Infortuni e morte. Prosegue la guerra quotidiana sui posti di lavoro

 

Il “bollettino di guerra” dei morti e degli infortuni sul lavoro non si ferma; anzi, si aggiorna in modo perenne, quasi quotidiano. Le concerie del pisano, le acciaierie di Piombino, le cartiere del lucchese, il distretto lapideo apuo-versiliese: facendo un tetro conteggio matematico, statistico, si potrebbero prevedere i prossimi infortuni e decessi sul lavoro. Fin troppo precisi e dettagliati sono i dati raccolti negli anni passati.

Ci si accorge dai mass media che questi crudi avvenimenti fanno ormai parte della squallida routine; quelli a carattere nazionale, ad esempio, non ne parlano neppure (più importanti sono il tormentone sullo sputo di Totti agli Europei o il pellegrinaggio dei tre ex-ostaggi da Padre Pio). Restano i tg ed i quotidiani locali a parlarne.

Segnali meno tangibili arrivano dalle istituzioni: la classica apertura di una inchiesta da parte dell’A.S.L. o dell’I.N.A.I.L., che si aggiunge ad un numero imprecisato di quelle in corso e che , magari, tra qualche anno assolverà i veri colpevoli.

Una frase dell’assessore alla Sanità regionale mi ha profondamente colpito. Riguardo al ragazzo senegalese morto in una conceria il primo giorno di lavoro - con, ovviamente, un “bel” contratto flessibile - l’assessore Rossi descrive così questa tipologia di lavoratori: “Sono come i ragazzi del ’99!”. I ragazzi del ’99 erano quei ragazzini italiani, nati appunto nel 1899, costretti ad arruolarsi nella Prima Guerra Mondiale e che venivano istruiti sull’uso delle armi dai finestrini delle tradotte con destinazione fronte (ma la cui vera destinazione era, piuttosto, il macello).

Non è superfluo ricordare che molti lavoratori muoiono ufficialmente il primo o i primissimi giorni di lavoro (cioè quando sarebbero “in prova”) solo per mascherare la loro situazione di lavoro “a nero”.

All’inizio dell’estate l’I.N.A.I.L. ha diramato il rapporto infortuni 2003; ci sono stati 978.000 infortuni contro i 993.000 del 2002; 1394 infortuni mortali contro i 1484 del 2002. Si tratta, ovviamente, dei decessi e degli infortuni denunciati, ossia di una parte dei decessi e degli infortuni reali.

Il calo dei decessi, spiega l’istituto, è dovuto soprattutto alla contrazione dei decessi “in itinere”, ossia avvenuti durante il tragitto per raggiungere il posto di lavoro o per spostarsi da un luogo di lavoro ad un altro. Ciò è avvenuto per l’introduzione della patente a punti.

Da mettere in evidenza la dichiarazione del presidente I.N.A.I.L. Vincenzo Mungari: “Evitiamo di usare in maniera cinica le statistiche; dietro i numeri ci sono altrettante persone che hanno vista compromessa, talvolta in modo irreversibile, la propria esistenza!”. Difficile dargli torto visto che, ogni giorno, in Italia muoiono 4 persone sui posti di lavoro.

Dal rapporto I.N.A.I.L. suddetto emergono, inoltre, dati allarmanti riguardo ai lavoratori extra-comunitari; gli incidenti sul lavoro con protagonisti tali lavoratori sono stati 107.000, di cui 157 mortali, pari all’11% del totale nazionale. A rafforzare i dati I.N.A.I.L. c’è anche uno studio dell’Istituto di Medicina Sociale e della Caritas il quale afferma che nel nostro Paese uno straniero su 10 incorre in un incidente sul lavoro, proporzione più che doppia rispetto agli infortuni tra lavoratori italiani, che colpiscono una persona su 25. E questo perché è abitudine affidare agli immigrati le mansioni più pericolose e perché essi non vengono adeguatamente formati. Quanto detto è stato riscontrato in tutti i settori lavorativi ed in tutte le regioni.

Dalla situazione dei lavoratori extra-comunitari passiamo ai lavoratori interinali, flessibili, precari, per intenderci a quelle figure introdotte dal Pacchetto Treu del 1997 e dalla legge Biagi del 2003. Con queste leggi uno stesso lavoratore può cambiare drasticamente tipologia di lavoro anche nel giro di pochi giorni. Per fare un esempio, lo stesso lavoratore potrà passare da una pericolosa industria chimica o siderurgica ad un più “comodo” call-center. Capite bene che questo lavoratore non frequenterà mai un corso di formazione specifico per un incarico dalla durata di 20 giorni, un mese: non c’è il tempo materiale (e poi la formazione sulla sicurezza costa).

La cosa più grave è che non esistono ancora leggi o decreti specifici per la tutela della salute e della sicurezza di questi lavoratori e lavoratrici e non sono a disposizione degli organi preposti neanche dati precisi sugli infortuni. Il legislatore, con queste leggi maledette, cerca non solo di eliminare i diritti sindacali di questi lavoratori, ma, nello stesso tempo, sottrae loro il diritto all’incolumità della persona.

Cito una ricerca sul lavoro interinale fatta dall’A.S.L. di Milano su un campione di 14 agenzie. I casi di infortunio si riferiscono , ovviamente, a giovani operai poco esperti, con un livello di qualificazione medio-basso. Usando termini I.N.A.I.L., l’indice di frequenza, ossia il rapporto tra numero di infortuni ed ore lavorate, è di 100,7 contro una media di 50 per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.

E possiamo infine pensare che lo Stato si muova nella giusta direzione dopo che nel 2003 la Corte di Giustizia europea lo ha condannato in quanto inadempiente ad una direttiva CEE sui requisiti minimi di sicurezza e salute nell’uso di attrezzature di lavoro?

Giuseppe