Bertinotti:
"Con questa maggioranza si può governare. Vi spiego perché" |
I giornali sono
pieni di commenti sulla variante italiana della Merkel, sono pieni
di riflessioni sulla Grande coalizione. Con Fausto Bertinotti
proviamola a prendere, però, dal "nostro" versante. La
domanda è secca: si può governare con il cinquanta virgola uno
per cento? Si può governare con un voto di più
dell’avversario?
"Domanda secca, risposta secca: sì".
E credi che avrebbero risposto così i leader della sinistra di
qualche decennio fa?
Ti faccio una premessa: che io, anche allora, all’inizio degli
anni ’70, non ero affatto convinto dell’elaborazione di
Berlinguer, secondo cui non si sarebbe dovuto governare con una
maggioranza risicata. Ma mettiamo da parte le mie obiezioni di
allora. Io credo che non si possano paragonare le due situazioni.
L’idea di Berlinguer, elaborata all’indomani del colpo di
Stato in Cile, nacque insomma a tutt’altra latitudine. Non era
dentro il sistema politico dell’alternanza, nasceva, si fondava
soprattutto su un dato: l’esistenza di grandi partiti di massa.
Parlo di partiti veri, radicati, popolari. Perché, non
scordiamocelo mai, in quegli anni c’era corrispondenza fra paese
reale e paese ufficiale, e “paese della politica”. C’era uno
scambio continuo fra quei due mondi. Ora la situazione è
completamente diversa. Quei partiti, quelle forme-partito non ci
sono più. E oggi, soprattutto in ragione dell’alternanza, il
voto diventa un mandato preciso alla coalizione. Oggi il voto
diventa un mandato ai partiti che fanno parte della coalizione.
E’ il mandato a governare, è il mandato a realizzare, comunque,
il programma con cui ti sei sottoposto al voto. E si potrà dire
quel che si vuole, ma il mandato emerso domenica scorsa mi sembra
chiaro: l’Unione deve governare.
Avanti comunque, dici questo?
Certo, ma attenzione. Quello che si realizza sul piano
parlamentare è un conto, diverso è ciò che avviene nella società.
Cosa vuoi dire?
Voglio dire che con un voto in più si governa alle Camere, ma non
si realizzano le riforme col cinquantuno per cento nella società.
Beninteso, non penso ad una logica referendaria da utilizzare ad
ogni pie’ sospinto. Penso però che ciò che può passare nelle
aule parlamentari con una ristretta maggioranza, poi debba vivere
con un consenso assai più vasto. Consenso che può esprimersi
attraverso le mille forme della partecipazione: dal conflitto ai
pronunciamenti delle comunità locali, a tante altre forme da
inventare. Insomma, sarà lì, nel sociale che ti giochi la tua
capacità di egemonia, di essere il motore della trasformazione. E
per essere ancora più chiaro: col cinquanta e uno per cento puoi
modificare le norme che istituzionalizzano la precarietà a vita
di un’intera generazione. Ma per cambiare, per riformare
davvero, devi avere il consenso del sessanta, settanta per cento
del paese. Questa è la scommessa.
Hai tirato fuori una cifra a mo’ di esempio. In un paese che
tutti gli osservatori descrivono, invece, come diviso a metà, al
50% A proposito: ti convince la definizione dell’Italia come di
una comunità spaccata?
Sì e no.
Più nel dettaglio?
Diciamo così: è sicuramente un paese spaccato politicamente, ma
frastagliato - ecco: frastagliato credo sia la definizione giusta
- socialmente. Nel senso che la divisione politica, netta e
inequivoca, non porta con sé una spaccatura nella vita
quotidiana. Si vota diversamente, si hanno magari due concezioni
opposte della vita ma poi ci si ritrova al lavoro, al bar, allo
stadio. In realtà, insomma, mi sembra che prevalga un fenomeno
che chiamerei di voglia di comunità. In questo senso non è
esattissima la definizione di Italia spaccata. Quella linea di
separazione, insomma, vale per le elezioni, non per tutto il
resto. Anche se…
Anche se cosa?
Io una divisione la vedo. Non è netta, nel senso che è più
sotterranea. Ma solo perché è poco esplorata.
E qual è questa divisione?
La chiamerei la divisione fra l’alto e il basso. Fra l’alto e
il basso della società.
L’alto, più o meno, ce l’hanno tutti chiaro. Ma cos’è
davvero quel basso?
E’ davvero difficile risponderti perché sono pezzi di società
- mi verrebbe da dire sono “buchi neri” della società, ma
lascia perdere perché rischiamo di non farci capire -, pezzi di
società profonda, ti dicevo, dove la sociologia non è arrivata.
Noi non abbiamo gli strumenti per indagarla, altri non ne hanno la
curiosità.
Almeno proviamo a definirla sommariamente.
Penso alla campagna elettorale che abbiamo appena fatto. Penso ad
alcune zone industriali, proprio al limite di quelle aree
industrializzate del Nord - dove per altro le destre sono tornate
a vincere -, penso ad alcune fabbriche. Fabbriche poco o nulla
sindacalizzate. Lì, me l’hanno raccontato i compagni, i
lavoratori rifiutavano i nostri volantini. Persone, insomma,
spogliate di tutto. Della camicia, certo, loro che non hanno
diritto neanche ad organizzarsi per la tutela sul lavoro. Ma
spogliate anche di qualcosa in più: del loro diritto a pensare un
futuro sicuro. E questo, tutto questo, li porta a vedere, a vedere
anche te, come uno straniero. Te che magari hai un lavoro sicuro,
te che magari hai la camicia da impiegato, te che magari parli ma
in quanto politico godi di qualche privilegio. Ecco questo è il
basso di cui ti parlavo.
Ed è questo “basso” che ha portato nelle casse della destra
quasi due milioni di voti in più rispetto alle regionali?
Sì, almeno in parte.
Le altre “parti”, invece, quali sono? Insomma, perché la
destra ha sorpreso tutti rimontando in quella maniera?
Ha recuperato per una somma di fattori. C’è un elemento di
collante ideologico, che forse abbiamo sottovalutato. Parlo
dell’ideologia proprietaria. Sì, in fondo la campagna
elettorale della destra e del suo leader è stata rivelatrice di
questo: dicevano a quei settori non ti faccio pagare l’Ici, non
ti faccio pagare le tasse. Ti regalo questo, quest’altro. Gli
altri, invece, te le faranno pagare. Se ci pensi bene, insomma, la
cifra della propaganda di Berlusconi è stata davvero la boutade
alla Confindustria di Vicenza. Perché il leader della destra
aveva capito bene che un pezzo della borghesia gli aveva voltato
le spalle e aveva deciso di votare l’Unione.
Come chiameresti quel pezzo della borghesia?
Impresa difficile. La vogliamo chiamare “borghesia educata”?
Quel pezzo di borghesia gli ha voltato le spalle, e a quel punto?
E allora Berlusconi ha lasciato perdere. Si è concentrato sul
resto della borghesia. Quella improduttiva, quella che vuole
arricchirsi subito, quella che vuole fare i soldi con altri soldi,
senza rischiare. Ha puntato su di loro. Pensaci bene: in questa
campagna elettorale è partito proponendo improbabili bilanci
positivi del suo governo, poi ha provato con Dio, patria e
famiglia, poi s’è improvvisato un po’ Schroeder, collocandosi
all’opposizione del nuovo probabile governo, ma alla fine ha
scelto: ha fatto appello all’egoismo proprietario. E s’è
buttato sulle tasse.
A guardare bene, però, non è proprio lo stesso blocco sociale
che lo portò a vincere nel 2001.
Esattamente. Anche cinque anni fa, Berlusconi ebbe l’intuizione
giusta. Sapeva che qui da noi, la ricetta Thatcher non avrebbe
avuto spazio. E così si inventò quel mix di neoliberismo e
subcultura leghista, centrata sulla figura dell’imprenditore del
Nord Est. Ma quella miscela non ha retto alla prova del governo.
Così ha capito prima di altri…
Anche di qualcuno a sinistra?
Sì, certo anche di qualcuno a sinistra. Comunque ha capito che
fare appello a quel blocco era impossibile, perché si era
disgregato. E così ha provato a inventarsene un altro. Centrato
sulla paura dei proprietari. Nonostante tutto, però, ha perso.
Ora la destra rappresenta quei settori. E con questa destra
esistono spazi di intesa bipartizan?
No. Nel modo più assoluto. Perché i due schieramenti sono
portatori di due visioni diverse della società. Ce lo siamo detti
in campagna elettorale, forse è arrivato il momento di farne
discendere comportamenti concreti. E qui vedo una possibilità di
rigenerarsi della politica.
In che senso?
Te lo dico così: in questa elezioni abbiamo affermato il
principio dell’alternanza. Ma, nel caso dell’Unione, magari
anche indipendentemente dalla volontà di molti dei soggetti che
ne fanno parte, l’alternanza può e si sta trasformando in
alternativa. Vedi, la grande coalizione, fa sicuramente parte
delle cose possibili. In altre parti d’Europa è all’ordine
del giorno. Può non piacere, come a noi, ma è così. Qui da noi,
però, non è così. Qui da noi si sono misurate due concezioni
non mediabili, due angoli di visuale non sovrapponibili della
società. Loro di là, noi di qua. Ecco perché la proposta –
che è sempre aleggiata in questa campagna elettorale – quella
elaborata dai poteri forti, da Montezemolo, l’idea del grande
centro insomma, in Italia non ha chances. E’ sbagliata ma anche
inapplicabile per geografia politica, per realtà sociale. Forse
semplicemente perché il centro s’è dissolto: o stai di là, o
stai di qua. E ritorno al discorso di prima. Se l’Italia non è
divisa sociologicamente, lo è sicuramente dal punto di vista
politico. Pensa anche all’ultimo appello, quello un po’
volgare di Berlusconi: votate secondo i vostri interessi. M a
volte anche se i loro interessi stanno di là, non è impossibile
vedere altre ragioni per stare da questa parte. E, fortunatamente,
la nostra parte ha vinto.
Dentro questa parte che ha vinto c’è sicuramente Rifondazione.
In due parole, perché il successo del tuo partitoi?
In pillole. Anche qui, mi sembra che si siano messi insieme due
elementi. Uno, che magari non è stato quantitativamente enorme ma
significativo. Il voto ha voluto premiare il partito che più di
ogni altro ha innovato, ha spinto e scommesso sull’innovazione:
la sezione italiana della Sinistra europea, la non violenza, il
rapporto coi movimenti. Il secondo: mai come stavolta siamo stati
percepiti come la forza che più di altre garantisce unità e
radicalità. Impegnati fino in fondo nella battaglia comune per
mandar via le destre, impegnati ogni giorno per spostare a
sinistra l’intera coalizione.
Però Rifondazione è andata meglio al Senato che alla Camera.
Come te lo spieghi?
E’ un tema sul quale abbiamo cominciato a riflettere. Ma già i
primi dati, le prime analisi qualcosa ci dicono. Per esempio che
siamo riusciti ad intercettare una parte del voto diessino che si
oppone alla nascita del partito democratico. Questo però è valso
soprattutto al Senato, dove invece era presente il simbolo della
Quercia. Perché quel voto è venuto soprattutto di quella parte
del partito die diesse più legata alla militanza, alle attività
politiche. Alla Camera, invece, è inutile negarlo, l’idea del
partito democratico, seppure nelle vesti del Listone-Ulivo, ha
esercitato un grosso fascino fra gli elettori più giovani.
Ed è un problema?
Francamente sì. Perché ci rivela che il bisogno di unità è un
valore enorme, di cui non sempre cogliamo l’ampiezza. Anche qui
mi spiego meglio: io sono convinto che non esista una netta linea
di separazione fra l’elettore radicale e quello riformista.
Meglio: diciamo che è un confine mobile. Ma il terreno dei
programmi non è il solo che decide la loro collocazione. Esiste
quel tema, quello dell’unità, che pesa, eccome. Certo, è un
tema difficilissimo da trattare. Perché in Italia siamo ancora
alle prese con tutto ciò che s’è portato dietro lo
scioglimento del Pci. Dalla crisi di quel partito, il gruppo
dirigente ha scelto di uscirne a destra, con un’opzione
moderata. Con tappe successive. E questo, diciamocelo francamente,
se non impossibile, rende difficilissimo, riuscire a costruire
qualcosa che tenga assieme quel bisogno d’unità con una
politica di sinistra. E’ un tema, uno dei tanti che abbiamo
davanti.
Le ultime domande sono sull’attualità. Avete già cominciato a
parlare della delegazione di Rifondazione nel nuovo governo?
No, ti assicuro di no. L’unica cosa che voglio dire, e che ho già
detto, è che non ci sono luoghi di governo, non ci sono incarichi
di governo che possano essere ritenuti indisponibili per
Rifondazione.
Ma chi dovrà dare l’incarico a Prodi?
Il nuovo Capo dello Stato.
Hai qualche idea su chi possa essere?
Ce l’ho, ovviamente. Ma la tengo per me, francamente mi sembra
non corretto.
E te? Che farai? Tutti continuano a parlare di incarichi
istituzionali?
Ho detto e ripeto che sono indisponibile a qualsiasi incarico di
governo. Non mi sento di rispondere allo stesso modo se la domanda
si riferisse ad altri incarichi.
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di Stefano
Bocconetti (LIBERAZIONE giovedì 13 aprile)
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