Appunti su lavoro e precarietà

 

Da tempo non sentiamo parlare che di precarietà. Persino partiti politici che della sua diffusione massiccia nel nostro paese sono tra i principali responsabili (con Pacchetto Treu, lavoro interinale, co.co.co., ecc…) si presentano come paladini della lotta alla precarietà, confidando che sventolare qualche promessa (pre-elettorale) su questo tema possa far aumentare i loro consensi (e voti).

 

Dopo le imponenti manifestazioni francesi del marzo scorso contro il CPE (cioè il contratto di primo impiego proposto dal governo De Villepin e poi ritirato - che avrebbe permesso alle imprese di licenziare liberamente i neo-assunti) anche in Italia è dilagato il tema della “lotta contro la precarietà” visto che anche partiti come la Margherita, che annovera tra i suoi più illustri esponenti personaggi come Tiziano Treu (sì, quello del “pacchetto” del 1997 approvato da tutto l'allora centro-sinistra più Rifondazione Comunista e della controriforma delle pensioni di Dini del 1995), ha diffuso manifesti e slogan contro la precarietà.

 

La lotta contro la precarietà costituisce evidentemente un tema fondamentale che, tuttavia, non può essere negoziato con chi della precarietà è stato e resta responsabile.

Nel paese nascono diversi coordinamenti che intendono muoversi sul terreno della lotta contro la precarietà e contro chi ne è responsabile.

Anche nel nostro territorio, a cavallo tra la Toscana e la Liguria, è in corso da alcuni mesi un confronto volto alla costruzione di un vero e proprio coordinamento inter-territoriale su lavoro e precariato. A questa costruzione partecipano anche i compagni di Primomaggio che, in occasione dei vari incontri (che si sono tutti tenuti a La Spezia) hanno presentato due documenti (che riproduciamo in questo numero di PM): il primo, sul tema del precariato in generale e contro alcuni luoghi comuni che talvolta fanno la loro ricomparsa; il secondo, sul tema della grande distribuzione, individuata come un luogo di concentrazione delle precarietà.

Si tratta evidentemente solo di appunti. Li pubblichiamo perché pensiamo che possano comunque essere utili nell’ambito di un confronto sul tema della precarietà.

 

Primomaggio

 

1. Nelle prime 3 riunioni della “rete” sin qui svolte si è usato molto il termine “precarietà” e si è detto, correttamente, che ormai la precarietà non è più solo uno stato normativo/contrattuale, ma piuttosto una condizione “esistenziale”. A noi questo sembra un buon approccio, anche perché colloca il lavoratore nella sua dimensione di vita complessiva e non solo nella sua (pur fondamentale) sfera lavorativa.

 

2. Ma che cosa intendiamo per lavoro precario ?

Solo chiarendo - anche a noi stessi - che cosa intendiamo per “precario” possiamo sviluppare un intervento efficace. Un lavoratore con un contratto a tempo indeterminato che lavora in un'azienda con meno di 15 dipendenti (a cui, dunque, non si applica lo “Statuto dei lavoratori” e il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato) è davvero “molto più garantito”, ad esempio, di un precario della scuola inserito in una graduatoria da cui di fatto non esce e che in capo ad alcuni anni gli “garantisce” teoricamente di essere chiamato ogni anno al lavoro ?

Un lavoratore che lavora in una azienda con più di 15 dipendenti - con tanto di diritti, ammortizzatori e agibilità politico/sindacale…- ma sottoposto al rischio di de-localizzazione all'estero dell'impresa, è un “garantito” ?

E tutte quelle forme di ricatto, di mobbing, addirittura di illegalità a priori (far firmare lettere di licenziamento in bianco è una pratica molto diffusa in tanti ambienti…), l'uso spregiudicato e truffaldino dei fallimenti… non prefigurano comunque una effettiva precarietà del lavoro e della vita che va oltre la dimensione puramente contrattuale ?

Possiamo dire, quindi, che in larghissima parte la precarietà è ormai la condizione prevalente, stabile e permanente del mondo del lavoro soprattutto in una fase di crisi economica in cui i posti diminuiscono perché le imprese falliscono, ristrutturano o si spostano in altri paesi con tassi di profitto maggiori.

 

3. Nelle discussioni è emersa frequentemente la questione del rapporto/contrapposizione tra “precari” e presunti “garantiti”. Noi riteniamo che sottolineare ossessivamente il tema dell'aristocrazia e della contrapposizione tra precari e “garantiti” sia un errore molto grave che costituisce un plateale arretramento rispetto ad una logica di unità di classe, logica senza la quale qualsiasi impegno sui temi del lavoro finisce per essere oggettivamente favorevole ad una cultura che trasforma le diversità in antagonismi e non vede perché non sa e non vuole vederli - gli elementi di unità. Dunque, di nessun interesse per parte nostra.

La logica che deve presiedere al nostro impegno non deve essere quella che “l'ultimo deve sparare al penultimo che a sua volta deve sparare al terzultimo e così via…”. Questa è, semplicemente, la via della disgregazione di classe e della lotta di “tutti contro tutti” pienamente funzionale agli interessi capitalistici e, detto per inciso, originata da una sorta di economicismo dozzinale che colloca il livello più alto dello scontro e della coscienza al livello più basso della scala economica. Questo non è mai stato vero, non è vero e mai sarà vero dal punto di vista anche solo della lotta di resistenza ed economica; e lo è ancora meno dal punto di vista della lotta politica.

Dobbiamo saper analizzare le dinamiche che si sviluppano nei luoghi di lavoro senza idealismi di alcun tipo e senza “falsa coscienza”, saper individuare anche la cosiddetta “aristocrazia operaia” dove c'è effettivamente, denunciare i comportamenti filo-padronali… e bisogna avere il coraggio di farlo tra i lavoratori, non nelle “proprie stanze”, cosa possibile solo se si ha davvero un intervento tra i lavoratori e non se ne parla solo per “sentito dire”.

Da lì a suggerire che dietro ogni contratto a tempo indeterminato si nascondano “aristocratici” e “servi dei padroni” è una concezione che noi combattiamo e combatteremo sempre con tutte le forze, quando anche provenisse da “compagni” (che evidentemente non conoscono nulla del mondo del lavoro e che non hanno neppure quell'umiltà necessaria per ascoltare chi nel mondo del lavoro ci sta e ci opera da sempre).

 

4. Ci sono tanti modi per affrontare il tema del precariato. Ad una assemblea sul tema “Fondi pensione integrativi, TFR e pensioni” organizzata da Primomaggio a Massa, Corrado Delle Donne dell'Alfa Romeo di Arese ci diceva che loro hanno combattuto la precarizzazione del lavoro imponendo alle nuove imprese che si vanno insediando nell'area di Arese - attraverso una lotta molto dura, con tanto di occupazioni delle autostrade, cortei, scioperi, picchetti, ecc…- di adottare standard contrattuali equivalenti a quelli presenti in quell'area da prima e imponendo una “RSU di sito” (in modo da dare forza anche alle piccolissime ditte). Poi si può anche sproloquiare sul ruolo reazionario dei consigli di fabbrica e dei delegati dei lavoratori (cosa talvolta, ma non sempre, vera) ma è chiaro che dove prevale una logica di classe questo ruolo reazionario viene impedito. Quello di Arese, a nostro avviso, rappresenta un esempio interessante di come lavoratori “garantiti” - tra l'altro in via di progressiva espulsione da 15 anni - lottano per mantenere livelli contrattuali minimi e porre un argine al dilagare del precariato. Si tratta, come detto, di un esempio, non certo della generalità delle situazioni, ma dimostra che nella lotta contro il precariato si possono e devono coinvolgere anche lavoratori che contrattualmente verrebbero definiti “garantiti” e che può ottenere qualcosa di “concreto” solo quando si costruisce una iniziativa concreta, reale, che coinvolge i lavoratori e non resta allo stadio della pura propaganda e/o denuncia (anche se quella della “concretezza” è spesso un'arma a doppio taglio che viene agitata per tagliare corto rispetto alle questioni politiche fondamentali).

 

5. Il segreto del successo di una strategia di lotta non sta solo in ciò che si crea, ma anche in ciò che si distrugge. Potremmo riassumere - con uno slogan - che la nostra strategia deve essere quella della costruzione del blocco sociale anti-capitalista e - dialetticamente - della disarticolazione del blocco sociale anti-proletario.

Come realizzare questi obbiettivi, o meglio, più modestamente, come dare un piccolo contributo in questo senso, è oggetto di una riflessione tattica. Ma noi non possiamo anteporre la tattica alla strategia, discutere del “come” prima del “perché”, ridurre la nostra progettualità ad una discussione, che rischia di diventare sterile, sulle forme senza avere ben chiari gli obbiettivi, rischiando tra l'altro di consolidare oggettivamente il blocco sociale anti-proletario regalando al nostro avversario interi settori/strati di classe, facendo così solo un regalo ai padroni e allo Stato, non certo alla causa della lotta di classe.

 

6. Noi riteniamo che l'obbiettivo principale del nostro impegno non debba essere quello di fare “sportelli informativi per i precari” o di costituire “punti di riferimento per i precari” (che i centri per l'impiego delle Province e delle Regioni, nonché i sindacati di regime, fanno comunque molto più efficacemente di noi), ma piuttosto quello di stimolare una presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il precariato, quale modello di società prefiguri, di come si inserisca nel processo di ristrutturazione capitalistica avviato anche per rispondere alle lotte operaie degli anni (ormai dei decenni) scorsi… Se ci specializziamo nel supporto ai precari o anche se diventiamo “comitato precari” facciamo un passo indietro rispetto all'idea, per noi corretta, che solo l'unità di tutti i lavoratori, aldilà delle specificità, delle categorie, ecc… sia utile (anche) per migliorarne le condizioni materiali e, soprattutto, per avviare quel processo di “abolizione dell'esistente” che rappresenta la sola condizione per superare disuguaglianza, sfruttamento, alienazione. E' del tutto evidente, infatti, che per un precario la prima lotta è quella per non essere più precario, è la lotta per la stabilizzazione. Si tratta di una sacrosanta lotta rivendicativa che però, senza un livello più ampio, finisce inesorabilmente per diventare una “battaglia a tempo” che termina immediatamente dopo che il risultato è stato raggiunto (e questo infatti è valso storicamente anche per altre lotte, come quella per la casa, ecc…). Noi, di questo, abbiamo avuto esperienza in relazione alla lotta degli LSU della provincia di Massa-Carrara che hanno (giustamente) chiamato alla solidarietà con la loro lotta, ma poi sono spariti dalla circolazione come (forse) era naturale che fosse, anche come individualità.

Si potrebbe riassumere dicendo che più della lotta contro il precariato è importante la lotta dei lavoratori contro il sistema del lavoro salariato di cui il precariato è oggi una delle forme necessarie. Nella nostra esperienza è questo il livello di coscienza necessario anche per stimolare semplici lotte di resistenza.

 

7. A differenza di altri compagni - ma non pretendiamo che tutti la pensino come noi - noi vediamo la grande differenza tra un lavoro “politico” ed un lavoro “sindacale”, e riteniamo che questa sia una differenza da non dimenticare per evitare di sovrapporre livelli non sovrapponibili.

Chiunque abbia vissuto esperienze effettive (e non virtuali) di direzione e internità in movimenti dei lavoratori (piccoli e meno piccoli) sa che il livello sindacale (la lotta economica, la difesa dei diritti, il miglioramento della qualità della vita e del lavoro, la stabilizzazone, la difesa del posto, la conquista degli ammortizzatori sociali…. sono temi che i lavoratori recepiscono in modo relativamente chiaro). Cambiano - e di molto - le cose quando si passa ad una visione di prospettiva, quando la contraddizione tra capitale e lavoro viene assunta come pietra angolare del funzionamento del modo di produzione capitalistico (che poi è quello in cui viviamo).

Noi riteniamo che la costruzione di un sindacato di classe sarebbe cosa più che necessaria (sebbene non ne vediamo al momento i presupposti in nessuna delle esperienze del sindacalismo di base, per un verso o per l'altro). Ma riteniamo che i problemi - almeno per come sono stati posti nelle varie assemblee tenute a La Spezia - non possano essere ricondotti ad una dimensione sindacale (quale sarebbe quella della “rappresentanza” dei precari, ammesso che le migliaia di precari esistenti percepissero la rete come strumento di rappresentanza).

Anche quando parliamo di conflitto, dobbiamo intenderci. Si tratta di stimolare i lavoratori ad organizzarsi contro l'apertura domenicale (la battaglia attuale nel campo dei lavoratori del commercio/distribuzione) o stimolarli a lottare contro il capitalismo ? L'una cosa non implica affatto l'altra; la storia e l'esperienza ci insegnano che spesso la linea di sviluppo del conflitto sociale e di classe non scorre quasi mai dallo spontaneo verso l'organizzato, ma viceversa. E' dove pre-esiste una coscienza politica che si sviluppa il conflitto politico e non il contrario. Questo spiega anche il motivo per cui il problema del precariato e del contesto storico in cui si inserisce emerge in un contesto non spontaneo come quello della rete che si riunisce a La Spezia, dove molti compagni hanno - chi più chi meno - esperienza politica e - chi più chi meno - altre esperienze dirette/indirette sul tema.

 

8. Le forme di resistenza che i lavoratori mettono in moto per diminuire il carico e i ritmi di lavoro sono le più varie. Non possiamo essere certo noi a spiegare ai lavoratori come prendersi delle pause o come rallentare i ritmi (magari basandoci sulle forme di auto-rallentamento attuate in epoche o situazioni lavorative completamente diverse !!).

I lavoratori sanno da soli, se vogliono, come lavorare meno.

La nostra discussione sul tema della “memoria” è importante, ma non tanto per dire ai lavoratori quello che devono fare, bensì per dire ai lavoratori come la pensiamo noi sui temi del lavoro (e del rapporto con le dinamiche del modo di produzione capitalistico).

Qui abbiamo diritto di parola, qui possiamo dare un contributo di riflessione e di stimolo.

L'idea di portare il conflitto dall'esterno verso l'interno dei luoghi di lavoro è un'idea al tempo stesso sbagliata e non praticabile (anche se può sembrare plausibile a causa delle difficoltà a operare internamente) per almeno due ragioni: primo, se i lavoratori non hanno intenzione - o non hanno la forza - di organizzarsi internamente, non c'è nessuna rete esterna che possa farlo per conto loro; secondo, perché prima o poi le lotte si devono fare “internamente”, fosse anche attraverso una dimensione di organizzazione a carattere territoriale. Certo, la territorialità è una caratteristica sempre più decisiva (ed infatti noi come Primomaggio l'abbiamo posta a fondamento della nostra idea di autorganizzazione); ad esempio, ha poco senso pensare a lotte di “negozio” nella distribuzione, eccezion fatta per eliminare le piccole angherie quotidiane e altro, ma bisogna pensare piuttosto ad una lotta “di catena” e “di settore”. Poi, però, è dentro i luoghi di lavoro che si deve conquistare il rapporto di forza necessario per conquistare taluni diritti (cosa che noi, non avendo la puzza sotto al naso, pensiamo che sia importante realizzare concretamente mentre sviluppiamo la nostra proposta/riflessione di carattere generale contro il capitalismo).

 

9. Si fa spesso appello a parlare semplice, a non fare ragionamenti complessi, a valorizzare quello che unisce… Sono tutti propositi sacrosanti, come altrettanto sacrosanta è la necessità di dotarsi di strumenti concettuali, di analisi e di inchiesta che ci consentano di comprendere in maniera non puramente empirica o peggio ancora di non comprendere per niente quali siano le dinamiche sui posti di lavoro.

Se ciò che ci unisce fosse poco o inutile o sbagliato che senso avrebbe unirsi ? Che unione sarebbe ? E quanto durerebbe ? E, soprattutto, a cosa servirebbe ?

In certi campi la buona volontà è davvero solo una parte del problema.

Una aggregazione fine a se stessa può essere utile per chi ha interesse a sviluppare un'opera di proselitismo individuale (che nei grandi numeri è più agevole) o, per altro verso, per chi ha interessi elettoralistici.

Chi, invece, come noi ha interesse a determinare elementi e processi di trasformazione reale dell'esistente non può limitarsi al “fare tanto per fare” perché alla fine, come ci insegnano decenni di storia del movimento dei lavoratori, non si combina nulla e resta solo un senso sempre più profondo di impotenza e di sconfitta.

Si potrebbe dire: meglio un piccolo passo nella giusta direzione che un grande passo nella direzione sbagliata.

Banale magari, ma chiaro.