Il liberal Galbraith ci insegna: il mercato è sopraffazione
di Emiliano Brancaccio
“L’Antitrust è uno strumento assolutamente innocuo, del tutto inoffensivo". Una verità che forse farebbe gelare il sangue a Bersani, a Letta e a molti altri esponenti del centrosinistra, non solo in Italia. Eppure “il gigante” John Kenneth Galbraith, morto all’età di 97 anni a Cambridge, Massachusetts, non aveva alcun timore di rivelarla.
Esponente di punta dell’istituzionalismo americano, politicamente un liberal alle soglie del socialismo, Galbraith non è mai stato tenero con i pasdaran del cosiddetto “capitalismo regolamentato”. Ben pochi tra gli esponenti “moderati” del centrosinistra sarebbero dunque scampati alla sua critica, sempre elegantissima e spietata. E la ragione è che in fondo Galbraith non credeva nel mercato, essenzialmente per due ordini di motivi: la profonda, strutturale irrazionalità dello stesso, e la tendenza a privilegiare sistematicamente i soggetti in posizione di dominio.
Si potrebbe obiettare che se un sistema tutela i più forti non si può dire che almeno dal loro punto di vista non sia razionale. Ma la questione è proprio questa. La critica di Galbraith era infatti rivolta alla versione apologetica del concetto di razionalità, quella secondo cui l’azione della concorrenza sul libero mercato avrebbe condotto il sistema economico lungo un sentiero di sviluppo equilibrato, in grado di assicurare il massimo benessere per tutti e non solo per pochi.
Un’idea, questa, alla quale i suoi colleghi di Harvard e di Princeton dedicavano l’intera loro carriera accademica, e che Galbraith si divertiva invece a smontare pezzo per pezzo, con l’aiuto del realismo storico molto più che della logica formale.
In tema di irrazionalità del mercato, una delle più efficaci massime di Galbraith è contenuta non in un saggio ma in un suo breve, godibilissimo romanzo: “Il professore di Harvard” (A Tenured Professor, 1990), dove si legge che "l’irrazionale è reale". Su questa parafrasi hegeliana l’economista di origine canadese aveva del resto già lungamente meditato, come dimostra una delle sue opere più significative: “Il grande crollo” (The Great Crash, 1955), dedicato alla crisi degli anni ’30. In esso Galbraith svelò con dovizia di particolari la meccanica profonda del mercato borsistico, la presenza sistematica e squilibrante, all’interno dello stesso, di “pastori” che fanno i prezzi e di “greggi” che li subiscono, ma soprattutto i rischi di crisi cumulativa impliciti nel meccanismo della leva finanziaria, guarda caso adoperato oggi ben più di allora.
Il libro è oltretutto ricco di aneddoti istruttivi, come quello dedicato a Charles Ponzi, un affarista di origine italiana inventore della famosa “catena” omonima. Questa consiste nell’attirare masse di incauti risparmiatori promettendo loro remunerazioni stratosferiche, che verranno poi effettivamente erogate adoperando i risparmi provenienti dalle successive ondate di investitori. Il sistema si regge quindi su un ciclo monetario del tutto virtuale, senza alcun bisogno di finanziare investimenti realmente produttivi. Basti pensare che Ponzi attirava la sua clientela sostenendo di vendere quote immobiliari di una città della Florida definita “in piena espansione”, ma che in realtà non era altro che un paludoso acquitrino.
Un simile meccanismo ovviamente tiene finché l’afflusso di risparmiatori attirati dalle facili promesse del Ponzi di turno eccede il numero dei vecchi clienti i cui titoli sono venuti in scadenza, e che vanno quindi ripagati. L’abilità del mazziere sta quindi nel prenotare un volo per le Isole Vergini prima che il suo castello di carta gli crolli addosso. A tal proposito Ponzi ebbe evidentemente un attimo di esitazione e finì pertanto i suoi giorni in galera. Ma la procedura da allora si è fortemente affinata, e di catene del genere si scoprono versioni sempre più sofisticate e inquietanti.
Il mercato è dunque innanzitutto un luogo di esercizio del potere: quello di sopraffare il prossimo attraverso un migliore controllo dell’informazione, delle relazioni sociali, persino della psiche degli individui. Operando nel solco della migliore tradizione istituzionalista, Galbraith si è in tal senso lungamente dedicato ai meccanismi di manipolazione delle preferenze individuali da parte delle grandi corporazioni, al fine di dimostrare l’assoluto irrealismo del concetto di “libertà” del singolo, sia esso consumatore, risparmiatore oppure lavoratore.
Il sistema, lasciato all’azione dei “poteri forti” che operano al suo interno, tende cioè a generare effetti perversi, che sembrano di fatto operare in direzione esattamente opposta alle più elementari aspirazioni umane. Mostrando una spiccata sensibilità ante-litteram nei confronti dell’ambiente e di quelli che oggi chiameremmo beni comuni, nel suo bestseller “La società opulenta” (The Affluent Society, 1958) Galbraith sostenne infatti che senza opportuni contrappesi il capitalismo avrebbe fatto sprofondare l’umanità in una infelice esistenza, dominata dall’opulenza privata e dallo squallore pubblico.
Per evitare un simile destino la strada, per Galbraith, è sempre stata una soltanto: costituire dei “contropoteri” in grado di bilanciare la forza soverchiante delle grandi imprese, dei grandi investitori, dei cartelli e dei monopoli (American Capitalism, 1961). In parole povere, bisognerebbe favorire il pieno sviluppo dei sindacati dei lavoratori, delle associazioni dei consumatori e dell’apparato pubblico, sostenendo a questo scopo anche misure espressamente definite “socialiste”, come l’amministrazione dei prezzi e le nazionalizzazioni.
Opinioni, queste, che negli Stati Uniti non hanno mai goduto di largo seguito, nonostante l’estrema notorietà di Galbraith ed i ruoli significativi da lui assunti presso le Amministrazioni democratiche degli anni ’50 e ’60. Ed è certamente indicativo che oggi simili proposte incontrino fortissime resistenze anche nel vecchio continente, in quella Europa che Galbraith aveva spesso indicato come un invidiabile punto di riferimento sociale e culturale.
I contropoteri, insomma, hanno bilanciato molto meno di quanto Galbraith sperasse, e negli ultimi decenni sono stati costretti persino ad arretrare. In una intervista di alcuni anni fa, il nostro cercò di avanzare una possibile spiegazione per questo drammatico regresso: i contropoteri non si sono sviluppati quanto avrebbero dovuto, nel senso che non sono mai stati in grado di coinvolgere gli strati marginali della società, non sono cioè mai riusciti a farsi portatori delle istanze dei giovani dei ghetti, dei poveri delle aree rurali, dei lavoratori situati nei settori residuali e nelle zone periferiche. I gruppi marginali hanno pertanto finito per tramutarsi in un micidiale strumento nelle mani della Reazione. Il loro disagio è infatti divenuto un implicito atto d’accusa nei confronti dei lavoratori sindacalizzati, di quella sinistra pensante e garantita che pure negli Usa ha avuto nei decenni passati un decisivo ruolo di indirizzo e di mobilitazione.
Una lettura, questa, forse tautologica e troppo politicista, che espone probabilmente il fianco alle più classiche delle critiche marxiste. Prima ancora di puntare l’indice sulle manchevolezze dei sindacati organizzati bisognerebbe infatti indagare sulle condizioni strutturali che solo in certi ambiti ne hanno permesso la costituzione e il rafforzamento. Ciò nonostante, sembra difficile non ammettere che Galbraith su questo punto abbia intuito qualcosa di significativo.
In un’epoca in cui la sinistra non appare più in grado di parlare al popolo, in cui larghissimi strati sociali sono lasciati in balia del mercato da un lato e delle peggiori pulsioni plebiscitarie dall’altro, il monito del grande economista risulta quanto mai attuale.
Liberazione 8 maggio 2006