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Rassegna Sovietica su Lev Nikolaevic Tolstojtratto da http://www.cultureducazione.it/
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Scritti tra il 1908 e il 1910, gli interventi di Lenin inevitabilmente si leggono rivolgendo il pensiero a quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni, di modo che nella coscienza del lettore la rivoluzione del 1905 cui si accenna nel primo dei tre articoli sembra sdoppiarsi in quella del ’17, creando un curioso effetto di distorsione temporale della memoria. Ponendosi fuori dal coro delle celebrazioni e dei riconoscimenti tributati a Tolstoj, unanimemente considerato in quegli anni massimo scrittore vivente, Lenin, mentre solidarizza con l’aspro fustigatore del governo, della Chiesa e della scienza borghese, considera poi ridicolo il «profeta che scopre nuove ricette di salvezza dell’umanità»[2]; le antinomie da cui, secondo Lenin, il tolstoismo è segnato, riflettono come in uno specchio le «contraddittorie condizioni in cui fu posta l’azione storica dei contadini»[3] nel corso del processo rivoluzionario russo. La contraddizione, considerata da Lenin come elemento negativo, ostacolo ad un progresso semplicisticamente rappresentato come cammino verso un radioso avvenire, costituisce invece la vera, inesauribile ricchezza del pensiero di Tolstoj, proiezione di un mondo interiore carico di straordinaria energia intellettuale e spirituale; il demone del dubbio (respinto come segno di debolezza e decadimento morale dagli intellettuali di fede marxista), impedendo a Tolstoj di irrigidirsi sulle proprie posizioni, ha probabilmente accentuato la sofferenza di un animo generoso ed intransigente, ma ha reso possibile il dispiegarsi di tutte le risorse di un’individualità eccezionale. _______________________________________________________________________________________ * Articolo apparso sul n. 4 di “Slavia”, ottobre-dicembre 1999. [1] V. I. Lenin, Tolstoi specchio della rivoluzione russa, in “Rassegna sovietica”, n. 8, 1950, pp. 3-15; dei tre articoli il primo, scritto in occasione dell’ottantesimo compleanno di Tolstoj, era stato pubblicato il 24/9/1908 sul n. 35 della rivista “Proletarij”, il secondo e il terzo erano apparsi a pochi giorni dalla morte dello scrittore, rispettivamente il 29/11/1910 sul n. 18 di “Sotsial-Demokrat” e il 28/11/1910 sul n. 7 di “Nasc Put”. [2] Ivi, p. 5. [3] Ivi, p. 6.
B. Meilakh
Tolstoj, ormai anziano, lucidissimo di mente ma provato nel fisico, sfinito dai dissapori familiari e dalla consapevolezza di vivere, nel lusso, un’esistenza che ormai gli ripugnava, conservò fino all’ultimo «la costante freschezza della sua percezione della vita, non cessò mai di osservare ciò che v’era di nuovo nel consueto. Egli confermò ancora una volta la verità: la bellezza del mondo invecchia per colui che invecchia con l’anima, ma rimane eternamente giovane quando la sai vedere»[2]. La capacità di cogliere ogni minima sfumatura della realtà, mentre gli consentiva di guardare al mondo e agli uomini con curiosità ed interesse sempre nuovi, doveva d’altro canto rendergli più doloroso l’aspro conflitto per il testamento che si scatenò in famiglia e che lo vide contrapposto, in un crescendo d’incomprensione e sofferenze, alla moglie Sof’ja, istigata dai figli Andrej e Lev. Scosso dalle critiche di coloro che gli rimproveravano un tenore di vita in contrasto con la sua aspirazione ad un’esistenza povera e austera, Tolstoj, da sempre implacabile critico di se stesso, non esitò neanche in questa circostanza ad autoaccusarsi, trovando però nella moglie e nei figli maschi (con l’unica eccezione di Sergej, il primogenito) un ostacolo insormontabile all’attuazione del suo desiderio di sottrarre i diritti d’autore delle sue opere alla famiglia perché divenissero proprietà sociale. Sostenuto nella sua battaglia dalle figlie e dal collaboratore Vladimir Grigorevič Certkov, lo scrittore si trovò ben presto al centro di una lotta accanita in cui tutti coloro che circondavano Tolstoj non presero in considerazione che il loro principale e sacrosanto dovere era di preoccuparsi della sua tranquillità, di creare intorno a lui un’atmosfera di calore, di attenzione, di risparmiargli emozioni superflue. Essi non pensavano affatto che ogni giorno, ogni ora di questo grandissimo genio dell’umanità era prezioso. E in questo consisteva il più grande errore di entrambi “i partiti”, errore che non trovava giustificazioni[3]. Infine, nella drammatica notte dal 27 al 28 ottobre 1910, avendo intravisto la moglie frugare tra le pagine del proprio diario segreto, Tolstoj decise di attuare la fuga che andava già da qualche tempo meditando. Accompagnato dal medico e amico Dušan Petrovič Makovitskij, Tolstoj abbandonò Jasnaja Poljana, iniziando quello che doveva rivelarsi un drammatico tragitto verso la morte. Durante le tappe del viaggio in treno, che da un certo punto, per volontà dello scrittore, proseguì, in condizioni piuttosto disagiate, in terza classe, la prodigiosa attività di Tolstoj non si interruppe: egli conversò con i passeggeri, in prevalenza contadini, esponendo le proprie teorie e terminò di scrivere un articolo sulla pena capitale. Tolstoj ci viene descritto non come un essere disgustato della vita, in cerca di pace e di oblio, ma al contrario come un uomo coraggioso che, decidendo ad ottantadue anni di mutare bruscamente il tenore di un’esistenza agiata, mantiene ferma l’intenzione di proseguire battaglie civili che ormai sono tutta la sua vita. Ammalatosi improvvisamente di polmonite il 31 ottobre, Tolstoj fu costretto ad interrompere il suo viaggio alla stazione di Astapovo. La terza parte dell’articolo di Meilakh riferisce dei tentativi delle alte gerarchie governative ed ecclesiastiche di inscenare il pentimento e la riconciliazione dello scrittore con la Chiesa ortodossa, che lo aveva scomunicato nel 1901[4]. Intanto, mentre gli occhi dell’opinione pubblica mondiale si appuntano su un piccolo sperduto villaggio dove una grande e nobile vita a poco a poco si spegne, cresce la sorveglianza della polizia, che sta predisponendo funerali “blindati”; la commozione e il sincero dolore suscitati dalla morte di Tolstoj, sopraggiunta la mattina del 7 novembre, sono tali che nessuna disposizione di ordine pubblico può impedire la formazione di un lungo corteo spontaneo che accompagna la bara dalla stazione di Zaseka a Jasnaja Poljana. Il saggio di Meilakh è corredato di testimonianze e citazioni da documenti ufficiali che confermano lo scrupolo dello studioso nel riferire con onestà vicende in cui l’aspetto privato dolorosamente si scontra con la dimensione pubblica di un uomo che avrebbe voluto scomparire nel silenzio ma la cui morte, purificata da un’estrema rinuncia, diviene in un certo senso rappresentazione dell’angoscia e della sofferenza del mondo. _______________________________________________________________________________________ [1] B. Meilakh, Ritiro e morte di Lev Tolstoi, parte I, in “Rassegna sovietica”, n. 1, 1961, p. 17; il lungo articolo era apparso l’anno precedente sui nn. 10 e 11 della rivista “Novy mir”. [2] Ivi, p. 17. [3] Art. cit., parte II, “Rassegna sovietica”, n. 2, 1961, p. 43. [4] Art. cit., parte III, “Rassegna sovietica”, n. 3, 1961, pp. 17-22. A. Moravia - P. Zveteremich
Il nichilismo distruttivo di Tolstoj, magistralmente raffigurato nel protagonista di Resurrezione, principe Nechljudov, si ferma al popolo; la rabbia da cui il principe si sente invaso dinanzi all’indifferenza dei giudici e degli avvocati che consulta allorché scopre di essere stato anni addietro il corruttore della donna che ora dovrebbe giudicare, svanisce dinanzi «alla ragazza che ha sedotto, che non è data affatto come una santa, ma come una persona abbastanza misteriosa, perché i personaggi di Tolstoi sono misteriosi, il popolo custodisce nel suo cuore un mistero, che è il mistero della semplicità e della visione del reale che manca all’uomo di cultura»[2]. Moravia afferma inoltre che Tolstoj, anticipando nella propria esperienza personale la crisi tra l’individuo e la realtà che sarebbe divenuta generale nella cultura europea del Decadentismo, proietta dubbi e interrogativi, ma anche proposte di soluzione, nel nostro tempo; per questo non si deve tener conto soltanto del primo Tolstoj (luminoso, grandissimo nell’ispirazione artistica) «ma bisogna vedere anche l’ultimo Tolstoi, il quale per molti aspetti è il più moderno»[3]. Nel suo contributo al dibattito, Zveteremich, ricollegandosi agli articoli di Lenin su Tolstoj, si sofferma sul rapporto «di consanguineità, di immedesimazione con il popolo» che trova espressione già nelle pagine di Guerra e pace, dove il «senso di serenità di fronte agli avvenimenti, di saggezza antica e di comunione con la natura, con le cose», appare come «il frutto tipico della coscienza contadina»[4]. Mentre nella trasfigurazione artistica il mondo popolare viene reso con un realismo suggestivo ed attento al tempo stesso, nella parte propositiva dell’opera di Tolstoj, che trova espressione nei saggi e negli articoli, secondo Zveteremich la visione dello scrittore diviene «astratta, inoperante, antistorica ed oggettivamente perfino reazionaria»[5]; parole piuttosto pesanti, nettamente in contrasto con la posizione di Moravia che, intellettuale di sinistra privo di rigidezze ideologiche, aveva invece, giustamente, sottolineato la modernità di Tolstoj nel suo essere «un uomo che sentiva fortemente il lato associativo, il lato della società, l’umanità nella sua complessità»[6]. _______________________________________________________________________________________ [1] Il problema del popolo in Leone Tolstoi, in “Rassegna sovietica”, n. 3, 1961, pp. 6-7; un sintomo della profonda crisi che attanagliò lo scrittore è l’episodio conosciuto come “l’angoscia di Arzamas”; la notte del 2 settembre 1869, nella locanda di Arzamas, una delle ultime tappe di un viaggio a Saransk per l’acquisto di una tenuta, Tolstoj si sveglia all’improvviso, sopraffatto da un senso di terrore che non riesce a controllare e che si attenua solo verso l’alba. [2] Ivi, p. 8. [3] Ivi, p. 9. [4] Ivi, p. 11. [5] Ivi, p. 13. [6] Ivi, p. 7. V.B. Šklovskij
La combinazione di diversi piani gli è necessaria per illustrare il valore di ciascuno di essi. Si tratta di leggi di connessione, di un montaggio»[1]; la tecnica espressiva, che consente a Tolstoj la definizione di un tessuto narrativo duttile e nitido al tempo stesso, non può essere trasferita al linguaggio del cinema, che «il più delle volte ha distrutto la molteplicità di piani della prosa tolstoiana. Ha smarrito il segreto della sua maestria»[2]; le parole di Šklovskij, acuto critico letterario e appassionato cultore di cinema, sembrerebbero adombrare la convinzione che qualunque trasposizione cinematografica dei romanzi tolstoiani sia destinata al fallimento, se non finanziario, artistico; è indubbio che chiunque abbia amato i personaggi di Tolstoj nella loro ricca umanità (anche quelli negativi, come Stiva Oblonskij o Anatolij Kuraghin) non possa non avvertire l’inferiorità di qualunque copia rispetto al modello, pur nella consapevolezza della diversità dei tempi e delle leggi che ogni genere artistico impone; d’altro canto «molti hanno avuto un primo approccio con Tolstoj attraverso il cinema o la televisione»[3], il che può far riflettere sul ruolo didattico-divulgativo dei mezzi di comunicazione che, purtroppo, altre volte perseguono finalità di ben più basso profilo.
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[1] V. B. Šklovskij, La prosa di Lev Tolstoj e il cinema di domani, in “Rassegna sovietica”, n. 6, 1979, p. 6 (da “Iskusstvo kino”, n. 9, 1978). [2] Ibidem. [3] Ivi, p. 12.
J. Lakšin
La fermezza del carattere indubbiamente spingeva Tolstoj ad una sincerità spigolosa, ma mai offensiva o cattiva: «difendeva con accanimento la sua concezione della vita, degli uomini e delle forme artistiche attaccando polemicamente tutto ciò che gli era artisticamente estraneo. I suoi giudizi negativi non fanno vacillare il nostro giudizio sugli altri grandi uomini, ma spesso danno delucidazioni sul mondo degli ideali e delle passioni tolstoiane»[1]. Lo stesso Čechov sorrideva raccontando come, al termine di una sua visita a Gaspr, Tolstoj, che pure gli era sinceramente affezionato, dopo averlo abbracciato e baciato, gli aveva confessato di non sopportare i suoi drammi, peggiori, a suo dire, di quelli di Shakespeare[2]. Le argomentazioni di Lakšin, precise e suffragate da riscontri testuali e testimonianze, tendono a dimostrare che nel tratteggiare il personaggio inumano e crudele di Ivan Petrovič Aleksandrov nel dramma Il cadavere vivente, Tolstoj, nonostante le critiche rivolte ad Ibsen, tenne presente la sua piéce intitolata Il nemico del popolo[3]. _______________________________________________________________________________________ [1] V. J. Lakšin, Il «genio» nella drammaturgia di Tolstoj, in “Rassegna sovietica”, n. 3, 1980, p. 39 (da “Teatr”, n. 8, 1978). [2] L’episodio, ricordato da Annelisa Alleva (art. cit., p. 30), viene ampiamente descritto nel saggio di V. J. Lakšin Tolstoj i Cechov, Mosca, 1975. [3] Ivi, p. 38; il riferimento ad Ibsen, nonostante la spiccata antipatia nutrita da Tolstoj nei suoi confronti, è perfettamente plausibile; nei Quattro libri di lettura un evidente richiamo al Mercante di Venezia di Shakespeare, presente nel racconto Il duro castigo, è la conferma, seppur indiretta, di un riconoscimento artistico mai apertamente concesso (L. Tolstoj, Tutti i racconti, a cura di I. Sibaldi, Milano, Mondadori, 1991, p. 996).
G. Cerrai
eppure, nonostante il riferimento costante alla realtà e le preoccupazioni legate alle difficoltà organizzative dell’attività didattica, Tolstoj si lasciò conquistare da un’utopia, come la definisce Cerrai: «insegnare nella scuola di Jasnaja Poljana significa credere, in definitiva, ai valori morali innati nel popolo russo cui si rivolge siffatta educazione; il fanciullo e il contadino sono i più vicini ai valori ideali dell’umanità e quindi l’educazione non potrà configurarsi che come una sorta di “maieutica”, di verità già in nuce possedute»[1]. Tolstoj seppe comunque coniugare lo slancio ideale alla concretezza del quotidiano lavoro di insegnante, come Cerrai dimostra attraverso la traduzione di una pagina dell’Abbecedario, in cui vengono fornite indicazioni estremamente chiare e semplici su come insegnare a leggere ai bambini; avvertendo che tutti i metodi per apprendere le lettere dell’alfabeto sono buoni, «se l’allievo non si annoia»[2], ancora una volta Tolstoj mostra di considerare le esigenze del bambino prioritarie rispetto ad ogni forma di pigrizia intellettuale o prassi educativa consolidata dall’abitudine.
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[1] G. Cerrai, Aspetti della pedagogia libertaria in Leone Tolstoj, in “Rassegna sovietica”, n. 5, 1989, p. 146. [2] Id., Da una pagina dell’Abecedario: motivi pedagogici innovatori in L. Tolstoj, in “Rassegna sovietica”, n. 4, 1990, p. 153.
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