Il 13 settembre dello scorso anno si teneva alla Sala
della Resistenza di Palazzo Ducale a Massa l’assemblea dei delegati sindacali
dell’industria della provincia. In quella occasione fu proposto l’avvio di una
“vertenza territoriale” che raccogliesse le varie vertenze aziendali aperte e
in via di apertura.
Ad oltre un anno di distanza è ormai evidente a tutti -
cioè a quei pochi che se ne sono occupati - come la “vertenza territoriale” e
insieme la tanto sbandierata richiesta di re-industrializzazione a Massa si
siano rivelati niente più che un completo fallimento.
Che la re-industrializzazione sarebbe stata impraticabile
era chiaro in anticipo - e da anni - anche se in molti facevano finta di non
vedere. Per un anno i lavoratori hanno ascoltato numerosi proclami e richieste
di “nuove imprese industriali di media e grande dimensione” da insediare nella
zona industriale al posto delle vecchie società in via di chiusura. Ma, come
era prevedibile, niente di tutto questo è avvenuto.
Del resto, ci sarebbe già da dire molto sull’uso che è
stato fatto dei capitali pubblici sperperati dalla metà degli anni ’90 ad oggi
“per la re-industrializzazione”, capitali che nessuno sarà in grado di
recuperare e il cui migliore impiego doveva essere pensato già al momento
dell’erogazione; purtroppo, chi avrebbe avuto la forza (e il compito) di
controllare certi meccanismi non lo ha mai fatto.
Dall’altra parte, nella “vertenza territoriale” il ruolo
preponderante poteva e doveva essere assunto dai lavoratori e non lasciato in
balia delle varie macchinazioni di ordine politico o, ancora peggio, usata per riabilitare
chi in questi anni si era mostrato colpevolmente latitante rispetto alla
devastazione del mondo del lavoro operata a livello locale e nazionale.
Lo scenario sociale che si presentava nell’autunno scorso
era caratterizzato dal tentativo non ancora definitivamente scongiurato di
privatizzazione del cantiere navale (NCA), dalla crisi di molte società con il
conseguente tracollo occupazionale e dalla fine degli ultimi insediamenti nati
con l’aiuto statale, più una serie di situazioni di crisi iniziale che si
sarebbero sviluppate nei mesi successivi; in questo scenario si realizzò
l’assemblea del 13 settembre, la dichiarazione di “ vertenza territoriale” e la
nascita della “tenda del lavoro” in piazza Aranci, tenda che doveva costituire
un luogo di incontro tra i lavoratori e la città di Massa, nonché la
testimonianza “vivente” di fronte alle istituzioni (la Provincia, il Comune)
della lotta dei lavoratori contro i licenziamenti.
Obbiettivi ufficiali della cosiddetta “vertenza
territoriale” diventarono la salvaguardia delle aree industriali del
territorio, l’esplicito rifiuto di attività artigianali in queste aree, la
ricerca di investimenti che portassero a Massa attività di media-grande
industria, senza dimenticare la difesa della qualità e della sicurezza del
lavoro, la lotta contro la precarietà… Insomma tutto quell’insieme di cose che
rendono il lavoro un po’ più “dignitoso”.
Che la vertenza fosse cominciata male si era intuito fin
da subito con il molto animato scontro tra le confederazioni generali dei
sindacati (Cgil, Cisl, Uil) e le loro emanazioni categoriali (Fiom, Fim, Uilm).
Uno dei punti su cui verteva lo scontro fu, ad esempio:
il vero “centro fisico” della vertenza doveva essere il cantiere navale a
Marina di Carrara o la tenda del lavoro a Massa ?
Naturalmente molte delle ragioni recondite che portavano
alcuni a sostenere un’ipotesi e altri l’altra non erano legate agli interessi
dei lavoratori, ma a ben altre considerazioni. C’entravano niente le elezioni
regionali che si sarebbero svolte qualche mese dopo ? C’entrava niente il fatto
che la “vertenza cantiere” fosse tecnicamente più gestibile di quella di altre
aziende in via di chiusura, con i pericoli che si portava dietro il dare a
queste “vertenze minori” troppa visibilità ? C’entravano niente gli scontri
politici e istituzionali che stavano dietro agli schieramenti nel “movimento
dei lavoratori” ?
Di fatto, l’unione dei lavoratori è stata sin dall’inizio
minata non da divergenti idee tra i lavoratori, ma da divergenti interessi
presenti all’interno delle segreterie sindacali confederali e di categoria,
cinghie di trasmissione dei propri referenti istituzionali e politico-partitici.
E, naturalmente, chiunque si sia permesso di avanzare qualche pur minima
critica a questo andazzo indecente è stato immediatamente accusato di… voler
rompere l’unità dei lavoratori !
Dopo un primo mese di mobilitazioni (che si
caratterizzavano per le intenzioni molto bellicose e radicali), con
l’avvicinamento della visita di Carlo Azeglio Ciampi, ci si è avviati verso una
conduzione molto più concertativa, abbandonando del tutto ogni forma di
protesta a supporto della vertenza.
L’idea che guidava gli “entusiasti” della visita
presidenziale era evidentemente quella che chi era stato la causa del male
potesse ora esserne la cura. Quindi, via alla ricerca di sponde
istituzionali locali e, soprattutto, tutti a sperare in “Ciampi il salvatore”.
Venne così abortita l’idea dello sciopero generale in
concomitanza della visita del presidente della Repubblica a Massa, idea
avanzata all’interno di una delle poche assemblee veramente partecipate da
lavoratori che lo richiedeva a gran voce; questa proposta fu stroncata sul
nascere da alcuni quadri e delegati sindacali “pompieri” che misero sé stessi,
il loro seguito, la loro “parlantina”… al servizio di una classe politica e di
interessi completamente contrapposti a quelli dei lavoratori.
La discussione passò dunque su quanto spostare la tenda
nella piazza, a sinistra o a destra, su chi avrebbe avuto diritto ad un
ipotetico “pass” per stare vicino alla Franca e a Carlo Azeglio durante le foto
di rito.
A nessuno, naturalmente, venne in mente di ricordare chi
fosse Ciampi, uomo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca d’Italia,
uomo delle privatizzazioni a suon di licenziamenti, Presidente del Consiglio
che nel 1993 benedisse l’accordo del 23 luglio che dava il via libera alla
flessibilità, superministro del governo Prodi (con il più pesante attacco mai
portato al mondo del lavoro, il Pacchetto Treu) e del governo D’Alema (sì,
proprio quello del “bombardamento umanitario” della Jugoslavia a colpi di
uranio impoverito), grande sponsor dell’Europa di Maastricht. Del resto, basta
leggere un breve stralcio della sua biografia sul sito del Qurinale: “Sul
piano economico gli interventi più significativi sono stati rivolti a
costituire il quadro istituzionale per la lotta all’inflazione, attraverso
l’accordo governo-parti sociali del luglio del 1993, che segnatamente ha posto
fine ad ogni meccanismo di indicizzazione (la “scala mobile”, ndP) ed ha
individuato nel tasso di inflazione programmata il parametro di riferimento per
i rinnovi contrattuali. Inoltre il governo Ciampi ha dato avvio alla
privatizzazione di numerose imprese pubbliche, ampliando e puntualizzando il
quadro di riferimento normativo e realizzando le prime operazioni di
dismissione (tra cui quelle, nel settore bancario, del Credito italiano, della
Banca commerciale italiana, dell’IMI). Come Ministro del Tesoro e del Bilancio
del governo Prodi e del governo D’Alema Ciampi ha dato un contributo
determinante al raggiungimento dei parametri previsti dal Trattato di
Maastricht, permettendo così la partecipazione dell’Italia alla moneta unica
europea, sin dalla sua creazione”.
Come poteva un uomo così farsi paladino e portavoce degli
interessi dei lavoratori ?
Ciampi non deluse le aspettative dei suoi entusiasti
estimatori portandosi in dote una letterina di Sviluppo Italia che prometteva
investimenti, tanto per far gridare “Vittoria !” a chi aveva sostenuto la tesi
del dialogo, ma ovviamente riposta subito nel “cassetto delle buone
intenzioni”.
Così anche Martini, Presidente della regione Toscana,
alcuni mesi dopo e in più occasioni promise - come Ciampi - di far ritornare
l’agenzia dello Stato sul nostro territorio per avviare una seconda fase di
re-industrializzazione dato che la prima era miseramente fallita; ma sia per le
promesse di Ciampi che per quelle di Martini non ci fu - chiaramente - alcun
seguito locale, a parte le frasi di rito che servirono a salvare l’apparenza
degli “incontri che contano”.
In breve tempo, quella che era partita come la vertenza
di “tutto il settore industriale del territorio” è rifluita sulle singole
vertenze scollegate fra loro, anche a causa del fatto che il mondo del lavoro
territoriale si è mosso ben poco sin dall’inizio e ha ulteriormente smesso di
muoversi strada facendo.
Fatto sta che dentro al Cantiere come nelle poche grandi
fabbriche rimaste imperversa l’uso sempre più massiccio di ditte esterne
sub-appaltatrici in cui la condizione lavorativa è veramente ignobile e neppure
minimamente paragonabile con quella che vivono gli addetti diretti; il
bollettino delle morti e degli infortuni sul lavoro è sempre più insopportabile
e l’uso della contrattazione “atipica” è inarrestabile. Dilaga lo sfruttamento
dei lavoratori soprattutto extra-territoriali (meridionali e stranieri) in
condizioni davvero inaccettabili: il tutto nel sostanziale silenzio di tutti,
dai partiti, ai sindacati, alle istituzioni. Del resto cosa potrebbero dire
coloro che hanno permesso questa devastante e incontrollabile estensione del
lavoro precario e del lavoro nero, persino nelle imprese pubbliche ?
Alla fine le aziende dismesse non sono rimpiazzate da
medie e grandi insediamenti; anzi, quando si ripropone qualcosa è solo la
brutta copia e in forma ridotta di ciò che c’era prima.
La priorità sembra diventata solo quella di mandare in
pensione o pre-pensionare nei termini consentiti dagli ammortizzatori sociali,
l’ultima rimanenza di lavoratori ex-Dalmine, per dichiarare conclusa e “vinta”
quella vertenza.
Sembra che avere nell’organico di una azienda in crisi
uno di questi lavoratori o un ex-Olivetti offra una sorta di garanzia per la
concessione ed il rinnovo degli ammortizzatori sociali speciali; ne sono
esempio Climas e Bsi, fallite nello stesso contesto e nate con gli stessi
aiuti: per i lavoratori della prima azienda, dopo il tracollo, subito la
mobilità, per i secondi 5 anni di CIGS; ne stanno sentendo l’odore i lavoratori
di CSRA, rispetto a Nasa e Tirrena, tanto per restare a quelle realtà
lavorative promotrici della “tenda del lavoro”; e ora se ne stanno accorgendo
anche i lavoratori della DS Data Systems.
Ad un anno dall’inizio della vertenza possiamo tirare il
bilancio sui risultati di questa mobilitazione. Nessuna media o grande impresa
si presenta all’orizzonte; nessun’area industriale davvero salvaguardata da
speculazioni; nessun miglioramento nelle condizioni di lavoro delle attività
lavorative in Provincia; nessun investimento pubblico che tenti di ricostruire
un tessuto sociale e produttivo ormai lacerato. I disegni speculativi e in
certi casi truffaldini degli imprenditori non sono stati minimamente
intralciati.
Possiamo ben dire che la vertenza territoriale, ad oggi,
non ha prodotto risultati, cioè ha prodotto risultati negativi. È successo semplicemente
quello che doveva succedere e ce ne siamo accorti quando centinaia di operai si
sono ritrovati licenziati o a rischio licenziamento.
Le possibili soluzioni ai problemi del mondo del lavoro
sul territorio non possono essere scollegate dalla ricerca delle responsabilità
politiche, istituzionali e sindacali, per due semplici motivi: primo, chi ha
permesso che il male si sviluppasse non può esserne la cura; secondo, solo
con il protagonismo attivo di lavoratori e lavoratrici sempre più
coscienti e combattivi è possibile imporre alle istituzioni e ai padroni il
rispetto del diritto al lavoro e della dignità di tutti. Quello che manca - ed
è indispensabile costruire - è un collegamento “dal basso”, una forza di
lavoratori che sappia stimolarne l’autonomia e far rinascere in loro la
speranza e la fiducia che cambiare si può: anzi, si deve. [PM]