Il punto debole del governo Prodi? I vecchi ulivisti rimasti senza ulivo
di Rina Gagliardi
Di solito, ad un governo appena insediato, si consente un tempo “ragionevole” di sperimentazione - i famosi cento giorni, per esempio, entro i quali “si parrà la sua nobilitate”, ovvero la sua capacità di affrontare i problemi e imprimere su di essi un segno, un messaggio riconoscibile, una “cifra”. Quasi sempre, perciò, le fasi iniziali di un nuovo esecutivo si dipanano all’insegna - se non di una diffusa benevolenza, se non proprio di una “luna di miele” - della cautela e della prudenza. Per il governo Prodi, tuttavia, questa sorta di legge non scritta non sembra valere. Dopo poche giornate di lavoro, non solo fioccano le critiche (come è logico che sia, in un paese libero), ma le delusioni e, quasi, le bocciature, proprio come se già fosse tempo di bilanci definitivi. Di più: i giudizi più severi paiono quelli pronunciati dall’interno dell’area di opinione che sostiene la maggioranza. Come l’autorevole editoriale domenicale di Eugenio Scalfari: che, a proposito del nuovo governo, ha scritto che esso “sta dando di sé un’immagine scomposta, sciancata, mediocre” e che lo stesso non ha finora espresso alcun “pensiero illuminato”. Il fondatore della “Repubblica” è stato - e resta - uno dei grandi elettori dell’Unione. E conosce assai bene le regole della politica, nonché la complessità dei problemi a cui il nuovo governo si trova di fronte. Eppure, non rinuncia a sferzare, e piuttosto rudemente. Perché? Da dove nasce tanta delusione e tanta precoce sfiducia? Certo, c’è l’inizio rallentatissimo della legislatura, che somma gli adempimenti istituzionali ad una doppia tornata elettorale (amministrative e referendum) e rende ormai lontana la memoria del 9-10 aprile. Certo, gli incidenti di percorso sono già tanti, forse troppi - per non parlare della chiassosità mediatica che enfatizza tutto, moltiplica un chiacchiericcio polemico spesso incomprensibile ai più, rinvia del nuovo governo una fisionomia incerta e contradditoria. Ma la ragione essenziale che induce Scalfari a tanta severità, o, se volete, a tanta impazienza, è un’altra. E’ la difficoltà politica, strategica, e perfino tattica nella quale si dibatte oggi un’opzione di tipo “riformista”, liberaldemocratico, prudentemente progressista. Capace di definire davvero obiettivi e priorità spendibili, in tempi politicamente ravvicinati.
Proviamo a spiegarci. Proviamo a capire da dove effettivamente nasce il disincanto di Eugenio Scalfari. Il collante dell’antiberlusconismo, come scrive saggiamente Antonio Polito sul Riformista, sta esaurendosi: ha svolto un ruolo primario, nella battaglia elettorale di aprile, ha centrato l’obiettivo, ha liberato l’Italia dalla cappa del centrodestra, ha determinato un equilibrio politico nuovo. Tutti passaggi essenziali, che non potevano non essere attraversati, anzi “traguardati”. Ora, però, come si usava dire una volta con un’ espressione che non ci piace, viene al pettine l’altro nodo essenziale: la politica dell’Unione, le sue scelte di merito, la sua capacità propositiva nella politica economico-sociale come nello scacchiere internazionale. In una parola, emerge il tema della fisionomia effettiva dell’alleanza che ha battuto il centrodestra: la quale non è, nient’affatto, la riedizione di quella che ha vinto dieci anni fa. E’pur vero che il timoniere è lo stesso, Romano Prodi. Ma la sua composizione, il suo blocco di consenso, il suo programma politico e sociale, le domande a cui deve rispondere, sono assai più ampie e complesse: in breve, l’Unione non solo non è un “Ulivo” allargato, non è neppure tout court una coalizione “riformista” nel senso che si è dato a questo aggettivo nel corso degli ultimi anni. Non ha più i riferimenti del blairismo, del clintonismo, della “terza via”, che ieri apparivano credibili e oggi sono sostanzialmente saltati. Non gode più, dunque, né di autosufficienza ideologica né di autosufficienza elettorale. L’Unione è davvero un’altra cosa: una grande aggregazione “geodemocratica” che raccoglie in una miscela inedita culture, subculture, famiglie politiche di diversa estrazione. E costituisce, anche e soprattutto una nuova dimensione del rapporto tra le due sinistre, quella riformista e quella radicale, quella “ulivista” e quella legata alle istanze dei movimenti, quella strategicamente “moderata”e quella alternativa: un’alleanza oggettivamente fondata sulla pari dignità (che del resto spetta a tutti i contraenti di un’alleanza), anche se non certo sulla pari entità o sull’eguale potere. Un’alleanza di governo che si misura fino in fondo - si sfida ad essere - sui contenuti più efficaci rispetto alla crisi di questo paese.
Se le cose stanno, all’incirca così, a noi pare che una larga parte dell’opinione “riformista” stenti a prendere atto dell’opacità nella quale è avvolto oggi l’”ulivismo”. Cioè dell’impossibilità politica di ripetere gli schemi del ’96, nonché della “improduttività” politica di quegli stessi schemi, incentrati sul liberismo temperato, sul moderatismo politico, su un equilibrio che rischia di essere del tutto statico, sulla logica dei due tempi (prima il risanamento poi lo sviluppo), sulla fedeltà ai “parametri” monetaristi.
Sarà per questo che poi, in concreto, i “riformisti” più persuasi sono poi quelli che tendono a non cambiare nulla, a rimanere dove si è, ad andare con i piedi di piombo perfino rispetto alle peggiori nefandezze del governo Berlusconi? Sarà per questo che, quando si arriva al momento delle scelte, quelle più chiare e “semplici” - il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, senza che neppure un soldato resti su quelle terre - sono anche quelle che più rispettano e rispecchiano, alla lettera, il programma della coalizione? Non sembri un paradosso: nel governo Prodi, i “riformisti” veri, gli unici che, ancorché non lo vogliano, possono fregiarsi di questo titolo, sono i rappresentanti della sinistra radicale. Là dove, invece, i “riformisti ideologici” tendono a praticare una politica di tipo - alla lettera - conservatore: nel senso preciso che hanno pochissimo da proporre e soprattutto hanno un gran paura del cambiamento, talora anche del più piccolo. Come se fosse possibile far rinascere l’Italia, cominciare ad uscire dal declino - economico e spirituale - del paese, senza osare, e molto, sul terreno delle riforme
Ecco la radice dell’irritazione “riformista”, che si scarica addosso ad un governo che ancora non ha cominciato a lavorare: la consapevolezza di un limite politico e strategico. La paura, certo fondata, di una paralisi. L’allungarsi a dismisura della stagione della bonaccia. Non possiamo non paventare, anche noi, un esito che sarebbe davvero esiziale. Ma per uscire davvero dalla bonaccia dobbiamo sapere che l’alternativa non è più quella, del resto protonovecentesca, tra riformisti e rivoluzionari: è seccamente tra chi vuole cambiare e chi non vuole cambiare, e tende all’utopia negativa del “berlusconismo senza Berlusconi”. Questa sì che sarebbe una iattura.
Rina Gagliardi, Liberazione 13 giugno 2006