Scende in piazza il
fronte anti-Bolkestein ed è grande, grandissimo. Sono in tanti ad
affollare le strade e i ponti di Strasburgo, almeno il doppio dei
25mila annunciati. E il colpo d’occhio che offre la città
probabilmente non ha precedenti.
Non te ne accorgi subito, non
quando arrivi davanti alla stazione, al concentramento. E’ tutto
uno sventolare delle bandiere arancioni della Cgt, ma pensi che è
naturale, d’altronde siamo a casa loro. Poi urti un
“colosso” di due metri per due che ti stampa un sorrisone
sotto il cappellino nero con il triangolo della Ig Metall.
Eccoli, i metalmeccanici
tedeschi. Un fiume in piena, in tutti i sensi. Ancora poche
centinaia di metri e spuntano gli iscritti alle altre 4 sigle
sindacali francesi, compresa la Fesal (sindacato di base) che
raramente si trova in piazza con gli altri.
Per capire che l’impressione
iniziale è sbagliata è solo questione di curve. Al primo
rettilineo si apre una platea colorata e poliglotta, fischi,
tamburi, striscioni, sound system, camioncini, bande che suonano,
bande che suonano sopra i camioncini. E le facce. Giovani,
anziane, barbute, femminili, bianche, nere, anche sbronze.
C’è tutto, a Strasburgo. Tutto
tranne una cosa: la convinzione di essere fuori pericolo. Hai
voglia a dire che grazie al compromesso raggiunto fra popolari e
socialisti (e che domani sarà votato in plenaria) la Bolkestein
non è più quel mostro da perderci il sonno. Prova a dirlo, a
quei lavoratori, che senza il principio del paese d’origine il
dumping sociale è stato sbattuto fuori. Non è che non ci
credono.
E’ che hanno un’altra idea
d’Europa, che al centro non abbia il mercato, ma lo stato
sociale. E lo pensano sia che vengano dalla Francia che dalla
Polonia. La favola dell’idraulico polacco che arriva e ruba il
posto non sta in piedi, il punto è molto più importante: regole
e salari uguali per tutti. Lo dice chiaramente lo striscione
d’apertura: “Servizi per il popolo, è tempo di cambiare la
direttiva”, lo ribadiscono le decine di suoi simili che sfilano
passo dopo passo. Ce ne è uno che celebra, con tanto di teschio e
bara la morte dell’Europa sociale, un altro che si chiede “Quo
vadis, Bolketstein? ”. I paralleli con Frankestein non si
contano, le esortazioni ai membri del vicino parlamento europeo
nemmeno, da “Fuori la scuola dalla direttiva”, a “Stop him,
social killer” ad un più generico ma non meno efficace
“Rispettate le leggi sul lavoro”.
C’è un’altra frase che gira
e che viene ripetuta pari pari da ben tre intervistati diversi:
“Non vogliamo diventare l’America”, dove ognuno fa per sè e
dio per tutti. Questa è la Bolkestein: lasciare libere le mani
delle imprese, sperando che si comportino responsabilmente.
Ma il principio del paese
d’origine non c’è più e gli Stati membri possono comunque
porre dei paletti. Vero, ma non sufficiente: «Non è accettabile
che i il sistema sociale europeo venga associato ad una direttiva
come la Bolkestein - spiega fra una sigaretta e l’altra il
portavoce dell’Acv, la sigla che racchiude i trasporti e le
comunicazioni, «il più grande sindacato del Belgio» (tiene a
precisare), che colora di verde 30 metri buoni del corteo - ci
sono cose che non possono essere vendute, come la sanità e
l’istruzione.
Se vogliono privatizzare i
servizi lo facciano pure, ma solo in singoli punti e i profitti
devono andare alla gente, non solo al business». Restiamo in
zona, con gli orange olandesi della Fnw, ancora industria: «Qua
ci parlano di socialismo, ma il socialismo dov’è?
Ci sono un sacco di persone che
non hanno da mangiare e loro pensano a privatizzare i servizi -
dice una signora stretta nella sua giacca a vento che poi non
risparmia un attacco al suo governo - hanno scritto una lettera
alla Commissione (con Spagna, Inghilterra, Polonia, Repubblica
Ceca e Ungheria, ndr) per salvare la direttiva perché non
ascoltano il sentire comune.
Ma dovrebbero iniziare a farlo».
Fra le categorie in corteo, oltre ai metalmeccanici spiccano gli
insegnanti. Ci sono due “grupponi”: quello tutto bianco dei
polacchi di Solidarnosc e quello variopinto dei portoghesi del
Sutp. I primi che si smarcano «per noi il compromesso raggiunto
è buono e credo che per la Polonia la liberalizzazione dei
servizi sia una cosa necessaria» ma a certe condizioni: «ovviamente
noi non siamo interessati ad andare negli altri Paesi ad
insegnare, noi vogliamo continuare ad avere un’istruzione libera
come è adesso.
Ma più in generale crediamo che
l’obiettivo debba essere una parificazione dei salari e delle
condizioni di lavoro in tutta Europa per mantenere un’alta
qualità dei servizi offerti ai cittadini»; i secondi che vanno
giù più decisi: «E’ una direttiva che distrugge
l’occupazione, l’hanno migliorata ma non è abbastanza, deve
essere molto più chiara e ci devono essere clausole più
approfondite. In nome della libertà di movimento non possono
mascherare i rischi di dumping sociale».
Guarda un po’, c’è anche il
Ver. di., il sindacato della funzione pubblica tedesca da una
settimana sta paralizzando gli uffici per scioperare contro
l’allungamento dell’orario di lavoro: «Questa Bolkestein è
migliore, ma a noi non sta bene.
Vogliamo che i lavoratori
stranieri vengano da noi per lavorare alle stesse nostre
condizioni» chiari e concisi. D’altronde sono proprio loro, i
lavoratori dell’Est a dirlo per primi. Lo striscione davanti
alla pattuglia slovenia recita “Si ai servizi di qualità, no al
social dumping”, tanto per far capire all’estrema destra
europea, Lega Nord compresa, che loro non hanno poi tanta voglia
di farsi schiavizzare anche fuori dai confini. Passano i portuali,
gli svizzeri e gli austriaci.
Dietro, gli italiani, con la
Cgil, la Cisl, la Uil e l’Ugl. C’è la Fiom con Gianni
Rinaldini che non ha dubbi che «tutta questa gente è qua per
chiedere il ritiro», c’è Piero Bernocchi, coordinatore dei
Cobas che pone l’accento sulle distanze fra piazza e palazzi: «Questa
è la più grande manifestazione europea e dimostra che la voglia
della gente di interessarsi della cosa pubblica e di manifestare
per i propri diritti è cresciuta», c’è Walter Mancini per il
tavolo italiano Stop Bolkestein che lo rimarca: «E’
l’ennesima dimostrazione che l’Europa sociale sa mobilitarsi
su questioni, come la Bolkestein, che attaccano in maniera diretta
i diritti e i beni comuni».
I politici, quindi. Chi si batte
per il compromesso raggiunto, come Massimo D’Alema e Nicola
Zingaretti e chi ha già annuncato che su quel testo voterà
contro, come i Verdi e il Prc, il cui segretario, Fausto
Bertinotti, ha qualcosa da aggiungere: «Se non l’avessimo già
fatta oggi avremmo dovuto costruire la Sinistra europea. Perché
questa manifestazione rimarca le distanze fra un movimento e la
sua rappresentanza.
Mentre la parte maggioritaria
della sinistra e i leader sindacali sposano un compromesso con le
anime liberiste, migliaia di lavoratori scendono in piazza per
chiedere il rigetto della Bolkestein. Questa - continua Bertinotti
- è la forza e la prigione del movimento che deve continuare ad
accrescere la propria autonomia, in parallelo, magari, ad un
guadagno sempre maggiore di egemonia della sinistra radicale nel
panorama europeo delle sinistre».
Contro la Bolkestein, contro
l’Europa dei mercati, contro un compromesso che non è
sufficiente. Non bastasse questo, c’è anche la Ces
(confederazione europea dei sindacati) che in mattinata in un
incontro all’europarlamento con il Gue si presenta - a sentire
il segretario John Monks - con un bottino di richieste accolte «pari
al 90%» tanto da sperare che il compromesso passi e magari di
portare a casa anche «quei due o tre punti che ci mancano».
Guai a parlargli di ritiro, come
fa il Gue, perché «una convergenza di voti di destra e sinistra
potrebbe riportare tutto all’inizio, con la palla in mano alla
Commissione», frase che trova la replica di Roberto Musacchio,
capogruppo del Prc: «La straordinaria mobilitazione di lavoratori
ed enti locali ci chiede di spingere per il ritiro della
Bolkestein che anche dopo il compromesso rimane un testo
pericoloso e confuso. E non c’é pericolo di una convergenza
destra/sinistra, perché noi teniamo alla nostra autonomia».
Oltre al Gue, sono stati gli
stessi lavoratori a far intendere ai leader sindacali e alla
sinistra che questa Bolkestein proprio non gli piace. Ieri è
iniziata la discussione in plenaria, domani si vota. Ci sono 407
emendamenti in calendario, fra cui quello di rigetto promosso dal
Gue. Se Garibaldi fosse vivo e liberista, domani direbbe «Qui o
si fa la Bolkestein o si muore».
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