Un anno di lavoro
Circa un anno fa un gruppo di lavoratori e lavoratrici, precari e disoccupati della zona apuo-versiliese decideva di iniziare un percorso di confronto e di collaborazione sulle questioni del lavoro.
Il primo presupposto di quell’impegno era quello
che gli interessi dei lavoratori non possono essere compresi e difesi meglio
che dai lavoratori stessi, i quali possono sviluppare la propria capacità di
resistenza solo essendo capaci di esprimere un punto di vista autenticamente
indipendente.
Tutte le iniziative che abbiamo promosso si sono
caratterizzate nel senso di stimolare un coordinamento “dal basso” dei
lavoratori, una sorta di rete orizzontale che non annullasse e che al
tempo stesso superasse le varie
appartenenze
politiche, sindacali, contrattuali, categoriali, nazionali, generazionali,
territoriali...
L’unità di classe dei lavoratori non è,
ovviamente, un dato puramente sociologico, una mera somma di lavoratori o,
peggio ancora, una somma di esigenze contraddittorie entro cui cercare di
orientarsi.
E’, innanzitutto, una unità protesa alla costruzione di
un livello più alto di coscienza e di organizzazione, una unità basata sulla
consapevolezza che gli interessi dei lavoratori e quelli dei capitalisti sono
inconciliabili e che con i capitalisti è possibile stabilire solo un rapporto
di carattere conflittuale e non certo un rapporto di tipo “concertativo”
nell’ottica del soddisfacimento di “comuni interessi”.
La ricchezza della società in cui viviamo, la ricchezza
di tutte le società, è frutto del lavoro. Ogni cosa che non esiste
spontaneamente in natura è il prodotto dell’attività umana.
Di una parte di questa attività, di questo lavoro, i
capitalisti si appropriano sotto forma di profitto, pagando ai lavoratori un
valore inferiore a quello che essi producono. Obbiettivo dei capitalisti è
aumentare la quota del loro profitto a danno del nostro salario sociale.
Obbiettivo dei lavoratori è aumentare il proprio salario a danno del profitto
dei capitalisti.
Le crisi economiche e industriali non sono prodotte dai
lavoratori, ma i lavoratori sono costretti a subirne le conseguenze, con casse
integrazione, mobilità, precarietà, licenziamenti…
Senza i lavoratori i capitalisti non esisterebbero
neppure. Senza i capitalisti i lavoratori, semplicemente, vivrebbero meglio.
Ma se l’inconciliabilità di cui parliamo vale per i
capitalisti, essa vale anche per lo Stato che è al tempo stesso “datore di
lavoro” ed espressione di un potere estraneo ai lavoratori.
La percentuale di parlamentari che vengono dai settori
del lavoro dipendente è quasi inesistente, in ogni caso incomparabilmente al di
sotto della quota di lavoro dipendente che esiste nella vita di tutti i giorni
(di cui fanno parte anche tutti quei lavoratori che sembrano formalmente
autonomi ma che sono sostanzialmente dipendenti, come ad esempio gli
oltre 2 milioni di co.co.co).
Questo ci dice due cose: primo, che non esiste una vera
democrazia perché gli strumenti per la formazione del consenso (giornali,
denaro, televisioni, mezzi per la produzione intellettuale e culturale...) sono
tutti in mano ai capitalisti; secondo, che i lavoratori non hanno fiducia in
loro stessi e tendono ad eleggere come propri rappresentanti istituzionali
persone che non appartengono alla loro classe, affidando la difesa e la
rappresentanza dei propri interessi a persone che hanno altri interessi.
Un secondo presupposto del nostro impegno era
quello che il mondo del lavoro si è profondamente trasformato negli ultimi
decenni (e soprattutto negli ultimi anni) a causa della parziale ricollocazione
dell’Italia nell’ambito della cosiddetta divisione internazionale del lavoro
(da paese a forte connotazione industriale e produttiva a paese caratterizzato
dallo sviluppo dei servizi di commercializzazione e di supporto alla
produzione, realizzata principalmente in altri paesi che offrono condizioni
migliori per lo sfruttamento della forza-lavoro).
Quante sono le imprese che vengono catalogate come
“italiane” perché hanno in Italia il proprio centro amministrativo e
dirigenziale, ma che realizzano la maggior parte della loro produzione
all’estero ?
Basti, per fare un esempio, ricordare la Parmalat, il cui
fallimento è stato al centro dell’attenzione pubblica negli ultimi mesi. Dei
36.000 dipendenti del gruppo solo 4.000 erano in Italia. E un discorso analogo
vale per Fiat, Benetton e altre.
Ma nel corso degli ultimi anni c’è stata anche la
progressiva accentuazione di una vera e propria di divisione interna del
lavoro alimentata da un gigantesco processo di esternalizzazioni e
terziarizzazioni.
Nelle grandi e medie imprese produttive, i lavoratori
“interni” rappresentano una minoranza sempre meno decisiva per la produzione
che viene sempre di più realizzata da lavoratori formalmente esterni
all’impresa (ma funzionalmente del tutto interni) inquadrati in ditte e
cooperative sub-appaltatrici piccole e piccolissime, il cui numero può essere
variato con molta maggiore facilità al variare delle esigenze di mercato e al
cui interno è molto più facile imporre forme di controllo sociale e di ricatto
orientate alla desertificazione politica e sindacale del mondo del lavoro.
Oggi, a nessuno verrebbe in mente di contestare il fatto
che i grandi insediamenti industriali di una volta esistono sempre meno e che
il mondo del lavoro è abbastanza diverso da quelli di 10 o 20 anni fa.
Questa trasformazione porta con sé anche una trasformazione
interna della stratificazione di classe e dunque l’esigenza di nuovi
modelli - o comunque l’aggiustamento di modelli consolidati -
nell’organizzazione dei lavoratori.
In una ditta o cooperativa sub-appaltatrice con meno di
15 dipendenti il ricatto del posto di lavoro è molto maggiore che non in una
grande impresa, magari con una consolidata tradizione sindacale. Questo fa sì
che sia molto più difficile organizzare i lavoratori delle ditte e delle
cooperative nelle lotte che spesso vengono da altre zone del paese o
addirittura da altri paesi e tendono a vivere come transitoria ogni
collocazione lavorativa.
Soggetti come i lavoratori interinali che cambiano spesso
luogo di lavoro non riescono a costruire un radicamento tale da poter
partecipare appieno alla vita sindacale e politica all’interno del luogo di
lavoro.
I 2 milioni di co.co.co. e le centinaia di migliaia di
lavoratori con contratti a tempo determinato o in formazione lavoro o in
apprendistato o in stage, sempre sotto il ricatto del mancato rinnovo, hanno
indubbiamente molte più difficoltà a sviluppare la battaglia sindacale sul
posto di lavoro.
Inoltre, la forte precarietà del mondo del lavoro e la
diffusione ormai esponenziale di contratti di lavoro atipici aumenta
notevolmente la mobilità dei lavoratori. Oggi, è ben difficile immaginare che
un giovane lavoratore possa restare per tutto l’arco della sua vita lavorativa
all’interno di un medesimo posto di lavoro ed anche all’interno di un medesimo
settore.
La creazione di organismi sindacali per i lavoratori
precari è certamente utile per impugnare provvedimenti illegali, ma qui non si
tratta solo di impedire l’illegalità, bensì di sviluppare la lotta contro la
diffusione illimitata del lavoro precario e di aprire la strada alla
riconquista di rapporti di forza tali da consentire una inversione di tendenza
rispetto all’esplosione della flessibilità e della precarietà.
Il terzo presupposto del nostro impegno era dunque quello che alla classica
organizzazione sindacale diventa sempre più necessario (o torna ad essere sempre
più necessario, a seconda dei punti di vista) affiancare un livello di
coordinamento territoriale dei lavoratori con una prospettiva di lotta generale.
Non si tratta di una partita puramente “sindacale”, ma di
una partita pienamente “politica”. Certo, non “partitica”, non istituzionale,
ma una partita di lotta politica, di lotta di classe.
C’è un quarto presupposto che si lega a quelli
precedenti. Quando diciamo che un lavoratore deve essere visto nella sua intera
dimensione di vita e non solo nella sua particolare collocazione lavorativa
(peraltro, come detto, sempre più variabile) vogliamo rendere esplicita la
nostra visione sociale della natura del salario.
Il salario deve essere inteso nella sua triplice forma di
salario diretto (busta paga), salario indiretto (sanità, casa,
scuola…) e salario differito (pensione). Questa ottica è particolarmente
importante oggi che con l’esplosione del carovita e con i continui attacchi
alla previdenza pubblica i lavoratori vedono sottrarsi parti molto rilevanti
del loro salario (e del loro potere reale di acquisto), indipendentemente dalla
busta paga in sé stessa.
Se le case non si trovano o si trovano a prezzi
altissimi, se la salute viene colpita con ticket e peggioramento delle
prestazioni ospedaliere, se la scuola continua ad essere fonte di mantenimento
delle divisioni di classe (solo una infima minoranza di figli di operai arriva,
ad esempio, alla laurea), se i prezzi di tutte le merci che compriamo aumentano
(dalle assicurazioni al cibo alla benzina)… allora ha senso concentrare tutta
la nostra attenzione solo sulla “busta paga” ?
Il nostro impegno non può essere definito “sindacale”
(anche se trattiamo spesso di temi che vengono percepiti come “sindacali”)
perché non andiamo alla ricerca degli elementi più particolari, ma degli
elementi più generali delle condizioni di lavoro e di vita dei
lavoratori, cioè di quegli elementi che definiscono le caratteristiche della
classe cui appartengono oggettivamente (indipendentemente dalla loro
percezione soggettiva), quegli elementi che producono riconoscimento
reciproco e non divisione tra i lavoratori.
Più i capitalisti cercano di differenziare i lavoratori
gli uni dagli altri per aprire la strada ad una contrattazione individuale
generalizzata, più noi dobbiamo andare nella direzione opposta. Dobbiamo, cioè,
puntare ad unire quello che i padroni cercano di dividere.
Se ci fermiamo alla constatazione che in un qualsiasi
posto di lavoro probabilmente non esistono due buste paga identiche non
facciamo che osservare la realtà. E se ci limitiamo ad osservare la realtà
senza studiare e praticare le strade per trasformarla è inevitabile che essa
tenda a peggiorare ulteriormente.
Al peggio non c’è fine se è vero come è vero che, in altre
epoche storiche, ci sono state anche la schiavitù e la servitù della gleba che
certamente non sono scomparse spontaneamente, ma a prezzo di lotte molto dure,
a volte durate secoli.
Il ritmo di arretramento delle nostre condizioni di vita
dipende da noi. Finché saremo disposti ad arretrare arretreremo. Le cose
cambieranno. solo quando saremo davvero intenzionati ad esprimere una
resistenza combattiva ed incisiva.
Intanto, questa è la fase storica in cui siamo
ragionevolmente certi di lasciare ai nostri figli condizioni di vita, di
lavoro, di diritti… peggiori di quelle che i nostri padri hanno lasciato a noi.
Naturalmente, non intendiamo abbandonare il terreno della
rivendicazione immediata e, tantomeno, quello della singola lotta.
Al contrario, la nostra capillare e costante presenza
in tutti i principali momenti di lotta che si sono avuti sul nostro territorio,
dalle manifestazioni ai picchetti, dai presidi alle iniziative pubbliche, dalle
assemblee di fabbrica al lavoro di inchiesta, ha sempre avuto come
obbiettivo quello di produrre collegamento, solidarietà, informazione,
organizzazione.
Il tutto, però, nella convinzione che sia possibile
sviluppare in modo efficace la resistenza al peggioramento delle condizioni
salariali, ambientali e di diritti all’interno dei luoghi di lavoro solo in
modo collettivo e organizzato, abbandonando qualsiasi illusione sulla
possibilità di ottenere risultati concreti senza lottare, per effetto di una
magica collaborazione triangolare tra sindacati, padroni e Stato.
Per questa ragione abbiamo detto in più occasioni che in
questi anni la concertazione ha portato al macello milioni di lavoratori e che
solo la lotta è in grado di invertire la tendenza.
Eccezion fatta per alcuni particolari momenti e per
alcune particolari mobilitazioni (1994 contro la legge Dini-Berslusconi sulle
pensioni, 2002 per la difesa dell’art.18) gli anni che vanno dal 1992 ad oggi
sono stati anni di pesantissimo arretramento a cui non ha corrisposto una
resistenza davvero all’altezza della situazione.
E questo, anche perché molte delle misure che hanno
sancito l’arretramento (solo per fare alcuni esempi: abolizione della “scala
mobile” e introduzione della “politica dei redditi” nel 1992, apertura della stagione
della concertazione e della “flessibilità necessaria” nel 1993, realizzazione
della contro-riforma Dini-Bossi-D’Alema nel 1995, approvazione del Pacchetto
Treu nel 1997, ritocco del diritto di sciopero nel settore del trasporto
pubblico nel 2000, firma del patto per l’Italia e della cosiddetta “legge
Biagi” nel 2001….) sono state avallate da tutti o quasi i sindacati
maggiormente rappresentativi nel mondo del lavoro e cioè da Cgil, Cisl e Uil i
quali, evidentemente, non potevano mobilitare i lavoratori o appoggiare le
mobilitazioni spontanee dei lavoratori contro le misure che essi stessi
andavano di volta in volta approvando.
Nel corso di un anno di lavoro abbiamo promosso circa 4
assemblee pubbliche (31 maggio 2003 a sostegno del sì al referendum
sull’art.18, 5 dicembre 2003 contro la legge Biagi, 6 febbraio 2004 con i
lavoratori dell’ATM di Milano, 14 febbraio 2004 con il tavolo territoriale delle
situazioni di crisi della zona apuo-versiliese) e, in agosto, abbiamo
presentato il “numero zero” di Primomaggio, foglio di collegamento tra
lavoratori, precari e disoccupati della zona apuo-versiliese, arrivato oggi al
numero 4.
Sia attraverso le assemblee, sia attraverso il foglio,
abbiamo approfondito tutta una serie di questioni su cui ci sembrava che
l’informazione tra i lavoratori fosse carente (se non, in alcuni casi,
inesistente) e abbiamo portato avanti un lavoro di inchiesta attraverso
interviste e interventi relativi alle più diverse situazioni lavorative
(cantieristica, meccanica, marmo, lavoro interinale, cooperative, precariato…).
Dopo 5 numeri e 10 mesi di lavoro a poco a poco viene
focalizzandosi la realtà produttiva del mondo del lavoro della zona
apuo-versiliese e cominciano ad emergere le questioni fondamentali che lo
attraversano.
Il foglio ha rappresentato in questi mesi un momento di
discussione interna ad un’area importante di lavoratori ed è stato capace di
diffondersi e di farsi conoscere in tutte le vertenze più importanti del
territorio in quanto i lavoratori che lo realizzano e lo distribuiscono sono
pienamente interni a queste lotte e in molti casi svolgono dentro queste lotte
un ruolo importante di stimolo, di discussione e di organizzazione.
Per chiudere questo anno di lavoro promuoviamo, in
occasione del 1 maggio 2004, un pranzo-festa popolare alla Casa del Popolo
delle Casette che auspichiamo possa diventare un momento tradizionale della
giornata internazionale dei lavoratori nella nostra zona.
Tenuto anche conto del tipo di impegno che abbiamo
assunto - che certo non è semplice - possiamo dire che il bilancio di questo
primo anno è molto più che positivo e rappresenta una interessante base
di partenza per il successivo sviluppo.
Siamo convinti che molti altri lavoratori potranno e
vorranno offrire un contributo essenziale allo sviluppo del progetto di
costruzione di un’area combattiva, informata e organizzata di lavoratori del
territorio che sappia stimolare la costruzione di una forza reale e
indipendente del mondo del lavoro.
PRIMOMAGGIO
1 maggio 2004