La delocalizzazione nel Nord-Est
Il sistema capitalistico internazionale è attraversato da
una crisi di sovrapproduzione che non risparmia neppure il cosiddetto “Nordest
produttivo”.
Tutti i settori registrano cali
significativi di fatturato ed ordini.
La crisi accelera il processo di
formazione dei monopoli. I gruppi capitalistici più grandi tendono a diventare
sempre più grandi (attraverso un fenomeno di concentrazione della produzione e
dei capitali) e ad ampliare l’intervento nelle attività speculative e
finanziarie, a discapito di quelle produttive.
Già da decenni si è affermata la
tendenza alla cosiddetta “esportazione di capitali”, cioè la tendenza a
spostare le attività produttive verso aree a maggior tasso di profitto.
Ma non tutte le imprese hanno la
possibilità di attuare questa “esportazione di capitali” (che oggi viene
chiamata comunemente “delocalizzazione”). Le piccole e medie imprese, ad
esempio, hanno molte più difficoltà a delocalizzarsi e, di conseguenza, subiscono
maggiormente gli effetti della crisi (ed è appunto la chiusura di molte piccole
imprese che determina la tendenza al monopolismo nei veri settori di mercato).
Nella realtà vicentina la quota
di piccole-medie imprese (PMI) è molto grande in relazione a quella delle
grandi imprese. Non abbiamo grandi fabbriche (poche superano i 200 addetti);
esiste, invece, una forte diffusione della piccola-media industria e dei
piccoli laboratori artigianali.
Il “modello Nordest” è giunto
ormai ad un punto critico; sono infatti andate esaurendosi le condizioni che ne
avevano permesso la crescita negli ultimi decenni alimentata principalmente da:
1) prezzi competitivi dovuti alla
svalutazione della moneta e, soprattutto, alla compressione dei costi di
produzione realizzata grazie all'elevato grado di sfruttamento della
manodopera, ai più bassi salari d'Europa, a buste paga truccate, a orari estesi
a dismisura, a diritti negati, a soprusi e costrizioni, a infortuni a
ripetizione. Questo era - ed è ancora - il prezzo da pagare per chi lavora nel
“ricco Nordest”, il cui tessuto produttivo è costituito per la maggiore da
imprese sotto le 15 unità, cui non si applica lo Statuto dei Lavoratori.
2) dagli aiuti statali alle
imprese, tramite i sistematici sussidi a fondo perduto ed una minore pressione
fiscale.
3) dalle esportazioni di merci
(lavorazione di mobili, oro, concia, metalmeccanica, elettromeccanica, macchine
utensili) così ripartita: per il 36,9% verso l'UE, per il 15,6% verso l'Europa
centro orientale, per il 14,4% verso gli USA e per il 16% verso l'Asia.
Con l'avvento dell'euro le
imprese italiane non possono più utilizzare il meccanismo della svalutazione
della moneta per mantenere la loro competitività a livello internazionale. Di
conseguenza oggi le industrie vicentine soffrono la concorrenza proveniente
anche da paesi come Francia e Germania e vedono aumentare la difficoltà ad
esportare in quei paesi.
Nello stesso tempo è enormemente
cresciuta la concorrenza di Cina e India.
Vicenza ha visto scendere le
proprie esportazioni di quasi un quarto rispetto al 2004 (-23,1%) e soprattutto
quelle verso l'UE (-36,5%).
Come detto, le PMI sono spesso
troppo piccole per affrontare i costi e i problemi di delocalizzazione; di
conseguenza, sono più esposte al fallimento nelle situazioni di crisi più
profonda. Questa debolezza le costringe a sviluppare la propria struttura e
dimensione, per poter reggere il confronto con i maggiori gruppi italiani ed
esteri attraverso i cosiddetti “distretti industriali”. Questi sono dei “contesti
produttivi omogenei”, caratterizzati da un'elevata concentrazione di imprese -
prevalentemente di piccole e medie dimensioni - e da una elevata
specializzazione produttiva.
Questi distretti vengono poi
delocalizzati in zone dove le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e di
sostegno statale a tutti i livelli (fiscalità, sicurezza, ambiente…) sono
migliori.
Le Associazioni Industriali delle
province venete hanno dato il via a diverse forme consortili con lo scopo di
accompagnare le aziende nei mercati esteri (Vicenza-export, Uniexport,
Invexport, Treviso Global). Queste associazioni (a delinquere) sbrigano
pratiche legali, amministrative e finanziarie, assistendo le industrie anche
con uffici distaccati.
Il “progetto Samorin” (città
slovacca) è stato il primo caso vicentino di delocalizzazione.
Adamo Della Fontana, delegato per
gli affari internazionali dell'Associazione Industriali di Vicenza dice:
“Samorin è stata scelta per svariati motivi. Per le agevolazioni finanziarie,
che vanno ad aggiungersi a quelle italiane ed europee per la Slovacchia, il cui
governo può coprire, con contributi a fondo perduto, fino al 65% degli oneri
per l'urbanizzazione di aree dedicate; per la disponibilità di aree a costi
contenuti e l'enorme disponibilità di capannoni liberi da acquistare o prendere
in affitto. A Samorin esiste una tradizione elettro-meccanica che offre
manodopera preparata, ad un costo medio di ben cinque volte inferiore a quello
italiano. Anche il costo dell'energia è molto contenuto (0,05 euro per KW/h).
Si deve tener presente che la Slovacchia usufruirà dei vantaggi commerciali
derivanti dal suo ingresso nell'UE. Molte aziende vanno all'estero, è ormai
chiaro che non possiamo rimanere competitivi senza fare questa scelta”.
Mentre Fiorenzo Sbabo, presidente
di Apindustria Vicenza, dichiara: “Sono ormai 2038 le aziende partecipate da
capitale veneto presenti in Romania e rappresentano il 16,5% della presenza
italiana in quel paese (12.351 aziende)”.
Dalla prima indagine sulla
presenza imprenditoriale veneta in Romania - realizzata dal Centro Estero
Veneto - emerge che gli investimenti veneti si realizzano sotto forma di
piccole e medie imprese ripartite come segue: 15,8% distribuzione all'ingrosso;
11,5% servizi; 10,5% abbigliamento/tessile; 9,6% legno/arredo; 9% agricoltura;
7% calzaturiero/lavorazione pelli.
Padova con 454 ditte è la
provincia veneta con maggior presenza in Romania, seguita da Treviso con 434,
Vicenza con 417, Verona con 388, Venezia con 225, Rovigo con 94 e Belluno con
26.
Il padronato vicentino si sta
orientando verso tre specifici mercati: quello russo, quello cinese e quello
indiano. Questi mercati offrono grandi opportunità alle PMI vicentine in tutti
i settori. Prossimamente verrà riprodotto il modello berico duplicando alcune
filiere dell'economia vicentina in Cina (a Pechino oppure a Shangai).
Questo gigantesco processo di
trasferimento fa si che nel Vicentino 2.000 persone abbiano perso il lavoro nel
2004 (2.842 l'anno scorso). Gli operatori del settore prevedono per il 2005
un'ulteriore diminuzione occupazionale dell'1,1% (2.822 licenziamenti).
Questi dati dimostrano
l'inconsistenza delle tesi sostenute dai vari sociologi, giuristi del lavoro,
economisti ed esperti di relazioni industriali che esaltano la “micro
imprenditorialità”.
In realtà, le piccole e medie
imprese sono fonte di massimo sfruttamento nei periodi di “vacche grasse” e di
immediata perdita del posto di lavoro in tempi di “vacche magre”.
Alcuni affermano che l'industria
appartiene ormai al passato delle società ex “industrialmente avanzate” e che
il nostro futuro è rappresentato dai servizi - laddove la produzione viene
ritenuta possibile solo in paesi poveri o in (perenne) “via di sviluppo” -.
Ma se analizziamo il tessuto
produttivo vicentino vediamo l'infondatezza di questa tesi.
In termini di aziende il peso
maggiore è quello delle attività commerciali (23,9%); segue la manifattura
(20,8%) e l'agricoltura (14,5%). Altri settori percentualmente consistenti sono
le costruzioni (12,1%) ed i servizi alle imprese (10,8%).
In termini di addetti i pesi
variano considerevolmente: è infatti l’industria manifatturiera ad assorbire
oltre la metà degli occupati 52,9% (135.694 unità), le costruzioni il 7,6%
(19.495 unità), i servizi alle imprese il 6,2% (15.904 unità).
Il totale dei lavoratori è di
256.511 unità.
Insomma, aldilà del peso in termini
di fatturato (comunque inferiore) i servizi non sarebbero mai in grado di
assorbire la forza lavoro espulsa dal ciclo produttivo. Se davvero andiamo
verso una società di servizi allora vuol dire che andiamo verso una società con
un elevatissimo tasso di disoccupazione e di lavoro precario e a tempo
parziale.
Claudio