Delocalizzazione. Una nuova tappa della ristrutturazione capitalistica
La società industriale nasce e si sviluppa negli anni che
vanno dal 1730 al 1830 quando si avvia un processo di trasformazione nei mezzi
e nei modi di lavorare e produrre. Quella che è stata definita la rivoluzione
industriale apre le porte dell’epoca contemporanea con enormi ripercussioni sul
sistema economico, sociale, politico-istituzionale e culturale. La grande
novità della “rivoluzione industriale” è il consolidarsi di un nuovo tipo di
rapporto sociale basato sulle coppie “capitale-lavoro” e “profitto-salario” che
ancora oggi è dominante. Si consolida, in definitiva, lo sviluppo del modo
capitalistico di produzione.
Tra le caratteristiche
fondamentali del modo di produzione capitalistico troviamo la concentrazione di
operai nelle grandi manifatture e lo sviluppo enorme della divisione del
lavoro.
A partire dagli anni ‘20 del ‘900
viene introdotta una nuova organizzazione del lavoro, spesso chiamata
taylorista-fordista (dal nome dell’ingegnere che la progettò e dell’impresa che
per prima la utilizzò) con l’obiettivo di raggiungere un modello industriale
fondato sulla produzione di massa e di serie che consentisse l’attivazione di
un mercato su larga scala, in cui i consumatori e i produttori divenissero in
qualche modo l’uno la condizione per lo sviluppo dell’altro [1].
Le competenze professionali
vengono progressivamente sottratte ai lavoratori e trasferite nelle mani della
direzione attraverso la parcellizzazione delle mansioni lungo un apparato di
convogliamento detto catena di montaggio.
Ogni attività elementare è
cronometrata e resa elementare per ridurre aumentare la produttività e
standardizzare i prodotti.
Ovviamente l’obiettivo non è
quello di mettere l’operaio nelle condizioni migliori per lavorare, ma bensì
costringerlo ad essere più produttivo nell’intero arco della giornata
lavorativa, eliminando le “artigianalità” presenti nella produzione.
Esattamente il contrario, dunque, di quanto sbandiera la propaganda borghese
che vorrebbe descrivere il cambiamento come una sorta di umanizzazione del
lavoro.
Il grande limite del fordismo è
quello che produce un forte aumento dell’estraniazione. La parcellizzazione,
infatti, fa sì che l’operaio non possa più riconoscere l’oggetto del proprio
lavoro, che egli considera sempre più estraneo a sé.
Il suo lavoro non ha alcuna forma
di umanità, non esprime in alcun modo la personalità dell’operaio; è solo e
soltanto un mezzo per procurarsi i mezzi di sopravvivenza.
Questa percezione del lavoratore
verso il proprio lavoro fa sì che aumentino il disagio e l’insofferenza, che
portano all’esplosione di continue tensioni e allo sviluppo della
conflittualità di fabbrica.
Per rompere la resistenza operaia
il capitalismo si orienta verso forme sempre nuove di organizzazione del lavoro
che possano contenere la conflittualità e sviluppare una maggiore
“partecipazione”. E non può essere altrimenti vista la natura e l’essenza stessa
del capitalismo alla costante ricerca del massimo profitto. Si arriva così ad
un parziale superamento del fordismo verso una nuova organizzazione del lavoro
detta toyotista, basata su una parziale ricomposizione delle mansioni e
realizzata attraverso la maggiore flessibilità del lavoratore.
Anche l’azienda si flessibilizza
e tende verso una sorta di impresa-rete, che va da aziende protagoniste di un
intenso decentramento produttivo di attività manifatturiere e di servizi, a
sistemi di imprese collegate fra loro dove non esistono collegamenti societari
o organizzativi, fino a potenti sistemi di cooperazione operativa.
La “via giapponese” al
superamento del fordismo si fonda sulla “filosofia dell’essenzialità”.
Qualsiasi elemento superfluo o
residuo rappresenta uno spreco: manutenzioni inutili, tempi morti, prodotti
scadenti, scarti, personale addetto, compiti burocratici o di controllo...
In sostanza, ogni fase non
inerente al momento stretto della produzione viene controllato e contenuto. In
ogni momento del ciclo produttivo, le materie prime, i mezzi di produzione, il
prodotto… sono sotto l’occhio vigile del sistema di controllo qualità. La
filosofia “zero difetti” investe tutto il ciclo produttivo, eliminando
qualsiasi spreco.
Nell’epoca della rete-impresa e
della flessibilità si sviluppano massicci processi di “esternalizzazione”,
ovverosia di “sostituzione crescente di relazioni di complementarità strategica
e operativa esterna con altre imprese (nelle reti) ai circuiti interni della
singola impresa” [2].
Secondo la borghesia questo
significa che la capacità produttiva e finanziaria di un’impresa non è più
identificabile strettamente con il campo in cui opera in quanto, attraverso il
collegamento a rete, può collaborare con altre imprese in ambiti e settori
vari. L’impresa può “decomporsi” e “ricomporsi” con molta maggiore flessibilità
e rapidità, incrementando profondamente le sue capacità di sviluppo e
innovazione.
Il fenomeno della
esternalizzazione su scala internazionale rientra nel campo della cosiddetta
delocalizzazione (o global outsourcing).
Questo fenomeno necessita spesso
di grossi investimenti infrastrutturali nei paesi interessati i cui costi che
vengono poi scaricati, tanto dal punto di vista economico e finanziario, quanto
dal punto di vista degli impatti sociali e ambientali, sulle popolazioni
residenti.
Il miglioramento delle
infrastrutture viene realizzato, nell’ottica della riduzione dei vincoli
spazio-temporali [3], attraverso il massiccio utilizzo delle cosiddette “nuove
tecnologie”.
La delocalizzazione, in tutte le
sue forme, non è altro che il tentativo capitalista di incrementare la
flessibilità produttiva con costi del lavoro enormemente inferiori (o, più
semplicemente, costi di supersfruttamento), conflitto sociale tendente allo
zero, costi di produzione enormemente più bassi, costi energetici e tassazioni
irrilevanti rispetto ai paesi di origine.
Tutto ciò è chiamato
competitività. Un’impresa è “competitiva” se produce a costi bassi, per cui,
quando in Italia sia a destra che a “sinistra” - si parla di necessario aumento
della competitività delle imprese, si intende semplicemente aumento della loro
libertà di sfruttare, qui e nel resto del mondo.
Nel nostro paese le dimensioni
del processo di delocalizzazione non sono facili da valutare e ciò è dovuto
all’intreccio di imprese che acquistano, producono e vendono lungo tutta la
filiera.
Le imprese sono reticenti a
diffondere dati, soprattutto in termini di conseguenze sul mondo del lavoro,
visto anche l’alto tasso di disoccupazione italiano. Neppure i sindacato
forniscono molti dati.
L’Europa dell’Est - in
particolare la Romania nella regione di Timisoara - è l’area che registra la
maggiore presenza di aziende italiane delocalizzate.
I motivi sono vari: quasi tutti i
paesi dell’Est-Europa entro qualche anno saranno parte dell’Unione Europea;
sono relativamente vicini; possiedono abbondante manodopera a basso prezzo, ma
qualificata; alcuni di loro possiedono materie prime e rappresentano mercati in
espansione.
La delocalizzazione ha riguardato
innanzitutto il settore industriale-manifatturiero, contribuendo (anche se non
ne è stata la sola causa) alla progressiva deindustrializzazione. In un secondo
momento ha investito le piccole e medie imprese, il terziario, i servizi.
Il fenomeno
dell’esternalizzazione della produzione (outsourcing) ha interessato,
ovviamente, quasi solo le grandi imprese industriali e per questa ragione in
Italia è arrivato in ritardo (portando un ritardo anche nel successivo fenomeno
della delocalizzazione).
La ragione di questo ritardo
risiede nel fatto che l’Italia ha sempre avuto una prevalenza di piccole-medie
imprese e una quota relativamente piccola di grandi imprese.
Ma in Italia esisteva ed esiste
ancora la cosiddetta “questione meridionale” che, dal punto di vista
economico-sociale si riassume in uno stato di sotto-sviluppo cronico delle
regioni del Sud. Questa situazione ha creato le premesse per la migrazione
interna del secondo dopoguerra, migrazione proseguita - seppure in misura
diversa a causa della crisi e della chiusura e ridimensionamento di molte
fabbriche - anche nei decenni successivi. Grazie a questa migrazione non sono
state le grandi industrie del Nord (Fiat in testa) a spostarsi verso il Sud (se
non negli ultimi 10 anni con Melfi), ma sono stati i lavoratori del Sud a
spostarsi verso le imprese del Nord. Un fenomeno analogo è in atto anche oggi
con l’immigrazione proveniente dai paesi extra-comunitari.
Con la caduta del muro di Berlino
e l’accelerazione del processo di integrazione europea le PMI italiane hanno
sviluppato una accentuata tendenza alla internazionalizzazione con forti
implicazioni sulle reti di fornitura e sulla riorganizzazione dei processi
produttivi.
Le PMI hanno incominciato ad
internazionalizzare, non solo dal punto di vista distributivo e commerciale, ma
anche da quello della produzione, portando attività ad alta intensità di lavoro
in paesi contraddistinti da abbondanza di manodopera e costi limitati.
La finanziarizzazione è stata la
tendenza che ha accompagnato ovunque la deindustrializzazione.
Nel nostro paese la
finanziarizzazione è stata molto importante, come si può evincere anche da
studi specifici: “A scorrere l’elenco delle società via via ammesse al listino
azionario della borsa milanese... si percepisce, forse meglio che da qualsiasi
altro osservatorio, la tendenza dell’élite del capitalismo italiano a
esercitare, dalla crisi petrolifera del 1973, sempre meno l’industria e sempre
più la finanza, intesa non come mezzo per sostenere la crescita della produzione,
ma come attività a sé stante, vera e propria ‘industria’ capace di realizzare
nelle sue operazioni la parte principale dei profitti” [4].
Pur senza enfatizzare tesi che
parlano di società ormai postindustriali, è indubbia l’espansione relativa
(cioè in relazione alla attività produttiva primaria) della sfera di attività
legate al terziario e, in particolare, ai servizi.
Con lo sviluppo delle
comunicazioni e dell’informatica diventa più facile governare in tempo reale
situazioni distanti migliaia di chilometri. Del resto, la distanza è una
funzione della velocità con cui la si percorre [5].
Non si tratta più di centrare
l’attenzione solo su singoli prodotti, ma di vendere oltre al prodotto anche
reti di vendita, agevolazioni finanziarie e assicurative, tecnologia,
organizzazione.
Lo sviluppo dei servizi significa
anche potenziamento del sistema di trasporto delle merci con annessi nodi
stradali, ferroviari, aeroportuali... Ovviamente l’impatto ambientale non è
elemento che possa mettere i bastoni tra le ruote dello sfruttamento sfrenato e
totale.
I paesi che garantiscono un costo
del lavoro più basso sono i più “vantaggiosi” anche da questo punto di vista
perché il ricatto della fame e della miseria fa passare per benefattori i
capitalisti “che danno lavoro”. Come, non importa.
L’importanza per il capitalismo
dello sviluppo delle vie di comunicazione (”comunicazione”, nella sua più larga
accezione) non è certo una novità. In questo senso, lo sviluppo informatico ha
avuto un ruolo importante in questi ultimi anni ed è diventato un “servizio”
centrale per il modo di produzione capitalistico. Oltre alle traslazioni
finanziarie e documentali (di cui sono stati abbattuti di molto i tempi, con
conseguente diminuzione dei costi e recupero da parte delle aziende in termini
di produttività) si può considerare l’uso crescente della videoconferenza,
usata come mezzo necessario al trasferimento di saperi e conoscenze a distanza
(si insegna come lavorare su una macchina senza spostare personale), fino ad
arrivare alla sorveglianza di reparti produttivi ed intere aree di stoccaggio o
passaggio delle merci.
Non serve spiegare a chi serve
tutto questo sistema le cui parole chiave sono produttività, competitività,
“progresso”, “riforme”, globalizzazione… Si dice: sono “treni” che “non si
possono perdere” pena “l’estromissione dai circuiti produttivi che contano”.
Invece, sono tutte chiacchiere che servono solo per mascherare la volontà di
aumentare il tasso di profitto e di sfruttamento dei lavoratori.
Francesco
NOTE
[1] Cfr. La Rosa M., (a cura di), Il lavoro nella sociologia,
Roma, NIS, 1993.
[2] Regini M. (a cura di), La
sfida della flessibilità, Milano, Angeli, 1988, pag. 97.
[3] Cfr Zygmunt Bauman, Dentro la
globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, pag. 18.
[4] G. De Luca (a cura di),
Dall’economia industriale all’“industria della finanza”: le società quotate al
listino azionario della Borsa di Milano dal 1861 al 2000, in Le società quotate
alla Borsa valori di Milano dal 1861 al 2000. Profili storici e titoli
azionari, Milano, Scheiwiller, 2002, pagg. 25-27.
[5] Cfr. Zygmunt Bauman, ibidem, pag. 16.