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Bisogna scarcerare i 27
ragazzi di Milano arrestati per gli incidenti dell’11
marzo |
di Claudio Grassi |
Dagli
scontri di Corso Buenos Aires a Milano sono passati quasi
due mesi. L’11 marzo alcune centinaia di manifestanti
sfilarono per protestare contro la contemporanea parata
neo-fascista della Fiamma Tricolore. Nel corso del corteo
vennero incendiate alcune auto e distrutti alcuni negozi.
Tra le centinaia di manifestanti, 45 furono arrestati. Di
questi, 25 sono ancora in carcere. Altri due sono stati
arrestati, con le stesse accuse, pochi giorni fa.
Non è in discussione la critica più intransigente verso
azioni di guerriglia urbana che condanniamo nettamente.
E’ una pratica che non ci appartiene e che, quando è
stata esercitata, ha sempre danneggiato la sinistra e i
lavoratori. All’agibilità politica che - sempre più
frequentemente e in aperta violazione della nostra
Costituzione - viene consentita ai gruppi dell’estrema
destra neo-fascista e neo-nazista si può e si deve
rispondere soltanto con la mobilitazione di massa,
valorizzando la Resistenza, contrastando qualsiasi forma
di revisionismo storico. Non è possibile, da questo punto
di vista, alcuna ambiguità. Tuttavia, affermato questo in
modo chiaro, non possiamo sottacere il fatto che, a tre
mesi di distanza, 27 persone sono ancora in carcere.
Rispetto a ciò ci permettiamo di esprimere, con il
massimo rispetto e la massima fiducia per il lavoro,
presente e futuro, della magistratura, alcune
considerazioni.
Dalla lettura delle ordinanze emesse dal tribunale, la
responsabilità penale pare discendere dalla semplice
presenza in piazza delle persone coinvolte. Alla luce di
tale premessa questa detenzione - così lungamente
prolungata - ci pare francamente sorprendente. Non ricorre
alcuna delle condizioni che giuridicamente
legittimerebbero la privazione della libertà personale:
non sussiste il pericolo di fuga, né l’ipotesi di
reiterazione del reato, né l’ipotesi di inquinamento
delle prove.
A ciò si aggiunga il fatto che mancano gravi indizi a
carico dei destinatari dell’ordinanza di custodia
cautelare e che tali provvedimenti eludono uno dei principî
fondamentali del nostro ordinamento, la personalità della
responsabilità penale. Stiamo infatti parlando di un
unico provvedimento che raggiunge simultaneamente gli
imputati con accuse di concorso morale e materiale in
devastazione, incendio e resistenza a pubblico ufficiale.
Ciascuno di questi capi d’accusa, per ciascuna delle
persone coinvolte, è ancora tutto da dimostrare. Ma anche
qualora si dimostrasse effettiva l’ipotizzata
consistenza degli indizi saremmo di fronte ad una del
tutto sproporzionata restrizione delle libertà personali.
Perché, allora, dall’11 marzo ad oggi sono state
rifiutate due istanze di scarcerazione e un riesame?
La strada da seguire è - a nostro avviso come per i
legali difensori degli arrestati - l’immediata
Si tratta di un obiettivo minimo ma, in uno Stato di
diritto, si tratta di un atto dovuto. Ottenerlo
contribuirebbe a dimostrare che è possibile invertire una
tendenza che ha puntato prevalentemente sulla repressione
e che ha prodotto, da Genova (luglio 2001) ad oggi, più
di 8.400 procedimenti penali per reati sociali e oltre
18.000 capi di imputazione per reati legati alla
rivendicazione di diritti o principi costituzionali.
Queste valutazioni e questi dati ci rimandano al tema più
generale della legalità, della legittimità del conflitto
e della repressione di alcune forme di lotta che nulla
hanno a che fare con la violenza e che sono sempre state
patrimonio delle classi subalterne e del movimento
operaio. Un tema che interroga da vicino la politica, in
primo luogo le forze democratiche e progressiste.
Tra le migliaia di accusati infatti sono centinaia i
lavoratori che si sono opposti al divieto di sciopero per
denunciare i mancati rinnovi contrattuali o per protestare
contro la chiusura delle fabbriche in cui lavoravano; sono
centinaia i ragazzi che hanno tentato, con i propri corpi,
di fermare treni che trasportavano armi per la guerra
irachena. E, ancora, sono centinaia gli studenti (come
quelli bolognesi, denunciati giorni fa per violenza
privata con l’aggravante della “eversione
dell’ordine democratico” per essersi auto-ridotti il
prezzo della mensa durante una manifestazione per il
diritto allo studio), i disoccupati, gli occupanti di
case, i militanti antifascisti.
Ad essere soffocate sono esperienze di lotta le cui
ragioni politiche vengono quotidianamente avvalorate dalle
sempre crescenti ineguaglianze ed ingiustizie della nostra
società.
Il compito che abbiamo di fronte è impegnativo:
sconfiggere, prima ancora che la pratica della repressione
e della restrizione degli spazi democratici, la cultura
autoritaria che la sottende; e inaugurare una fase che,
nell’applicare le leggi vigenti, non cancelli le ragioni
del conflitto sociale e della tutela delle libertà,
individuali e collettive. |
Liberazione
5 maggio 2006 |
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