Il passatempo di Barba Checo

 

Barba Checo, all’anagrafe Francesco Giuseppe Dundovich, sta avviandosi lungo le banchine del porticciolo, tutto assorto a caricare la pipa, ma senza mancare mai di rispondere a chi, dalle barche ormeggiate o dai magazzini brulicanti di gente gli rivolge un cenno, un saluto, un motto di spirito…

“Capitano marittimo a riposo”, la qualifica di Barba Checo. Qualifica tutta racchiusa in quel “Barba”,  un vero e proprio titolo nobiliare che presso le genti della costa istriana e dalmata identifica chi ha avuto il comando di un natante. Qualsiasi natante, si badi: dalla cocia da pesca al transatlantico Vulcania… Eh, fra gente di mare usa così…

In effetti Barba Checo aveva navigato davvero, e tanto: fino a prima della guerra (la prima, quella del 15 – 18…) con il Lloyd Austriaco, facendo Estremo Oriente, America, Canada… Non era mai stato comandante, questo no. Nostromo… E, come tutti i marinai ben sanno, chi manda avanti la baracca è il nostromo, e non il Comandante! Il nostromo è un soggetto fondamentale nella continua mediazione tra gli ordini degli Ufficiali e l’esecuzione dell’equipaggio, e spesso la buona gestione di questa posizione di coordinamento faceva la differenza fra un natante efficiente e in armonia ed un vascello di dannati… Tipo “Il Bounty”, per intendersi…

…O almeno questa era la convinzione di F.G. Dundovich… E guai a contraddirlo!

Dopo il disastro della guerra, tante cose cambiarono. Cambiarono i nomi delle linee di navigazione, cambiarono le rotte, cambiarono i nomi di stati e città sulle carte geografiche e nautiche, e Barba Checo navigava sempre. All’inizio degli anni trenta era pronto per la pensione e così, dopo l’ultimo viaggio in Sudamerica, per l’ultima volta espletò le pratiche per lo sbarco, in quel di Genova, prese il treno e tornò a casa, sulle sponde dell’Adriatico.

Viveva bene, da pensionato: con un po’ di attenzione, i soldi bastavano per una vita più che dignitosa… e poi era di buon carattere, pur se si fingeva burbero e a volte un po’ cinico; sempre disponibile a dare una mano a chiunque in paese ne avesse bisogno: sapeva far lavori da pittore, da falegname, qualcosina da fabbro, e questioni di barche e pesca, poi, neanche parlarne… Era l’esperto più interpellato ed ascoltato. Ed in paese per lui c’erano gran considerazione e rispetto: per celia gli dicevano che, dopo il parroco, il sindaco ed il capitano dei gendarmi l’uomo più importante era lui…

Per diversi anni aveva continuato a star in barca, con altri compaesani  su una barca grande con la quale si stava per mare anche diversi giorni, oppure da solo sulla sua cocia, andando a calar le reti in qualche insenatura, gettando la lenza al limitare di una secca… Ma da qualche tempo non usciva più in mare: non aveva più le gambe così ferme e forti, e diceva sempre che in barca se non si è nel pieno delle forze si diventa un pericolo, per sé e per gli altri. E allora seguiva i pescatori alla loro partenza ed al loro ritorno, seduto sulla bitta in fondo al moletto, scambiando pareri sul tempo, sulla pesca, sugli avvenimenti di cui si discorreva in piazza… E non trascurando, di quando in quando, di dedicarsi lui stesso alla pesca. Ad una pesca tutta speciale, a dire il vero.

Dal tascapane consunto e sbiadito che portava sempre a tracolla, su cui si intuiva ancora l’aquila a due teste simbolo della linea di navigazione di austroungarica memoria, toglieva un grosso gomitolo, non di lenza ma di spago. Anzi, di tanti spezzoni di spago, ben annodati l’uno all’altro… tre metri, cinque metri, due metri e mezzo… Spago sottile, non cerato, simile a quello che assieme ai piombi si usa per sigillare certi pacchi. Tutt’insieme ci saran stati  un centinaio di metri di spago… O giù di lì. Attaccato c’era un grosso amo, da tonni: Barba Checo ci innescava una sarda intera, legandola ben bene con un sottile filo di cotone perché rimanesse ben attaccata all’amo, e poi chiamava qualcuno dei ragazzini che già a  primavera numerosi si tuffavano dal molo e si sfidavano in gare di nuoto, di apnea, di pesca…

Fioi, voi che gavè fià, porteme in fora ‘sta sardela!”

(Ragazzi, voi che avete fiato, portatemi al largo questa sarda!)

Volontari se ne trovavano sempre… Era un orgoglio la sera tornare a casa e dire a mamma “Ho aiutato Barba Checo a pescare!”, e così l’assistente di turno, stringendo lo spago vicino all’amo, iniziava ad allontanarsi verso il mare aperto.

Va ben qua, Barba?”

Và ancora un poco più in fora…” (al largo)

“… Bon, va ben là, mola!”

E così, ad una congrua distanza dalla riva, la sarda si inabissava mentre il ragazzino tornava a gran bracciate verso riva. Barba Checo rovistava nel tascapane, e appena il volontario rientrava e risaliva sul moletto lo ringraziava con una strizzatina d’occhio, allungandogli un paio di liquirizie. Gran lusso…

E Barba Checo continuava la sua vita di società: discussioni, risate, qualche bevuta, una pipata preceduta dalla minuziosa cerimonia del carico del tabacco e seguita dalle laboriose operazioni di pulizia della pipa… Sempre tenendo distrattamente in mano lo spago, quasi dimenticandosene a momenti. A pranzo tirava fuori dal tascapane un pezzo di pane nero, del formaggio, qualche oliva… Una fiaschetta con un po’ di bianco che gli procurava un amico, un ufficiale con il quale aveva navigato, che aveva una tenuta con delle vigne lì sulle colline sopra la baia… E così pranzava. C’è da dire che spesso capitava lì qualcuna delle mogli dei pescatori che, passando al molo a vedere chi c’era e chi non c’era, gli faceva omaggio di qualche pesce fritto, di una gavetta di pasta e fagioli, di un paio di fette di polenta…

Un’oretta prima del calar del sole, si stirava un po’, accennava due passi per sgranchire le gambe, guardava verso ovest e verso nord, e dicendo “Ora de zena…”, ora di cena, iniziava a far su lo spago, attento a far sì che si avvolgesse ordinatamente per non ingarbugliarlo. A volte la sarda c’era ancora, a volte se l’erano mangiata i piccoli pesciolini che spesso stazionavano in mezzo alle posidonie, dove la sabbia cede il passo alla roccia  prima che la scarpata si inabissi nell’Adriatico. Espletata questa formalità, si incamminava lungo il molo diretto verso terra, e tutti i giorni, arrivato alla base del molo, si volgeva a salutare il sole augurandosi in cuor suo di rivederlo sorgere il mattino dopo, un rito che eseguiva scrupolosamente ed inconsciamente da quando aveva l’età della ragione. L’ambiente marinaro è aspro, duro, e si scopre ben presto come la vita sia un dono prezioso che a volte vien sottratto in un batter di ciglia… E tanti anni passati “a pericolar per mar” avevano fatto diventare questa filosofia parte integrante dell’essere di Barba Checo che ci conviveva con umiltà e modestia, con la naturalezza di chi è cresciuto in mezzo alle avversità e che non potrebbe mai immaginare che sull’argomento persone “studiate” abbian speso fiumi d’inchiostro e passato notti insonni…

Sulla strada di casa, un giorno si e un giorno no passava in drogheria a prender un po’ di petrolio per il lume, e si ritirava ai fornelli: un pasto semplice, poi qualche lavoretto domestico, qualche riparazione casalinga, una scorsa al giornale sgualcito raccattato in drogheria o alla trattoria, una pipata accompagnata dall’ultimo sorso di vino e poi scivolava nel sonno del giusto. Aspettando un’altra giornata di aria salmastra, sole o pioggia, compagnia o solitudine.

Questa routine accompagnava le giornate del villaggio, con poche variazioni invero. Finchè, un pomeriggio di maggio…

Barba Checo, sempre seduto sulla bitta in testa al molo, si era girato a dar le spalle al mare, visto che c’era un po’ d’aria, e  stava accendendo la pipa: aveva passato lo spago attorno al polso per aver le mani libere a far coppa attorno al fornello. Mentre dava le prime tirate, sentì lo spago scorrere sulla pelle, lentamente, con un paio di leggeri strattoni... Si volse, pensando che qualcuno stesse calpestando la lenza adagiata sul bordo del molo prima di scender in acqua, ma attorno a lui non c’era nessuno. Era talmente abituato all’esercizio di svolgimento e riavvolgimento “a vuoto” della lenza che stentò un po’ a capire che un pesce aveva abboccato… E la cosa lo stupì a tal punto che, alzandosi in piedi per recuperare filo, un moto di sorpresa gli fece socchiudere la bocca, lasciando così sfilare il cannello della pipa dalle labbra: non battè ciglio, prese al volo la pipa senza nemmeno guardarla e la infilò nuovamente in bocca come se niente fosse successo. La sua attenzione era tutta sulla lenza che vibrava delicatamente…

Si piantò bene sulle gambe, estrasse dalla tasca il rocchetto con quel po’ di spago che vi era rimasto avvolto ed iniziò a far su la lenza, lentamente, un giro dopo l’altro, stando ben attento a fermarsi appena il filo avesse raggiunto una leggera tensione. Così fece, e rimase attento a captare qualche altro movimento all’altro capo della lenza. Un altro strappetto, due, tre… Uno strattone un po’ più deciso, e Barba Checo lasciò filare un po’ di lenza fra le dita. Appena la lenza smise di scorrere fece un respiro profondo, si piantò meglio che poteva sulle gambe e diede una ferrata forte e decisa arretrando di un passo.

… Ed iniziò il finimondo…

La sua ferrata aveva allamato un pesce che a giudicare dagli strattoni doveva esser di dimensioni davvero ragguardevoli! Infatti dopo aver tentato di trattenerlo il pescatore fu costretto a lasciar filare altra lenza, due, tre, quattro metri… Ancora, e ancora… Ormai la lenza era tutta svolta e sul rocchetto non ne rimaneva quasi più. Barba Checo fece passare la lenza dietro al braccio, sopra il gomito, ed iniziò ad indietreggiare. Fatti due passi, recuperò la lenza e si portò nuovamente vicino al bordo del molo, e ripetè l’operazione. Non perdeva neanche tempo a far su il filo sul rocchetto, per paura di perder la presa e dover cedere altri metri di lenza al pesce… Metro dopo metro, lo spago si accumulava sul selciato del molo, ma la trazione all’altro capo non diminuiva. Anzi, di quando in quando il bestione si produceva in una fuga, tirando non tanto violentemente quanto con una costanza ed una regolarità incredibile: Checo aveva avvolto le mani nei bordi delle maniche della giacca, per non farsi incider le carni dallo spago che scorreva, e contrastava con vigore gli sforzi del pesce. Gli cedeva metro a metro la lenza trattenendola quanto più poteva, cercando di fargli esaurire quante più forze possibile, conscio che altrimenti non sarebbe mai riuscito a portarlo a riva… Quando il pesce smetteva di tirare lesto Checo recuperava lenza,  e ne recuperava sempre più di quanta fosse stato costretto a concederne.

Tre, quattro passi dietro le spalle del vecchio marittimo si era raccolta una discreta folla… Percorsa da emozioni divise equamente fra l’ammirazione per la perizia del pescatore e la sorpresa per l’avvenimento: dunque, alla fine un pesce aveva davvero abboccato!!!

Barba Checo non dava mostra di essersi accorto del pubblico… E sbuffando ed imprecando (ma “con creanza”, perché gli ufficiali di marina eran già a quel tempo ufficiali e gentiluomini…) continuava la sua lotta. Ormai svariate decine di metri di lenza si raccoglievano ai suoi piedi, e si sentiva l’imminenza del momento in cui la preda si sarebbe finalmente rivelata suoi occhi. A dire il vero il pescatore un’idea se l’era già fatta… Dall’energia profusa nelle fughe, dagli strattoni decisi e prolungati aveva capito che attaccato al suo spago c’era un dental, un dentice, ma era curioso di vedere quanto grosso fosse… E’ un predatore che supera non di rado la decina di chili, e il Barba già si pregustava lo spettacolo di un pesce grande davvero.

In una pausa del combattimento, percepita la presenza di una buona parte del paese alle sue spalle, senza girarsi disse “El xe un dental, de almeno diese chili mi calcolo…” (E’ un dentice, di dieci chili almeno,  credo…), e subito alla sua affermazione fece seguito un corollario di commenti.

“Eh, Iesusmaria, no sarà miga come quel che ga tirà su Iassetich nel ventioto?”

“Eh, Gesummaria, sarà mica come quello che ha preso Iassetich nel ventotto?”         

“Ma figurevese, quel ghe ne gaveva quindise de chili! Che dentai cussì grandi no se ga mai più visto, qua de ‘ste parti”

“Ma figuratevi, quello ne aveva quindici, di chili! Che dentici così grandi non si son mai più visti da queste parti”

 

“Ma come! Me ricordo mi che Giovani el Ungarese el gaveva ciapà nela rede un pesse che iera grando come un mus!”

“Come! Ricordo che Giovanni l’Ungherese aveva preso con le reti un pesce grande come un asino!”

 

“Ma no, siora Iole, quel ve iera un tono, pretamente! No un dental…”

“Ma no, signora Iole, quello era un tonno, proprio! Non un dentice…”

 

“Ah, sior Bortolo, cossa volè che capisso mi de pessi, che passo le mie giornade cuciada, in orto o in cusina sula scafa?”

“Ah, signor Bortolo, cosa volete che ne capisca io di pesci, che passo le mie giornate china, nell’orto o in cucina sull’acquaio?”

 

“Eh, ben bon, no se pol saver tuto… Ma vardè, vardè che Barba Checo ghe la ga quasi fata!”

“Eh, va bene, va bene, non si può saper tutto… Ma guardate, guardate che Barba Checo ce l’ha quasi fatta!”

 

Ed infatti l’agitarsi dell’acqua, pochi metri al largo, faceva indovinare la presenza del pesce ancora vigoroso e combattivo: si susseguivano brevi strattoni che puntavano verso il fondo, ma erano sempre meno decisi e continui… E sempre più tempo intercorreva fra uno strattone ed il successivo. Barba Checo sorrideva, pur se si vedeva il sudore imperlargli la fronte, perchè sentiva che il pesce ormai era suo…  Ma era ancora più attento e cauto: sapeva bene come a volte un colpo di coda dato quando il pesce sembrava ormai stremato spesso aveva fatto riconquistare la libertà alla preda… E Checo ci teneva a questa preda: nessuno l’aveva mai canzonato apertamente per questa sua improbabile tecnica di pesca, ma qualche sorriso perplesso o qualche cenno di disapprovazione li aveva colti. Ed ora… Beh, non era certo tipo da rivincite: però in acqua, a pochi metri dalle sue gambe, stavano sguazzando diversi chili di soddisfazione pura!

Sembra il dentice abbia ceduto di schianto: la lenza si allenta, Checo recupera velocemente, si vede che c’è qualcosa attaccato, una sagoma scura si muove lenta ed indolente, avvicinandosi sempre di più alla superfice… Ecco, il muso grosso e possente rompe il pelo dell’acqua e si presenta in tutta la sua maestà al pubblico. 

La bocca grande ed irta di denti aguzzi (e quattro canini che sembran quelli di un coccodrillo, quasi!) si apre e si chiude, le pinne anteriori fremono ma non han più la forza di guidare quel corpo massiccio… Anche la bocca di Barba Checo (che però è un po’ meno irta di denti…) si apre e si chiude, ma per lo sbalordimento.

Quella che emerge è una testa grande, tanto grande!

Il pesce, stremato, si arrende. Il pescatore si abbandona per un attimo sulla bitta, poi si gira verso il pubblico e, senza chiedere, porge una mano ad impugnare il guadino che gli vien porto dal parroco, che quando non pascola anime non disdegna di insidiar orate, branzini e dentici.

Si sporge, allunga la rete fin sotto la coda del pesce che… Non ci entra, è troppo grande: il suo possente corpo è ben più largo dell’imboccatura del guadino! Ed allora, camminando lungo il molo, lentamente, tenendo sempre la lenza ben tesa a non far mettere al pesce la testa nuovamente sott’acqua, raggiunge lo squero, lo scivolo da cui si mettono in acqua le barche, e lì Barba Checo tira in secca il dentice.

Per esser sicuro che non gli scappi entra in acqua con i piedi, lo afferra per una branchia e lo trascina su per lo scivolo: fatti tre, quattro passi si lascia cadere sul sedere, sulle alghe fradice, tenendo stretto fra le braccia il pesce che riesce a malapena a sollevare. Alza gli occhi a guardare tutti i compaesani, che l’han seguito nell’ultimo atto della sua lotta tutta personale…  E finalmente, con gli occhi che gli brillano come mai in vita sua, esclama:

“Gavè visto che un pesse, prima o po’, se lo podeva ciapar anche del molo???”

(Avete visto che un pesce, prima o poi, si poteva prendere anche dal molo???)

Gran risata di tutti gli astanti, pacche sulle spalle, ip-ip urrà (non più ammesso nel ventennio e sostituito dal romanissimo eia eia alalà, ma lì sulle rive dell’Adriatico non si badava a questi formalismi…), una grande agitazione pervade tutti mentre Barba Checo, dopo aver finito con una pietosa randellata il pesce, cerca una corda, una cinghia per imbragarlo e portarlo a pesare e misurare.

Morale della favola, il pesce risulterà lungo 132 cm… E pesante 22,700 kg. Ci fosse stato il libro dei record come ai giorni nostri, Barba Checo avrebbe avuto la sua pagina!

E invece… Ormai si è fatta sera: si passa parola, si prendono accordi veloci, qualcuno va svelto da qualcun altro a procurare qualcosa… E così, quando le ombre della sera rendono indistinto il colore del mare da quello del cielo, mentre le prime stelle fan capolino nel cielo terso di maggio e gli ultimi gabbiani salutano il tramonto con le loro grida, su una graticola di formato inusuale viene adagiato il dentice, mentre su dieci, venti fornelli friggono calamari e code di scampi, preparati al volo non appena sbarcati dalle barche da pesca rientrate in porto in tempo per assistere al trionfo di Barba Checo, ed in dieci, venti pentoloni si rimesta la polenta.  Litri e litri di Malvasia annaffieranno la festa… E i soliti canti e balli (inevitabili dopo i litri di Malvasia…) rallegreranno la serata finché si muterà in notte.  Occasione davvero speciale, ché nella norma da quelle parti il riposo reclamava i suoi diritti poco dopo l’arrivo del crepuscolo, ma nessuno ha avuto il coraggio di negarsi ad una festa così…

…E Barba Checo si prese una sbronza come non se ne ricordavano. Dovendo brindare alla sua preda con tutto il paese (che grazie a Dio era di non molte anime…), girava sempre con un bicchiere in mano, che veniva vuotato e riempito con asburgica regolare cadenza. Eh, l’educazione di una volta…

Ma la cosa più bella di tutta la storia è che…

Il giorno dopo, smaltito il canonico mal di testa, dopo aver ingurgitato un po’ di caffè ed un po’ di polenta fredda con la marmellata…

Si avviò verso il moletto, con in tasca il suo rotolo di spago, con l’amo da tonni e la sarda nel tascapane, cercando con lo sguardo qualcuno dei ragazzini che gli portasse l’esca al largo.

…”E se ogi ciapo uno ancora più grando?”

(… e se oggi ne prendo uno ancora più grande?”

Perché, nonostante il pelo bianco e le rughe che gli segnavano il viso, Barba Checo dentro era ancora un fanciullo, capace di meravigliarsi e di sognare, di entusiasmarsi e di divertirsi facendo luccicare i suoi occhi chiari, lì sugli angoli… Trattenendo a stento un sorriso sornione e bonario, ringraziando il Signore ogni giorno che passava per il luccicar della luna sul mare, per il trillo delle rondini, per il chiasso dei bambini, per le nuvole tinte di rosso dal sole che fa capolino dopo il temporale…

E forse proprio il Signore aveva voluto premiarlo, per il suo spirito buono e schietto, con un trofeo che mai più occhi d’uomo videro.

 

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