Tirrena Macchina: l’agonia continua

 

Perdura l’agonia di Tirrena Macchine e di Nasa e con essa lo stato d’insicurezza e di disagio dei lavoratori in queste fabbriche occupate.

A cinque anni ormai dal loro insediamento sembra arrivata all’epilogo l’esperienza di “reindustrializzazione” dell’area ex  Dalmine di Massa.

A fronte di un grande investimento finanziario pubblico elargito, a ragion veduta, senza garanzie e senza gli adeguati controlli, il nostro territorio si ritrova ad affrontare il dramma sociale di due realtà già dismesse con il loro carico umano di cassa integrati o d’operai in mobilità, ed il problema d’altre due realtà in grave, forse irreversibile, crisi, con il loro carico umano d’operai senza retribuzione da  mesi, con “buchi” economici nei confronti di fornitori locali, enti previdenziali, istituti creditizi, ecc.

Dire che quest’esperienza è stata un fallimento è ovvio, trovare chi sono gli artefici di questo fallimento è più difficile.

Diventa difficile perché il fallimento immediato, o, a breve, di queste esperienze era stato pronosticato da tutti, anche da coloro che avevano tenuto a battesimo la nascita di queste società.

La realtà ci porta oggi a cercare di fare il punto della situazione sulle ultime due rimaste Tirrena Macchine srl e Nasa srl dando anche un breve sguardo indietro.

Il gruppo “CR Electronic” di Firenze nelle sue varie diramazioni, sfruttando agevolazioni dello stato, nel 1998 si insedia a Massa nell’area ex Dalmine con uno stabilimento: la Tirrena Macchine, che arriverà al massimo del suo “splendore” ad aver occupato circa 100 unità. Stessa identica manovra, nel solito periodo, fa a Napoli con lo stabilimento Metalfer Sud di 130 unità. Operazione condotta in società con gli allora proprietari di Nasa. Società costituita, con le stesse modalità, anche a Massa nello stesso periodo sfruttando la solita legge ed i soliti soldi. “CR electronic” rileva nel 2000 la società Nasa che partita con un organico di circa 70 persone è arrivata oggi ad averne circa 30. Lo scenario che si compie è che CR  possiede quindi tre unità produttive partecipate dallo Stato e finanziate da esso. Con un potenziale di circa 250 tra operai ed impiegati e circa 40.000 metri quadrati di capannoni attrezzati, idonei alla produzione, alla verniciatura, all’assemblaggio di carpenteria pesante e leggera e alla meccanica di precisione di macchine che lei commercializza con il suo marchio e di cui assorbe il grosso dei proventi delle vendite. I primi tre anni d’attività passano indisturbati in vigore di una tregua sociale concordata con i sindacati, propedeutica all’insediamento. Producendo mai come un vero gruppo organizzato, ma sempre come un artigiano che si “arrabatta” nella sua piccola bottega, il “gruppo” sforna un numero di macchine con un rapporto qualità prezzo tale da farlo diventare un leader “nazionale” e “mondiale” nel suo settore. Il 2003 è l’anno della svolta. La società deve rilevare le quote partecipative dello Stato, le agevolazioni economiche sono terminate, lo stabilimento deve andare a “regime” invece va a rotoli. La contabilità creativa degli amministratori pensa bene di “autofinanziarsi” (parola usata dal presidente del consiglio di amministrazione di Tirrena Macchine) con le contribuzioni dovute agli enti previdenziali: “lo Stato me lo permette”.

Comincia la “saga dell’autofinanziamento” ed allora non si pagano i contributi INPS, non si pagano i fornitori, non si pagano i fondi pensione, non si pagano gli stipendi ed i salari … e si accettano anche suggerimenti. Il gruppo si “autofinanzia” anche con i contributi che i lavoratori versano al sindacato, con i contributi che i lavoratori versano per pagare la mensa  e pensa bene di  finanziarsi anche con i contributi che i lavoratori versano al fondo pensione integrativa dei metalmeccanici. Per i soldi trattenuti ai dipendenti e non versati nel fondo integrativo Cometa i lavoratori hanno intrapreso un azione legale sotto forma di querela per riavere il mal tolto che si aggira ormai sui 50.000 euro e  per il quale si ipotizza il reato penale di “appropriazione indebita”. Comincia a questo punto a nascere il dubbio che queste tre realtà siano nate per assorbire il debito del gruppo e che i guadagni frutto del lavoro di tutti vadano a finire in altri luoghi. La storia degli ultimi mesi ci racconta di tre stabilimenti senza un futuro certo, senza garanzie né sui soldi già guadagnati né sul numero degli addetti, neanche nel breve periodo. Gli ultimi mesi hanno visto gli operai e gli impiegati di tutte e tre le realtà lottare per i loro diritti minimi: blocco delle merci in uscita e presidi davanti ai cancelli degli stabilimenti sono ormai la quotidianità anche per i lavoratori di Napoli che hanno realizzato a più riprese l’occupazione del Comune, della stazione ferroviaria e di una strada statale. Sarà il senso di “colpa” che pervade imprenditori, istituzioni, sindacati, parlamentari di zona, che ha fatto in modo che uno stabilimento come Nasa, ormai inattivo quasi completamente da sei mesi, non sia ancora stato dichiarato “fallito”. Sarà il solito senso di colpa a far sì che la stessa sorte non tocchi allo stabilimento Metalfer sud  di Napoli, da sei mesi senza la minima produzione, e alla Tirrena Macchine. Sarà che chi è stato il male ieri, oggi voglia essere la cura. Sarà che essendo Previti tra i sindaci revisori della finanziaria padrona dei tre siti, mi viene in mente che lo Stato cerchi in un periodo pre elettorale come questo di tappare alcune falle. Tappare alcune falle può essere la via d’uscita per 250 lavoratori e per le loro famiglie? Non lo so, ma può essere la via d’uscita per altri. Ad oggi i lavoratori di Massa per avere le mensilità di dicembre e la tredicesima hanno dovuto lottare, subire affronti, soffrire il freddo con interminabili presidi, ingoiare amarezze, essere per più di una volta “umiliati ed offesi” e costretti a sentire come una conquista qualcosa che gli spetta di diritto. Mentre il padrone, contrattando con le istituzioni centrali e locali la cessione di questo o quel sito produttivo, stringe sopra la testa dei lavoratori accordi a loro inaccessibili. I lavoratori si sentono di dire che solo con le parole “lavoro, dignità, giustizia” si può porre rimedio a questa situazione, la mancanza di una di queste parole dalla soluzione trasformerebbe il tutto in una tragica sconfitta.

 

Marco Tonarelli

Tirrena Macchine, Massa