Ritiene che l'Europa non se la possa più cavare con
qualche richiamo generico, ma debba intervenire subito e
pesantemente in un Medio Oriente dove ormai è guerra
vera e propria. Anche con una forza di interposizione?
«Sì – risponde il presidente della Camera Fausto
Bertinotti – a patto che con i soldati arrivi un
grande progetto politico ed economico». Ritiene anche
che sull'Afghanistan non si possa mettere a repentaglio
la vita del governo, pena la rottura di quel preciso
patto con il popolo della sinistra che prevede cinque
anni di governo per risanare il Paese. Ritiene, infine,
che questo risanamento possa realizzarsi anche con una
sorta di alleanza con quei "borghesi buoni"
che «hanno capito che è il momento di dare loro un
contributo, perché non si possono chiedere solo
sacrifici agli altri».
Presidente Bertinotti, in Medio Oriente è guerra. Ma
l'Europa dov'è?
«Effettivamente finora abbiamo visto un orientamento
geopolitico tutto giocato in una dimensione atlantica.
Un'Europa così rivolta verso ovest da essersi
dimenticata del suo sud, che però è il suo cuore
pulsante. Anche per questo, ogni volta che israeliani e
palestinesi hanno dovuto trovare un interlocutore terzo,
sono andati negli Stati Uniti. E' arrivato il momento di
svolgere una nuova funzione. Anche sotto una pressione
che arrivi dal nostro Paese, che ha una vocazione
geopolitica e non di schieramento su questa area del
mondo».
Secondo Lei esiste e in che misura un uso
sproporzionato delle forze da parte di Israele?
«Esiste, non c'è dubbio. Con il che non nego
minimamente che la minaccia terroristica venga percepita
da un Israele che sente crescere le propensioni a
mettere in discussione la sua esistenza. E che perciò
ritiene che quelle propensioni vadano combattute a
fondo. Ma il governo israeliano dà una risposta
sproporzionata, che colpisce cioè obiettivi il cui
danno a vite umane e alla comunità diventa un elemento
di crisi nella crisi. Questo susseguirsi di terrorismo-
replica sovradimensionata porta a una spirale che
aggrava la crisi e rischia di portarla in un vicolo
cieco, cioè a una diffusione della disperazione e
dell'impotenza. Si rischia il non ritorno. Ne è
espressione, anche, la tentazione del governo israeliano
di andare a una soluzione unilaterale del problema. Lo
dico sia quando c'è il ricorso alle armi, sia quando si
ricorre a un gesto – pur positivo – come il ritiro
dei coloni da Gaza. Due misure opposte ma entrambe
iscritte a un'idea di unilateralità, di pensare di
poter fare a meno del negoziato. Questo non esiste. Così
non se ne esce. Solo il negoziato, il riconoscimento
reciproco, possono risolvere la situazione».
E' però difficile riconoscere un governo,
come quello di Hamas, che fa della distruzione di
Israele uno dei suoi punti fondamentali. Neanche
l'Europa ha potuto far diversamente.
«E' giustissimo avere una inquietudine e una critica su
Hamas. Ma sarebbe sbagliato fissare questa critica in
una sorta di fissità e inamovibilità che impedisca di
lavorare alla sua modifica. Così anche i piccoli passi
non potranno mai essere apprezzati. E' come il bicchiere
mezzo pieno e mezzo vuoto: si può scegliere di
investire sul mezzo pieno oppure di sottolineare il
mezzo vuoto. E' a quel punto che la propensione
negoziale diventa una grande chance, perché è l'unica
che scommette sull'evoluzione dei soggetti in campo. Il
negoziato è l'unica carta».
L'idea di una forza di interposizione ha un
senso in questa situazione?
«Ha un senso se è legata a un grande protagonismo
politico. Una forza di interposizione dovrebbe essere
l'espressione di una volontà interventista sul terreno
del progetto politico – fondato sui due Stati per i
due popoli – sul quale l'Europa si spenda
politicamente e con investimenti economici. Facendo di
quel bacino il trampolino di lancio del suo nuovo
protagonismo politico. E che serva a riprendere e
rilanciare lo spirito di Ginevra».
C'è un'altra area calda, l'Afghanistan,
che rischia di creare contraccolpi interni in vari
Paesi. A cominciare dal nostro, dove il governo traballa
perché qualche ribelle non vuole vuole rifinanziare la
missione. Possibile si debba ricorrere di nuovo alla
fiducia?
«Sono già troppo criticato per concepire il ruolo di
presidente della Camera come attivo sui temi della
politica e quindi non entro nel merito. Se non per
osservare che questa polemica rischia di oscurare agli
occhi del popolo italiano e in particolare di quello
della sinistra il cambiamento che sta intervenendo nella
politica internazionale dell'Italia e nella sua
ricollocazione come forza di pace. Cito tre elementi:
1) il ritiro dall'Iraq;
2) il rifiuto che si sta manifestando ad operare dove si
determinino i rischi e le minacce di nuovi teatri di
guerra;
3) un'accentuazione della presenza internazionale come
forza di pace e di solidarietà. Non una concezione di
una collocazione di pace come di sottrazione ai problemi
internazionali, dunque, ma criteri diversi.
Uno degli elementi distorcenti del dibattito
sull'Afghanistan è proprio l'oscuramento di questo
tratto essenziale».
Non c'è in alcuni settori della
maggioranza una sottovalutazione del ruolo di governo
del Paese? E' concepibile che un parlamentare di
Rifondazione Comunista, Salvatore Cannavò, affermi che
«è così divertente vedere Prodi che arriva in Aula
senza sapere quali saranno i numeri»?
«Al di là dei casi personali, la questione che si pone
a chi, a sinistra, accetta un compromesso programmatico
e la ricerca di una larga alleanza per sconfiggere il
centrodestra, è quella di andare oltre l'emergenza. Non
credo possa vivere mai a lungo una cultura
emergenzialista. Mai, anche a sinistra. Non si può
pensare di tenere a lungo un'alleanza giustificata solo
per sconfiggere Berlusconi. Bisogna andare avanti. Per
cinque anni».
Cinque anni… Con l'aria che tira Le pare
credibile?
«Nei confronti del Paese abbiamo una precisa
responsabilità. I problemi che ha la sinistra sono due:
il primo, elementare ma potente, è questa lealtà nei
confronti del popolo che l'ha votata per durare cinque
anni. Su questo patto, il popolo della sinistra non
ammette deroghe. C'è un problema di lealtà così forte
che chi non vi tiene fede esce dalla sfera della
politica come esercizio della medesima nelle
istituzioni. Ci sono mille modi per fare politica,
quello dei movimenti, delle associazioni, del
volontariato. Non forme minori, ma diverse, accessibili.
Questa è accessibile solo all'interno di questo patto
di lealtà. Non è questione di disciplina, di
espulsioni… No, pongo un problema proprio di statuto
della politica».
Il secondo punto?
«E' strategico. Io penso che per una sinistra
alternativa, questo passaggio dei cinque anni sia
indispensabile per promuovere anche la competizione con
le forze moderate e riformiste. Avendo l'idea di
un'Europa integralmente pacifista, capace di realizzare
un modello sociale ed economico diverso e per molti
versi alternativo rispetto alle grandi coordinate delle
politiche neoliberiste, un'Europa della partecipazione.
Ma questa alternativa si può realizzare solo in quanto
si compia questo attraversamento. Dunque: un patto di
lealtà con il Paese e con il tuo popolo e poi la
maturazione di un'alternativa di società che può
passare solo attraverso il compromesso dei cinque anni.
E la penso così perché ritengo che il tema della
giustizia sociale e del risanamento economico non stanno
insieme in ragione di mediazione di forze politiche e
sociali vocate all'una o all'altra delle questioni ma
perché la crisi dell'economia e della società italiana
chiede una grande operazione di riforma in cui siano
coopresenti questi due elementi».
Serve un'alleanza con i «borghesi buoni»?
«Esatto. E quando parlo di borghesi, penso a una
borghesia che abbia il senso di sé e del suo ruolo.
L'Italia ha problemi gravi. La conformazione sociale del
Paese è stata duramente pregiudicata dalle politiche
liberiste. Della crisi della coesione sociale, la
precarietà è l'elemento fondativo perché non è
semplicemente una condizione sociale ma anche civile,
tende a diventare la cifra del Paese. Dentro questa, la
disuguaglianza è diventata esponenziale. Se guardassi
alla realtà solo così, la grande riforma dovrebbe
essere essenzialmente sociale. Ma la nostra economia è
stata colpita anche dai guasti del liberismo, che ha
distrutto potenziali di crescita economica, di sviluppo.
Le forze dinamiche della società sono impedite non dai
“lacci e laccioli” prodotti ex ante, dal conflitto
sociale, ma proprio dalle politiche liberiste. Penso
alla crescita esponenziale dell'evasione fiscale,
all'elusione sistematica e corrosiva dell'attitudine di
cittadinanza, all'economia criminale, alla voragine del
sommerso».
Cosa chiede dunque a questi “borghesi
buoni”?
«Di fare la loro parte. Perché nei giorni scorsi ho
citato l'amministratore delegato della Fiat Sergio
Marchionne? Perché parla della risposta ai problemi
dell'impresa, non scaricando sui lavoratori e sul
sindacato, ma assumendola su di sé. Ancora: il
governatore della Banca d'Italia Mario Draghi parla con
un linguaggio che da un punto di vista delle politiche
economiche generali mi trova lontanissimo ma dentro cui
leggo la spina dorsale di un discorso che si scontra con
tutti gli elementi di complicità con i fenomeni
degenerativi e anzi propone quasi un'etica protestante.
Ho anche apprezzato la parte del discorso del ministro
dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa all'assemblea
dell'Abi dedicata alle corporazioni: ne ha assunto le
valenze positive, in quanto però siano in grado di
autodisciplinarsi come elementi di selezione dei fattori
innovativi e dinamici. Ecco, questi sono casi in cui mi
pare di vedere delle tracce, di un emergere di fattori
nuovi. Che però non mi fanno minimamente pensare a
cancellare il conflitto di classe.
Ma nel momento in cui si affacciano, insieme alle
ragioni di contrasto, questi elementi, penso che – in
termini inediti – vada riprogettata una convergenza di
medio periodo per realizzare la grande riforma del Paese».
Insomma, alleanza con i borghesi buoni e i
liberali moderati
«Con quella parte delle classi dirigenti e
imprenditoriali che si pongono il problema del loro
concorso a questa grande operazione in modo diverso dal
ventennio precedente. Finora ho sentito parlare solo di
flessibilità e riduzione del costo del lavoro per unità
di prodotto. Di privatizzazioni e liberalizzazioni. In
altre parole è stato chiesto ai lavoratori di fare
sacrifici e allo Stato di ritrarsi. Ora mi interessa che
affiori invece nei protagonisti di questa offensiva la
presa di consapevolezza che tocca a loro dare un
contributo. Attraverso la loro capacità innovativa e di
autorisanamento».
Può essere il Dpef il banco di prova di
questo nuovo dialogo?
«Potrà diventarlo in futuro. Quest'anno, purtroppo,
non può che essere frutto di un fuoco fatto in fretta
con la legna che c'è. Quale che sia il giudizio
sull'equilibrio raggiunto tra crescita, giustizia
sociale e risanamento, bisogna far fronte a
un'emergenza. Dal prossimo anno, il Dpef può diventare
uno strumento importante a condizione che riacquisti
l'identità di un programma di vasto respiro».
Altrimenti, meglio toglierlo di mezzo…
«Certo. Non ci sono vie di mezzo. Se deve rimanere così,
tanto vale andare direttamente alla legge Finanziaria.
Oppure deve riacquistare la dignità di un programma
economico di respiro, partendo da un lavoro che ci dica
entro un anno cosa è l'Italia di oggi. Mettiamo
insieme, in una sorta di laboratorio allargato, i più
grandi centri di ricerca del Paese. Ridiamo un ruolo al
Cnel. E costruiamo il quadro analitico più condiviso
possibile della realtà economica e sociale del Paese.
Una sorta di grande semilavorato sul quale il soggetto
politico, Governo e Parlamento, organizzi la propria
discussione. Un Dpef così sarebbe davvero il modo di
evidenziare il cambiamento di gestione della cosa
pubblica».
Antonio Macaluso Corriere 16 Luglio 2006