D’Alema: inascoltato l’invito alla tregua.
In Libano e a Gaza usate armi proibite?

Denunce sull’uso sistematico da parte di Tsahal di armi proibite dalle convenzioni internazionali, al fosforo bianco o a frammentazione, piovono da Gaza come dal Libano.

E la Croce Rossa Internazionale, per la prima volta in questa crisi, denuncia ufficialmente la violazione israeliana delle Convenzioni di Ginevra, dunque del diritto umanitario internazionale, con gli attacchi ai convogli umanitari e alle ambulanze sul suolo libanese. Mentre al Palazzo di Vetro di New York, la Cina chiede al Consiglio di Sicurezza la condanna dell’uccisione dei quattro osservatori dell’Onu l’altra sera. Intanto, il bilancio di 16 giorni di guerra non dichiarata ammonta ad oltre 600 persone uccise, in grandissima maggioranza civili, in buon parte donne e bambini, in campo libanese; a fronte di 53 in quello israeliano. Senza contare i 3 miliardi di dollari di danni provocati dai bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare, la distruzione dei porti e degli aeroporti, l’azzeramento di metà e oltre delle infrastrutture, il quarto di popolazione civile sfollata. E senza contare gli oltre 120 palestinesi morti a Gaza e nei Territori Occupati.

Ma Israele tira dritto. Dalle file del governo Olmert, ieri si è fatto sentire il ministro della giustizia per affermare che "di fatto" l’esito della Conferenza internazionale di Roma equivale ad un "via libera" alla prosecuzione dell’"offensiva" nel Paese dei Cedri. Dallo stato maggiore, il comandante del fronte Nord ha comunicato che questa prosecuzione si estenderà "fino a diversi ordini o al conseguimento degli obiettivi che ci siamo prefissati". Dalla riunione del Consiglio di guerra, convocato dal primo ministro, è arrivata l’indicazione di "non espandere" le operazioni, intendendo quelle di terra, bensì di "intensificare" i raid aerei. Dai media militari, è stata diffusa la notizia che il capo di Stato maggiore ha chiesto di ridurre i villaggi del Sud del Libano, certo dopo aver "avvertito" la popolazione, a "scatole di sabbia", onde evitare spiacevoli sorprese come le perdite nei combattimenti casa per casa a Bint Jbeil.
Così la guerra continua, fino alla prossima occasione per la comunità internazionale di imporre un cessate il fuoco: dopo aver perso, in forza del blocco statunitense, quella della Conferenza alla Farnesina dell’altro ieri. E nel frattempo altri attori, prevedibilissimi, si affacciano sul tetro teatro della guerra: è stata Al Qaeda, ieri, a farsi sentire per non lasciare al campo dell’islamismo sciita la bandiera del combattimento in prima linea e per rilanciare la sua ipoteca sullo scontro con "gli ebrei e i crociati". Lo ha fatto con un nuovo messaggio in video, su Al Jazeera (“as usual”...), del numero 2 dell’organizzazione, l’emiro egiziano Al Zawahiri: che ha invitato a non colpire la sola Israele ma "l’intera coalizione occidentale" che le "fornisce armi per uccidere i musulmani"; e indicato con chiarezza l’obiettivo strategico di accendere "la jihad" in Palestina.

Ma chi deve sentire, fa finta di nulla. O pensa che “the show must go on”, deve continuare lo spettacolo, quello della destabilizzazione globale e dello scontro di civiltà indotto a forza di bombe. Malgrado tutto. Malgrado i rischi, già verificati sul terreno della guerra d’Iraq, di incontrollabilità degli scenari. Malgrado il consenso all’attuale inquilino della Casa Bianca sia fermo al 36 per cento dei cittadini statunitensi. Malgrado un quinto fra loro tema addirittura una "guerra mondiale". Malgrado il fedele alleato Tony Blair, primo ministro britannico, sia giunto a Washington preceduto dai rumori di spaccatura del suo governo e di sfiducia del suo partito, il Labour, sulla condotta internazionale. Malgrado ciò, ieri il presidente Geroge W. Bush ha ribadito la linea degli Usa: si è detto "turbato" dalle "distruzioni che si sono prodotte" (questa l’espressione) in Libano, ma ha rifiutato ogni cedimento a quella che definisce "una pace ingannevole". Affermando che "la radice del problema" è una sola: quella formata dalle "attività terroristiche". E’ la base delle scelte difese da Condoleezza Rice anche a Roma mercoledì: ossia il rifiuto ad indicare la priorità d’una tregua.

Il governo italiano ha dato ieri segno di non voler rimanere prigioniero del risultato immediato della Conferenza ospitata, colto con delusione dai libanesi anzitutto, come pure dal mondo arabo a partire dal “moderato” governo egiziano, e dagli europei più esposti nella sfida alla politica Usa, in primis la Francia. Il Day After della Conferenza internazionale, così, è stato scandito per parte italiana dalle sortite pubbliche di Massimo D’Alema e dello stesso presidente del consiglio dei ministri, Romano Prodi. Nelle dichiarazioni rese dall’uno e dall’altro agli organi parlamentari, ma anche cogliendo un’occasione imprevista e speciale: la visita, chiesta e ottenuta urgentemente da parte palestinese per invocare una "Conferenza internazionale in tempi rapidi sul Medio Oriente" e annunciare "l’imminenza" del rilascio del caporale israeliano Shalit, del presidente dell’Anp, Abu Mazen. Accanto al quale il ministro degli Esteri ha potuto così dichiarare la "solidarietà al popolo palestinese", richiamando la pari dignità dell’emergenza bellica a Gaza e nei Territori Occupati rispetto a quella in Libano e stigmatizzando il fatto che della Conferenza "non è stato raccolto l’invito alla moderazione", rivolto alle azioni di Israele. E Prodi ha potuto sottolineare che "in nessun modo" le conclusioni della Conferenza stessa possono essere "intese" come "un’autorizzazione a proseguire le azioni militari". Rimarcando, al contempo, che effettivamente il vertice ha "mancato" di guadagnare "l’obiettivo" d’un cessate il fuoco. E indicando che anche per parte italiana l’ipotesi di una futura forza multinazionale d’intervento non può essere realizzata "dalla Nato" ma dev’essere preceduta da un "accordo politico" e da "un mandato dell’Onu".

Chiarimenti importanti. Perché la visita di Abu Mazen serve a segnalare una falla strutturale, oltre che l’esito deludente, della Conferenza di mercoledì. E perché, mentre la guerra con le sue imprevedibili variabili ha guadagnato sciaguratamente altro tempo, la prossima tappa è già segnata: si chiama Consiglio di Sicurezza. Dove già nelle scorse ore si è confermato l’ostruzionismo statunitense, persino sulla condanna proposta dalla Cina dell’uccisione dei 4 dell’Onu, come denunciato dalla Russia ed esasperando il presidente di turno, l’ambasciatore francese de la Sabliere. Lo stesso che ha presentato un memorandum di Parigi per indicare in sequenza l’appello al cessate il fuoco, un negoziato preceduto dallo "scambio di prigionieri", infine una forza "di garanzia" che risponda "al segretario generale delle Nazioni Unite". Il ministro francese Douste-Blazy intende proporre su queste basi una risoluzione. E’ l’ultima occasione per la pace ma anche per la dignità europea: anche per l’Italia, alla faccia delle ironie alla Ferrara o dei diktat atlantici del Corriere della Sera.

di Anubi D’Avossa Lussurgiu (Liberazione venerdì 28 luglio)