I fondi pensione convengono ?
Dall’articolo di Morena Piccinini della
segreteria confederale Cgil, intitolato ”Chi teme i fondi pensione”, pubblicato
su Il Manifesto dell’8 ottobre, apprendiamo (con sincero sconcerto) che i fondi
negoziali avrebbero dato buona prova di loro.......
Sarà il caso che Piccinini fornisca i dati su cui fonda
questa sua valutazione alla COVIP, dato che i dati ufficiali di quest’ultima
dicono che i rendimenti dei fondi negoziali nel periodo dal 1999, ovvero da
quando sono partiti, al 2004, sono stati normalmente battuti dal bistrattato
rendimento del TFR.
La Piccinini si sarebbe dovuta riferire ad un confronto
interno tra fondi pensione - qui è vero, gli aperti sono stati semplicemente
catastrofici- e, per decenza e amore di verità, avrebbe dovuto parlare di ”meno
peggio”, senza millantare un’efficacia del fondo pensione negoziale che è fuori
della realtà e dai fatti.
Se parliamo inoltre della democraticità della gestione
finanziaria dei fondi negoziali, c’è da dire che i consigli d’amministrazione
paritetici (ma i lavoratori, quelli che avrebbero voce in capitolo, hanno
votato i loro rappresentanti?), hanno poco più di un potere di indirizzo. Chi
opera finanziariamente, chi gestisce realmente i soldi dei lavoratori, sono i
”gestori finanziari” del fondo, e sono tutt’altra cosa. Tanto per fare alcuni
esempi : i gestori finanziari del Cometa, il fondo dei metalmeccanici, sono
Generali, Paribas, Unicredit, Sampaolo-Imi, Aig-Invesco e Cisalpina-Putnam; i
gestori del Fonchim, il fondo dei chimici, sono Generali, Ras, Creditrolo,
Unipol-Citibank e (sic) Mediolanum-State Street.
In altre parole, e se vogliamo dirla tutta, nessuno
discute il fatto che i Fondi negoziali siano ”meno peggio”, ma ciò non toglie
che i loro sostenitori stiano partecipando ad una ”zuffa” parimenti con altri,
certo peggiori, concorrenti per assicurarsi la fetta più grande di una torta
stimata nell’ordine dei tredici miliardi di euro all’anno (ventiseimila
miliardi di vecchie lire - una signora finanziaria!) e che è costituita dal
TFR, ovvero da soldi dei lavoratori.
La cosa triste è che in questa zuffa poco o niente
centrino vecchiaia e pensione dei lavoratori. E questo appare evidente da
qualche considerazione, che tra ”i litiganti”, guarda caso, nessuno fa.
Nel tentativo di rassicurare i datori di lavoro e la
Confindustria, che (dal loro punto di vista) temono di perdere con il TFR il
principale strumento di autofinanziamento delle imprese, il ministro Maroni ha
cavato dal cilindro la bella ricetta della fiscalizzazione di quelli che ha
definito ”oneri impropri”, ovvero i contributi che i datori di lavoro versano
per assicurare ai lavoratori i trattamenti per la malattia, la maternità e gli
assegni familiari. Nella sostanza, le imprese che dovranno rinunciare al TFR a
favore di un Fondo pensione, non dovranno più versare questi contributi (che
assommano al 5,13% delle retribuzioni).
Il Ministro dice che questa fiscalizzazione sarà
calcolata in modo da coprire la differenza tra il rendimento offerto dal TFR ed
i tassi applicati dalle banche ai prestiti erogati alle imprese. Questo allora
significa, facendo ”i conti della serva” e mantenendoci prudenti, che questa
fiscalizzazione riguarderà almeno 3 di quei 5,13 punti percentuali (con
un’inflazione al 2%, quale banca fa prestiti a meno del 6%?). Bene, ma queste
indicazioni percentuali non danno un’idea di quello di cui si sta parlando.
Nei fatti di cosa parla Maroni? Se l’operazione del
trasferimento del TFR avesse pieno successo starebbe parlando di qualcosa come
cinque miliardi di euro all’anno (i bilanci dell’INPS sono pubblici e
scaricabili dalla rete).
A questo costo vanno aggiunte le minori entrate per le
deduzioni fiscali previste (prendiamo a base i 13 miliardi di euro annui che si
diceva) e che spettano per le cifre cedute dalle imprese ai fondi pensione.
Considerato il rapporto tra grande industria e la pmi in Italia, possiamo
calcolare queste minori entrate intorno ai 715 milioni di euro all’anno.
C’è poi ancora da aggiungere il costo di finanziamento e
di gestione del Fondo di garanzia per l’accesso al credito delle imprese, che
Maroni ha precisato essere a totale carico dello Stato e che i tecnici del
ministero hanno ipotizzato per il 2006 nell’ordine dei 200 milioni di euro. In
sostanza, se la cosiddetta riforma previdenziale avesse pieno successo questo
giochetto del TFR nei fondi pensione rischierebbe di costare intorno ai 6
miliardi di euro all’anno. Una ”sciocchezza” che qualcuno - i lavoratori, chi
altro? - dovrà pagare con meno prestazioni e meno servizi.
In realtà, se il problema fosse sostenere il reddito dei
futuri pensionati ci sarebbe un’altra strada. Se fossero riconosciuti al TFR
gli stessi trattamenti fiscali e contrattuali (vero Piccinini, a proposito di
portabilità?) riconosciuti ai soldi dati ai Fondi pensione nel tentativo di
rendere questi presentabili ed appetibili rispetto allo stesso TFR, tutta la
questione potrebbe essere risolta molto semplicemente ed efficacemente
incrementando di due punti percentuali il tasso di rivalutazione del TFR
(dall’1,5% + il 75% dell’inflazione al 3,5% + il 75% dell’inflazione),
assicurando alle imprese che lo utilizzano una deduzione fiscale analoga su
quella cifra.
Questa semplice misura farebbe si che il TFR del
lavoratore si rivaluterebbe del 4,5% con un inflazione all’1%, del 5% con
un’inflazione al 2%, del 6,50% con un’inflazione al 4%, dell’8,75% con
un’inflazione al 7% e così via, sino ad un 18,5% in caso di un balzo
inflazionistico del 20%.
Quale fondo potrebbe fare altrettanto?
Questa semplice, banale soluzione non comporterebbe la
necessità di fiscalizzare nessun contributo, eliminerebbe il problema
dell’accesso al credito delle imprese che conserverebbero il TFR e costerebbe
(sempre prendendo a base i 13 miliardi di euro all’anno) in totale e senza
strascichi di sorta, solo 260 milioni di euro all’anno. Praticamente siamo
nell’ordine del costo stimato per il solo Fondo di Garanzia per l’accesso al
credito delle aziende.
E’ l’uovo di Colombo? Nell’ottica di sostenere il reddito
dei futuri pensionati, si. Certamente no per Maroni e la Confindustria. In
quanto a Piccinini, sarebbe interessante sapere cosa ne pensa.
Severo Lutrario (ATTAC Italia)