Valanga di no travolge la destra. Costituzione salva, Berlusconi no
Così tanti, come non se l’aspettava nessuno. Nemmeno a sinistra. Così netti, così schierati, lontani da qualsiasi previsione. Neanche la più ottimista. Insomma, hanno votato in tanti, tantissimi e quasi tutti allo stesso modo. Cancellando una delle peggiori leggi del governo delle destre. Cancellando - forse di più ma non esiste un accrescitivo del verbo cancellare - col sessantun per cento di no quella riforma della Costituzione voluta da Bossi e Berlusconi, che l’avrebbe stravolta.

L’ultimo appuntamento di questa infinita primavera-estate elettorale, il referendum, ci consegna, insomma, un paese ancora un po’ diverso da come se lo immaginavano in tanti. Da ieri, ancora un po’ meno berlusconiano. Perché il primo dato che balza agli occhi è che la vittoria del «no» è stata omogenea. Non proprio con le stesse percentuali in tutto il paese ma è diffusa più di quanto si pensasse. O si sperasse. Vediamo. Il rifiuto dello stravolgimento della Costituzione antifascista è stato plebiscitario al Sud. Forse anche di più ma pure in questo caso non esiste un superlativo. Comunque il record spetta alla Calabria, che ha detto di «no» alle destre con l’ottantadue e rotti per cento delle schede scrutinate. Sopra il settanta per cento anche la Campania, la Puglia, la Basilicata. Anche la Sicilia. Ovunque, insomma.

Ci sono poi le regioni centrali. Che come sempre hanno risposto come solo loro sanno fare quando ci sono in ballo i valori antifascisti della Carta costituzionale. Qui il «no» ha vinto col sessantasette per cento ma con una percentuale altissima di partecipazione. E qui dentro, c’è il dato di Roma. Dove il «no» è al settanta per cento, con una partecipazione di due punti superiore alla media nazionale.

Infine, c’è il Nord. Il temuto Nord. A ben vedere, Bossi e Berlusconi prevalgono solo in Veneto e in Lombardia (cosa che consente loro comunque di perdere meno, quarantotto contro cinquantadue in un ipotetico riepilogo della regioni settentrionali). Meglio: i due prevalgono in Veneto e solo nelle province lombarde. Perché a Milano - dato rilevantissimo, con un sindaco che s’era schierato in difesa della controriforma - vince il «no».

Esattamente come in Piemonte, Trentino, Liguria, Friuli. Vince, insomma, anche laddove - appena un mese e mezzo fa - s’erano affermate le destre.

Risultato netto, allora. Netto ed esteso. E forse questo secondo elemento è ancora più rilevante. Nessuno, insomma, pensava ad una partecipazione così vasta: è andato alle urne il 54,6 per cento degli aventi diritti. Si sarebbe raggiunto il quorum, se fosse stato necessario. Ed è il dato di affluenza alle urne referendarie più alto degli ultimi sedici anni (dieci anni fa, nella consultazione sul maggioritario, com’è noto, partecipò il 49,9 per cento degli elettori).

Cifre e numeri che nessuno neanche immaginava, s’è detto. Cifre e numeri che hanno concluso una campagna elettorale, giocata spesso con toni bassi. Una campagna elettorale che qualcuno, anche a sinistra, ha voluto impostare sulla «tecnica»: cosa ci avrebbe rimesso il paese con l’attuazione di questo o quel punto della riforma Bossi-Berlusconi. Una campagna elettorale - perché non dirlo ora? - che non è stata in grado di suscitare grandi entusiasmi. Il voto di domenica e lunedì ora ci racconta qualcos’altro: ci parla di un elettorato che - un po’ a sorpresa, vale la pena ricordarlo di nuovo - ha colto il senso del quesito. Il «senso politico». Anche più di qualche esponente del comitato per il no.

E ora? Ora, trascorso il pomeriggio elettorale - un po’ elettorale, tanto calcistico - si fanno altri conti. Si fanno i conti con la politica. E si scopre che in un mese di governo dell’Unione - segnato da polemiche, da alcune lacerazioni e da forti discussioni -; in un mese di governo, si diceva, già due degli atti più rilevanti del quinquennio berlusconiano sono stati cancellati. Non ci sono più. Spariti, tolti di mezzo. L’Italia non avrà più le truppe di occupazione in Iraq e l’Italia non avrà più una controriforma che avrebbe cancellato la filosofia della Costituzione: quella per cui i diritti sono universalistici. Uguali per tutti.

E così resterà, la Costituzione. Che magari ora «andrà attuata in tutte le sue parti, anziché cambiata», come ha detto Franco Giordano, nel suo primo commento al voto. Così resterà, visto che adesso - magari per qualcuno solo adesso, ad urne aperte, ma fa lo stesso - si parla di rispetto dell’articolo 138, per le eventuali nuove modifiche alla Costituzione. Articolo che prevede la maggioranza di due terzi delle Camere per cambiare le norme. Ipotesi lontana, lontanissima.

Allora la rivincita invocata da Berlusconi (ma significativamente negata, in tv, dai suoi alleati di An: «Mai parlato di una spallata a Prodi»), in appena un pomeriggio si risolve nel suo contrario. Sì, perché questo risultato elettorale segna, di fatto, l’apertura della crisi nel centrodestra. Crisi disgregativa, dice già qualcuno. Con le seconde fila della Lega, Speroni per esempio, che insultano gli elettori («Mi fanno schifo») ma con i leader che tacciono. Con un Bossi che va a cena da Berlusconi, ad Arcore, senza però uno straccio di idea e progetto su cosa fare da oggi. E con una Udc che, esattamente come in campagna elettorale, preferisce tacere. Qualche parola di circostanza, dovuta, ma Casini si guarda bene dal fare qualsiasi commento. La disgregazione della Casa delle Libertà non c’è stata ad aprile, sono riusciti a rinviarla alle amministrative. Col successo di Milano e di qualche altro piccolo comune. Ma è cominciata ieri, quando è stato reso noto il primo exit poll sul referendum. Quaranta minuti prima di Italia Australia.

Stefano Bocconetti Liberazione martedì 27 giugno