enzo Pasi in cui traspare tutto lo sgomento e l'irritazione per l'isolamento che ormai sempre più li circonda: “Abbiamo partecipato...alle azioni di rastrellamento e di polizia effettuate tempo addietro nella nostra città e in altre zone limitrofe...Abbiamo veduto nei vostri occhi il timore, il risentimento, spesso l'odio e ne abbiamo sofferto ...Non siamo affatto presi dal gusto d'imprigionare la gente...abbiamo agito, più ancora agiremo, perché tra voi esistevano ... degli elementi sobillatori, degli sfruttatori del popolo, dei badogliani convinti e militanti, dei renitenti sordi alla voce della Patria, dei ricettatori  di prigionieri nemici...Noi vi tendiamo la mano e voi ci sputate sopra...non capite che la giusta...sistemazione del vostro avvenire riposa nella vittoria del Tripartito?. E perché allora rifiutate di collaborare...? O forse attendete...i “liberatori”? Badate a voi! ...Vogliamo aiutarvi anche se non lo volete....Risvegliatevi. Dio è con noi, per la nostra Vittoria”. (11) Ma fra bombardamenti alleati ed azioni della Resistenza si avvicina piuttosto la Liberazione e la resa dei conti:  infatti anche nel pistoiese “dopo il marzo 1944 si assiste ad un rafforzamento sempre più rapido del dispositivo politico-militare delle formazioni partigiane" (12), soprattutto da quando la guida del CLN locale era passata nel maggio 1944 al comunista Italo Carobbi.  Inoltre dalla metà del giugno ’44 a Pistoia ed in gran parte della Toscana, dopo le notizie della liberazione di Roma e dello sbarco in Normandia, si sfalda rapidamente l’apparato governativo di Salò e, mentre tutto il potere si va concentrando nelle mani dei tedeschi, le federazioni fasciste delle province di Firenze, Livorno, Pistoia e Arezzo dispongono lo sfollamento dei propri militanti e delle loro famiglie in Valtellina. (13 )  La scelta cade sulla provincia di Sondrio, sia perché nota zona turistica con strutture alberghiere ampiamente attrezzate per accogliere un notevole numero di rifugiati, sia perché ben presto la Valtellina sarà prescelta da Mussolini, su proposta del segretario del PFR, il fiorentino Pavolini, per istituirvi il cosiddetto Ridotto Alpino Repubblicano, cioè l'ultima difesa della RSI. Quindi una cinquantina di fascisti pistoiesi con le loro famiglie, in tutto circa 200 persone, si sistemano nel giugno-luglio ’44 a Bormio e dintorni, e ben presto, secondo un rapporto della GNR locale, si distinguono perché “…Scorrazzano ovunque arbitrariamente, perquisendo e minacciando i cittadini e considerando l’Alta valle terra di conquista”  anzi tra loro stessi, nota la stessa fonte, “regnano forti dissidi, tanto che non hanno … ancora stabilito chi debba essere il loro comandante”. (14) Vengono ricordati fra i più “…duri e decisi i fratelli Danesi, amici di Pisanò….Renzo Barbini, ufficiale della “Gatti” poi fucilato alla fine delle ostilità, oppure la famiglia Evangelisti”. (15) A loro si uniranno verso il 20 aprile ‘45,  Manini e Pisanò, che fino ad allora avevano svolto compiti di agenti segreti nell’Italia liberata. Essi si accorgono subito dell’inconsistenza militare del ridotto valtellinese: la strada principale che passa sul fondovalle a fianco del fiume Adda è spesso sotto il tiro dei partigiani, particolarmente attivi dall’estate ’44, che sparano dall'alto dei versanti nascosti nella fitta vegetazione prealpina, isolando progressivamente i fascisti in centri abitati praticamente scollegati l’uno dall’altro. In aprile ormai i partigiani delle Fiamme Verdi già controllano gran parte della Alta Valle, mentre le Brigate Garibaldi risalgono dalla parte inferiore vicina al Lago di Como. Al fianco dei “repubblichini”, curiosamente, si trova in Valtellina anche un battaglione di fascisti francesi della Milice, comandati da Joseph Darnand, ministro degli interni di Vichy, scampati all’avanzata alleata e degaullista in Francia. Pisanò con la  squadra d’azione pistoiese, autonoma e solo formalmente dipendente dalla Brigata nera locale, cerca di collegare i presidi di Mazzo e di Grosio, ma ben presto deve ritirarsi con gli altri reparti fascisti a Tirano con lo scopo di dirigersi successivamente a Sondrio per un’ultima resistenza. La colonna, composta di circa 600 uomini e ben armata, quando si trova nei pressi del Santuario di Madonna di Tirano, a poche centinaia di metri dal confine Svizzero, viene però inchiodata fino a sera dal fitto tiro delle mitragliatrici partigiane. Solo a notte fonda un gruppo riuscirà a sganciarsi ed a raggiungere Ponte dove il giorno dopo sarà, non senza difficoltà, convinto a gettare le armi dallo stesso comandante fascista, generale Onori che già aveva capitolato a Sondrio. La resa definitiva del cosiddetto “Ridotto Alpino Repubblicano” avverrà, dopo aspri combattimenti, il giorno successivo a Tirano. Dopo la Liberazione furono tutto sommato rari ed isolati i casi di violenze e rappresaglie verso gli sfollati civili toscani in Valtellina, mentre invece non pochi dei loro parenti in armi, legionari della GNR e squadristi delle BN, compresi alcuni pistoiesi, non si sottrarranno a stragi e vendette. (16 ) Andrà bene invece, in questi frangenti conta molto anche il caso,  a  Pisanò, Danesi ed altri che rimarranno prigionieri, mentre Manini morirà di malattia, in clandestinità, a Milano. Fra coloro che non avranno alcuna possibilità di cavarsela, Darnand ed i collaborazionisti francesi che, consegnati a De Gaulle, verranno tutti, sistematicamente, giustiziati. 

Carlo Onofrio Gori     

                                                                                                                              

Note:

1) G. Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, 2003, pp. 66-77.

2) Cfr. G. Pisanò: Gli ultimi in grigioverde, Milano, 1965;  La generazione che non si è arresa, Milano, 1964; Storia della guerra civile in Italia, Milano, 1966; Io fascista, Milano, 1997; R. Lazzero, Le brigate nere, Milano, 1983; M. Fini-F. Giannantoni, La resistenza più lunga: lotta partigiana in Valtellina 1943-1945, Milano, 1979;  A. Rossi, Sfollati toscani in Valtellina, in “Farestoria”, n. 22, 1994, ecc.

3) Cfr. G. Pisanò, Io fascista, cit. p. 16. Oltre ai collaboratori qui ricordati,  sul periodico compaiono anche articoli di:  Leopoldo Romoli, Marcello Vannuccini, Loris Lenzi, Guido Gherardenghi, Salvatore Sanvoisin, Enzo Allegri, Alessando Piccolini, Silvestro Fierabracci.

4) S. Dal Piaz, Attenzione ai profittatori, in “Tempo nostro”,  25.12.1943

5) M. Manini, Rinascita, in “Tempo nostro”,  10.11.1943; M. Manini, Non deludere, in “Tempo nostro”, 25.12.1943.

6) A. Danesi,  Promettere e mantenere, , in “Tempo nostro”,  25.12.1943.

7) L. Bruschi-M. Francini, Il fascismo pistoiese durante la guerra, in Pistoia tre anni 1945-1945. Identità di una città in guerra, Pistoia, 1980, p. 10

8) “Il Ferruccio”, 10.10.1943.

 9) M. Manini, Rinascita, in “Tempo nostro”,  10.11.1943.

10) I giovani fascisti repubblicani partono, in “Tempo nostro”,  25.12.1943. In seguito a queste partenze molti articoli saranno firmati da donne: Berta Carrara, Maria Antonietta Orsini, Sara Benesperi, Arianna Lenzi, ecc.

11) E. Pasi, Ai pistoiesi, in “Tempo nostro”,  23.5.1944.

12) R. Risaliti, La Resistenza a Pistoia. Aspetti e caratteri, in Pistoia tre anni 1945-1945, cit. pp. 27-28.

13) A. Rossi, Sfollati toscani …cit., pp. 3-4.

14) Notiziario della GNR di Sondrio, Novembre 1944, AICSML Como, cit. in A. Rossi, Sfollati toscani …cit., p. 4.

15) A. Rossi, Sfollati toscani …cit., p. 5.  Da notare che Marcello Danesi, cugino dei ricordati, è un caduto della Resistenza al quale è stata poi  intitolata una piazza di Pistoia.

16) ivi, pp. 10-11. Si salveranno anche gli altri collaboratori di “Tempo nostro” non presenti in Valle, il nome di qualcuno lo risentiremo in più recenti cronache legate al caso Gelli-P2 

 

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La “repubblica conciliare” pistoiese, prematura e discussa, ma “utile” anticipazione del “compromesso storico”.

Era 17 dicembre 1968 quando il Presidente della Provincia di Pistoia, Vincenzo Nardi aprì seduta consiliare con queste parole: “la dichiarazione programmatica che ho l'onore di fare è frutto della elaborazione di una commissione della DC, del PSU e del PCI”. Nasceva così ufficialmente la “repubblica conciliare pistoiese” il cui significato, forse anche al di là degli stessi propositi dei protagonisti che sicuramente ne percepivano l'eccezionalità, ebbe subito rilevanza politica nazionale. Un esperimento, di lunga gestazione e breve vita, clamoroso ed inconsueto per il periodo in cui si svolse perché per la prima volta in Italia dal 1947 cadeva la pregiudiziale democristiana nei confronti del PCI e, seppur a livello di un governo locale, tornava la collaborazione. Imperversava la contestazione studentesca e si profilava l’ “autunno caldo” operaio del ’69, ma tutti i maggiori quotidiani e periodici italiani, spesso con firme prestigiose, come ad es. quella di Vittorio Gorresio su “La Stampa”, dovettero occuparsi anche della vicenda pistoiese. La città che, come gran parte della “provincia” italiana, aveva fino ad allora vissuto in modo un po’ attutito gli echi di grandi eventi internazionali (Concilio Vaticano II, rivoluzione cubana, Vietnam, maggio francese, invasione di Praga, , ecc.) si trovò così, forse suo malgrado, proiettata nel ruolo per lei inconsueto di “laboratorio politico” nazionale. Infatti il discusso accordo fu cercato e realizzato soprattutto perché, incombevano sulla città e sulla provincia due notevoli problemi dai preoccupanti risvolti sul piano occupazionale: il più grave riguardava la SACA, cooperativa di trasporti pubblici nata a Pistoia nel dopoguerra e operante anche nelle province di Lucca, Massa e Firenze, dichiarata in procedura fallimentare per un forte dissesto finanziario dovuto ad un lungo e sfortunato contenzioso con la “Lazzi”; l’altra questione concerneva la più importante industria pistoiese, la “Breda”, il cui continuo stillicidio di personale ne faceva paventare la liquidazione, malgrado le Partecipazioni Statali ne avessero più volte promesso il rilancio. La positiva soluzione di questi problemi, che offuscavano il pur positivo trend dell’economia locale negli anni successivi al “miracolo” industriale italiano, non poteva prescindere dalla governabilità di Comune e Provincia che, nel contesto pistoiese, poteva essere assicurata solo dall' impegno di un ampio arco di forze politiche. Ma vediamo per sommi capi di riassumere la lunga e complessa vicenda. Il processo di unificazione socialista (PSI+PSDI) conseguente al consolidarsi dei governi di centrosinistra (DC-PSI-PSDI-PRI) finì per mettere in crisi nel 1967, sotto la spinta dell' “uomo forte” della socialdemocrazia pistoiese, il potente on. Antonio Cariglia, la tradizionale collaborazione fra PCI e PSI a livello locale. Caddero le giunte monocolori PCI (sostenute dall'esterno dal PSI) al comune (sindaco Corrado Gelli) ed alla provincia (presidente Luigi Nanni), ma mentre la prima venne poi salvata in extremis dagli stessi socialisti, la giunta provinciale fu sostituita (25.9.67) da una giunta minoritaria di centro-sinistra capeggiata dal socialista Vincenzo Nardi. Figura prestigiosa della Resistenza pistoiese ed integerrimo democratico, Nardi si rese ben presto conto di non poter governare se non facendo appello alla collaborazione del PCI, e dopo alterne vicende di scontri e trattative, il comunista Beragnoli, poteva finalmente annunciare in consiglio (30.12.67) il voto favorevole del PCI, motivandolo con la necessità di evitare la gestione commissariale, avvertendo, però, che non era ulteriormente differibile la costituzione di una “nuova maggioranza” che includesse il suo partito. Ormai la giunta comunale comunista era condizionata dall'approvazione socialista, mentre la giunta provinciale di centro-sinistra era subordinata al beneplacito del PCI. L'inedita intesa DC-PCI-PSU era praticamente avviata, anche se ufficialmente il patto non sarà sottoscritto che nel dicembre dell'anno successivo. Una nuova crisi tuttavia sopravvenne nel corso del 1968, soprattutto in seguito agli effetti locali del cattivo esito elettorale del neonato Partito Socialista Unificato alle politiche di quell'anno, e dopo lunghe e complesse trattative si arrivò finalmente e ufficialmente alla soluzione “conciliare” che vide giunta comunale PCI sostenuta dall'esterno dal PSU e dalla benevola astensione DC e la giunta provinciale di centrosinistra sostenuta dall'esterno dal PCI mediante un “accordo programmatico” che impegnava i tre partiti a permanenti consultazioni ed ad una collaborazione qualificante volta alla difesa delle autonomie locali, dell'occupazione ed allo sviluppo economico provinciale. I principali effetti pratici di tali trattative ed intese avevano nel frattempo già visto la felice conclusione della “questione SACA”, quando il Consiglio provinciale aveva varato il CO.PI.T (Consorzio Pistoiese Trasporti) e successivamente vedranno l'avvio a definitiva soluzione della “vicenda Breda” con un nuovo stabilimento ed un ampio piano di sviluppo progettati e garantiti dalle Partecipazioni statali. Principali protagonisti dell'intesa e di questi suoi positivi risultati furono uomini di buona volontà e di sincera fede democratica come i DC Alberto Turco, Luciano Stanghellini, Vittorio Brachi, Florio Colomeiciuc, Angiolo Bianchi, Delio Chiti e Giovan Carlo Iozzelli, i comunisti Spartaco Beragnoli, Franco Monti, Vasco Mati, Luigi Filippini e Sergio Tesi, i socialisti Nardi e Luigi Franconi. A Pistoia si cercò soprattutto un accordo politico-amministrativo e contingente, che tuttavia si caricò strada facendo (principalmente a livello nazionale) di significati politici ben più ampi. In sede locale fu sostenuto soprattutto dalla composita corrente dorotea della DC, ma venne fieramente avversato dalla destra di quel partito e dai fanfaniani; anche il settimanale diocesano “La Vita”, fu critico con l'accordo e con quei cattolici che lo avevano voluto, non brillando così per spirito lungimirante e “giovanneo”. Anche l'ala carigliana del PSU, come, ovviamente, i liberali e le destre, ne furono strenui avversari paventandone il “contagio” a livello nazionale. Laddove più forte cominciava a spirare il vento dell’assemblearismo movimentista e della “nuova sinistra”, e cioè nelle ACLI, nell'area del dissenso cattolico (“Cineforum pistoiese”), nel PSIUP e in parte della stessa base del PCI, si considerò il tutto come un’operazione di vertice volta ad una mera spartizione di potere fra comunisti e cattolici. Il direttore de “La Nazione” Enrico Mattei attaccò subito e con pervicacia l' esperimento definendolo spregiativamente “repubblichetta conciliare”, appoggiato nella sua azione dalla stampa nazionale benpensante, conservatrice e dal neofascista “Lo Specchio”. Guardarono invece con interesse all'iniziativa alcuni esponenti nazionali dei partiti coinvolti e così giunsero a Pistoia i democristiani della corrente di “base” Galloni e Donat Cattin, i comunisti Modica e Napolitano ed il socialista Giolitti. Ben presto però, con l'avvento alla segreteria nazionale di Flaminio Piccoli, ossessionato da una possibile manovra comunista volta a spaccare la DC, e del fanfaniano Otello Verreschi a quella locale, fu decretata la fine dell'esperienza: i democristiani della giunta furono sconfessati dai vertici del partito e, dopo alcuni mesi di agonia, la “repubblica conciliare” pistoiese cessò quando, nella seduta del consiglio provinciale del 6 settembre 1969, a bilancio da poco approvato, gli stessi obbedirono a Piccoli e rassegnarono le dimissioni.

Carlo Onofrio Gori                                                                                                                                 

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Storia della CNA pistoiese in occasione del cinquantesimo anniversario della sua fondazione, 1953-2003.

 

La CNA pistoiese, festeggia quest'anno il cinquantenario della sua fondazione. Era infatti l'aprile 1953 quando alcuni artigiani, il giorno 19, si riunirono in uno stanzino della Corale Mabellini in via della Madonna e "...raccogliendo l'appello della Confederazione Nazionale dell'Artigianato", costituirono "L'Artigianato Pistoiese" ed elessero il primo Consiglio Direttivo composto da: Bruno Valiani, falegname, Presidente; Venos Buscioni, sarto; Aldino Salvestrini, fonditore; Vittorio Mazzei, parrucchiere per signora; Renato Mori, meccanico; Nello Biagini, tornitore in legno; Gino Cappellini, tappezziere; Fabio Favelli, barbiere; Gino Susini, falegname; Santo Fioravante, verniciatore in pelle; Guglielmo Otello, sarto; Mario Innocenti, falegname; Silvano Giovannetti, meccanico; Ovidio Trinci, falegname; Enrico Chiavacci, staderaio. Questa scelta trovava i suoi concreti presupposti in un altro atto dell'anno precedente quando, per iniziativa di un gruppo di cittadini composto da artigiani, commercianti e coltivatori diretti, si era costituita la Mutua "L'Unitaria".

Fino ad allora gli artigiani pistoiesi erano stati rappresentati unicamente dalla Confederazione Generale dell'Artigianato, oggi nota come Confartigianato, la cui sede era allora in Piazza Garibaldi nello stesso edificio dell'associazione degli industriali. L' ”Artigianato Pistoiese” aderente alla CNA, nacque dunque da una scissione “da sinistra”, nel pieno dei duri anni della ricostruzione e della “guerra fredda”, anni contrassegnati anche in Italia da aspri conflitti sociali e rigide e fideistiche contrapposizioni politiche. Non a caso proprio il 1953 è ricordato, tra l'altro, come l'anno della cosiddetta “legge truffa”, in sostanza un “premio” in seggi per la coalizione governativa guidata dal democristiano De Gasperi che, solo per pochi voti, non poté scattare nelle elezioni del giugno. La CNA pistoiese nacque dunque per semplici motivi di “obbedienza” politica ai partiti di sinistra e per meri fini elettoralistici, come affermò la Confartigianato? Mario Innocenti, l'unico in vita del piccolo gruppo dei fondatori, ha dato recentemente questa risposta: “Noi artigiani, per ovvi motivi politici, ma non solo, non ci sentivamo rappresentati in modo adeguato dalla Confartigianato e quindi pensammo di fondare la Cna con la speranza di ottenere qualcosa in più, soprattutto dal punto di vista dei diritti.” Infatti, in quel periodo di profonde modificazioni in corso nel Paese, dalla disgregazione dell'economia contadina stava nascendo il nuovo artigianato e quella piccola industria che hanno poi caratterizzato l'economia provinciale. Dalle fabbriche tessili di Prato venivano nel contempo espulsi a centinaia i tessitori, dilatando quel fenomeno delle lavorazioni conto terzi che ben presto si sarebbe esteso dal settore dell'abbigliamento a quelli della meccanica, del mobile, del calzaturiero. Per i fondatori del CNA, in questo universo che mutava, la linea della Confederazione Generale dell'Artigianato non poteva dare una risposta adeguata alle aspettative delle categorie artigiane perché inserita in una strategia impostata su una lotta corporativa separata da una lotta sindacale veramente democratica capace di vedere i problemi di tutti, di comprendere la società nel suo complesso e quindi di far crescere l'artigianato insieme a tutto il Paese. Veniva inoltre rimproverata alla Confartigianato una politica di alleanze con la Confindustria e con i partiti governativi segnata da un paternalismo che fino ad allora non aveva risolto i problemi degli artigiani: in primo luogo l'istituzione dell'albo che finalmente avrebbe riconosciuto i doveri, ma anche i diritti, le peculiarità e le esigenze di questa categoria, poi la necessità improrogabile di una tutela sanitaria e pensionistica ed infine, ma soprattutto, la volontà di non esser tagliati fuori dai processi economici e sociali di ricostruzione del Paese. La Cna pistoiese nasce quindi dalla consapevolezza che gli artigiani non potevano aspettarsi tutto questo se rimanevano nel chiuso della loro "bottega" e nelle condizioni di marginalità in cui era nato ed inizialmente cresciuto il fenomeno "artigianato" nel dopoguerra. Subire una politica fatta di concessioni paternalistiche inoltre avrebbe implicato nel medio e nel lungo periodo la paralisi dell'artigianato stesso e dell'economia  in zone di forte presenza artigiana come Agliana e Montale (tessile), Quarrata (mobile e tessile), Monsummano (calzature), Larciano (scope), Pistoia (abbigliamento, meccanica ecc.), la Montagna (meccanica). La CNA intraprende quindi la linea di un diretto e deciso intervento sui problemi della categoria ed è dagli anni in cui il Paese si avvia verso il cosiddetto “boom economico”, che l'Associazione, comincia a riscuotere sempre maggiori adesioni che le permettono da un lato di estendere il gruppo dirigente artigiano e dall'altro di stabilizzare ed allargare lo staff dei funzionari. Vengono aperti uffici o recapiti a Montecatini, Pescia, Larciano, Lamporecchio Agliana, Quarrata, Ponte Buggianese, intanto, mentre a livello territoriale si formano i comitati comunali,  cominciano anche a costituirsi le organizzazioni “verticali” di mestiere. Sergio Cipriani, memorabile segretario della Cna pistoiese dal 1958 al 1975 (e la cui opera sarà poi proseguita da Aldemaro Gori), così oggi descrive quel periodo: “…i nostri rappresentanti andavano bottega per bottega …fu soprattutto con le grandi iniziative di alcune categorie che conquistammo una larga maggioranza fra gli artigiani. I tessitori ad esempio fermarono i telai per oltre venti giorni. Altre grandi iniziative, quali quella degli autotrasportatori, degli acconciatori, degli idraulici e di altri ampliarono la nostra associazione”. Lotte combattute e vinte, incomprese inizialmente dai dirigenti di altre organizzazioni, che hanno segnato, come quelle dei tessili, il destino dell' economia di intere zone “perché – come ci ha detto Rossana Paccagnini - dare al tessitori una tariffa più giusta ha voluto dire lavoro, respiro e sviluppo per l'edilizia, per il commercio, per altre attività produttive, per le professioni, per le finanze comunali di gran parte della provincia.” Intanto, altro segno del consolidamento del CNA pistoiese, nel 1963  l'associazione sposta la sede da via Del Duca  nei locali, acquistati, di via della Madonna n. 33, per lungo tempo sede “storica” dell' “Artigianato Pistoiese”. Molti ricordano le cronache della stampa locale di quegli anni  sovente contrassegnate da un'aspra polemica fra le associazioni artigiane di “Via della Madonna” (CNA) e “Piazza Garibaldi” (Confartigianato), una contrapposizione che, malgrado gli appelli della CNA a trovare l'unità degli artigiani sui problemi concreti, comincerà faticosamente a ricomporsi solo a partire dal 1971 con la prima lotta unitaria nella provincia, per arrivare nel corso degli anni a conseguire varie intese come, ma solo per citarne una, quella attuale sul credito alle imprese (Artigiancredito). Ma torniamo alla Pistoia degli anni Settanta che sono quelli in cui , in coincidenza con il mutamento in senso democratico del Paese (ad es. vengono varate le Regioni), si creano i presupposti dell'artigianato e dell'associazione odierna. E' nel giugno del 1970 che intanto verrà finalmente modificata la legge per la CPA: il Presidente della Commissione dovrà comunque essere un artigiano eletto dalla categoria e cesserà così, anche sotto questo profilo, la abnorme situazione in atto da diversi anni a Pistoia che vedeva alla massima carica rappresentativa dell'Artigianato una persona nominata dal Prefetto. In questo organismo, come nella Cassa Mutua, la CNA pistoiese conquisterà poi, a partire dalle elezioni artigiane di quegli anni, una solida maggioranza.  L'associazione poi, il 16 luglio 1971, istituisce il patronato Epasa, mentre , qualche anno dopo, per la consulenza tributaria, gestionale ed amministrativa, crea il Centro Servizi per l'Artigianato dove, tra l'altro, iniziano “a farsi le ossa” molti funzionari dell'attuale quadro dirigente. Nascono anche i consorzi tra imprese (ad es. la SPAR degli autotrasportatori, il CLAP per le lavanderie, il CAIAP per gli idraulici, ecc.) per facilitare gli acquisti di materie prime e per acquisire i lavori più grandi; quel sistema esiste ancora oggi ed è un valido punto di riferimento per tutta l'economia. Lo sviluppo industriale impone in questo periodo anche alle imprese artigiane nuovi ed adeguati spazi per lavorare e per produrre così a Pistoia viene creata la zona industriale di S. Agostino dove, in via Fermi n. 2,  la CNA costruirà la sua nuova nella quale, dal 5 giugno 1978, trasferirà gli uffici; sempre in questo anno verrà istituito, con le caratteristiche che in parte oggi conosciamo, il Servizio Sanitario Nazionale ed in esso confluirà la Mutua degli artigiani che si era distinta per un alto livello di organizzazione, servizi e strutture. Soffermarsi sulla storia dell'associazione e dell'artigianato a Pistoia in questi ultimi vent'anni segnati dallo sviluppo dell’informatica ci porterebbe a seguire un lungo percorso che si snoda nella cronaca più recente. A grandi linee rileviamo che gli anni Ottanta costituiscono il periodo della qualificazione per lo sviluppo delle imprese, si investe in formazione imprenditoriale, in iniziative collettive di promozione e valorizzazione commerciale dell'artigianato e l'associazione si adegua alle nuove esigenze delle imprese artigiane che crescono e necessitano di servizi e consulenze adeguate. Gli anni Novanta vedono il diffondersi di una nuova cultura imprenditoriale, il sistema dell'artigianato e delle piccole imprese entra sempre più sui mercati esteri,  l'associazione affronta anche i temi internazionali favorendo anche la nascita di consorzi per l'esportazione. In questo 2003 quasi tutto sembra cambiato rispetto a quel 19 aprile 1953, ma, come ha recentemente affermato il Presidente Rinaldo Incerpi,   "Oggi, come allora, la Cna è fatta di donne e uomini che con la loro passione e la loro intelligenza, ogni giorno, si confrontano con problemi e prospettive nuove avendo nel cuore e nella testa la cultura del lavoro quale valore essenziale per la costruzione di una società più giusta". Davvero cinquanta anni ben portati per la CNA pistoiese!

Carlo Onofrio Gori 

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